martedì 30 aprile 2013

La giusta esposizione

M

i piace immaginare la vita come uno di quei soggetti che un principiante dello scatto non riuscirà mai a mettere a fuoco. Troppo facile fotografare qualcosa di statico, catturarne i dettagli, goderne l’effetto. La vita chiede ben altra professionalità per farsi ritrarre nel migliore dei modi, per afferrarne il movimento: tanto allenamento, esperienza, tecnica e, di tanto in tanto un bel po’ di fantasia. Se noi siamo la macchina abbiamo ben poco da fare, siamo programmati per fare qualcosa che produrrà risultati modesti se osserveremo tutto sempre dallo stesso punto di vista: come vivere la vita in modalità “auto”. La fotografia richiede un bel po’ di elasticità per non rendere freddo ed ibrido il nostro prodotto. Di questi tempi mi compiaccio dei miei scatti, li trovo anche godibili sebbene il soggetto sia sempre monotono e difficile da gestire. La vita non si ferma, guai se lo facciamo pure noi. Ci sto impiegando tempo, ma era del tutto prevedibile. Sto provando a superare l’ostacolo più grande: confrontarmi senza subirne le conseguenze. Ed è proprio nella ostinata ricerca dell’altro (cui è quasi sempre seguita la condanna del proprio stato), che ho trovato la massima insoddisfazione, il totale abbandono di me stesso, la caduta verso un mondo fatto di niente. Non è cambiato niente, o forse è cambiato tutto. Non è difficile elencare fatti, situazioni concrete, eventi. Non c’è stato nulla di tutto questo. Decisamente più complicato seguire passo passo gli impercettibili movimenti del proprio pensiero, la tendenza della mente a colorarsi, abbandonando il grigio dominante. Sta cambiando qualcosa nel mio relazionarmi alle persone, alle cose, sta cambiando qualcosa nel mio modo di accettarmi, senza per questo piangermi addosso od urlare al mondo il mio disagio. Questi fogli continuano e continueranno a rappresentare il mio personale angolo di pianto, di sofferenza, la mia scatola dove di tanto in tanto inserisco le mie fotografie alla vita. Ma vorrei tanto ci fosse spazio per gli scatti dai forti contrasti, dalla gamma cromatica perfetta, persino dalla sovraesposizione alla luce. Vorrei ci fosse spazio per una vita che voglio vivere nonostante tutto. Mi sto spostando dove la vita si sposta. Scelgo sempre l’angolazione migliore, il tempo giusto, la giusta sensibilità. Forse ci riuscirò. Il maledetto confronto. Ne ho ancora paura, ed ho paura di me stesso, di quanto ancora sono capace di volermi male. E non me lo so spiegare.

 
fotografare

domenica 28 aprile 2013

Evoluzioni

C

’è qualcosa che si muove in tutta questa staticità. Le cose stanno cambiando, le cose sono cambiate e cambieranno. Non mi riconosco più nemmeno io, così rivoltato nel caos di questi mesi. Ma proprio nel marasma sono riuscito a fare chiarezza dentro e fuori di me. Un percorso contorto che sta finalmente arrivando ad un primo traguardo. Sembrano trascorsi secoli da quella spensierata vacanza di Settembre, tanto sono evoluto pur nella mia costante involuzione. Ho provveduto a gettare gli scarti, a trattenere l’essenziale di ogni mia dannata riflessione per comprendere dove sbagliavo, dove sbaglio tuttora, nonostante tutto. Attualmente mi sento uno sfigato; forse lo sono ma riconoscerlo è un gran bel passo avanti. E’ un po’ come la primavera che ritarda, come quando dicono che le stagioni sono indietro di qualche mese e siamo ancora in inverno. Anch’io. Sono un ventenne con il fiato corto, costretto ad indossare cervello e corpo di uno di quarantacinque. Credo che, se avrò vita, tra vent’anni finalmente sarò un cinquantenne sereno e realizzato. C’è anacronismo interiore. Non posso continuare a vivere rapportandomi anche con persone più giovani e scoprendo di starci pure bene. Come mai? Sto bene con tutti, il mio spirito libero di giovane ancora in credito con la vita mi spinge oltre le convenzioni, quelle anagrafiche, quelle sostanziali di vita ed abitudini diverse. C’è stata una netta evoluzione. Triste, sotto l’aspetto della presa di coscienza della vacuità di un mondo dove ho cercato di riempire vuoti esistenziali. Positiva e soddisfacente sotto il profilo della progressiva accettazione di me stesso. La vita è questa, la vita sei tu che assorbi tutto come una spugna e nessuno riesce a strizzarti per spurgare il marcio che si accumula. Aspetto una bella strigliata, aspetto di abbandonare le catene che imprigionano il mio cervello a terra. L’evoluzione c’è e passa attraverso la necessaria rivalutazione di ciò che sta al di là di uno schermo. Cacchio, è solo uno schermo! Cacchio Enzo ma di cosa hai realmente bisogno? Realmente intendo? Vuoi davvero continuare ad aspettare qualcuno che riempia la tua vita di sole parole? Ma scherzi? Vai al sole, corri, respira, esci da questa gabbia. Il mondo è delle persone e tu sei una persona. Maledettamente sensibile, stramaledettamente masochista, riflessiva, pensierosa, attaccata alle proprie idee. Non serve o meglio, non ti cambia la vita. Scappa Enzo, scappa. Appena puoi.

 
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sabato 27 aprile 2013

Qualità (molto) nascoste

P

overo Enzo. Significherà qualcosa se non ho l’abitudine di guardarmi allo specchio salvo poi far si che lo faccia la mia anima. E cosa vedo? Mio Dio, sempre e costantemente lo stesso casino. Sto provando a tirare fuori qualcosa di utile dal virtuale nonostante me ne stia piano piano allontanando. Ad aiutarmi alcuni “picchi” di orgoglio verso estemporanee vittime sacrificali, colpevoli della solita fugacità. Eh si, bene o male io sono anche ciò che gli altri vedono e non è certo bello quello che esibisco. Passi l’aspetto estetico opinabile, ma è la mia interiorità a pagare dazio; eh si, per quanto vogliamo nascondere noi stessi e la nostra natura più intima e vera, ci sarà sempre un tale, una tale di turno che innescherà riflessioni ed autovalutazioni. Potrei trovare un aggettivo che mi si addice per ogni lettera dell’alfabeto. E sono sicuro che, scorrendo le ventuno lettere troverei solo attributi negativi. Se da un lato, non esasperare gli aspetti positivi trasmette un segnale di presunta umiltà, ingigantire quelli negativi è solo ed unicamente segno di pessimismo, masochismo, assenza di autostima. Io sono l’una e l’altra cosa ma, alla resa dei conti sono anche un uomo senza qualità. La domanda è: ammesso anche ne abbia, cui prodest? Ci risiamo, perché il nocciolo della questione è sempre lo stesso: l’altro/a. Non riesco a sfuggire alla relazione umana, sto facendo ammenda di tutta la merda che ho tirato al mondo in questi mesi. Ma, c’è anche una ragione precisa del mio astio universale. Ogni volta che mi confronto, io mi dissolvo fino a diventare invisibile. E’ un po’ come quando perdi ai punti ma tutti ti fanno i complimenti, quando si dice che devi ripartire da quella sconfitta per trovare gli stimoli ad andare avanti. Perché io di complimenti ne ricevo e sono sempre graditi. Non lo do ad intendere perché io non sono portato a farne dunque, non capisco cosa può spingere una persona a rivolgerli a me. Io mi chiedo come sono capace di queste costruzioni del pensiero che provocano la nausea tipica del mal di mare. E rido, proprio adesso sto ridendo, immaginandomi mentre stacco la mia testa dal collo e la butto in mare perché si disperda. Come può vivere serenamente un uomo che crede nella presenza umana come elemento essenziale per la sua stessa esistenza? Avete visto? Si è capovolto tutto. Sono sempre io? E se credo nella presenza umana, perché sto ancora davanti a questo schermo? Perché qui, comunque ritrovo la presenza più importante: me stesso.

 
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venerdì 26 aprile 2013

Un amico fidato

S

pesso scrivere diventa la soluzione ad un possibile momento di tristezza. Sei bello stravaccato sul letto, pensi a quello che hai fatto oggi, a quello che dovrai fare domani, ben sapendo che non si tratta di cose essenziali, ma di semplice routine. Poi la mente vola a certe voci dimesse, al mio goffo tentativo di confortarle, al mio stesso momento di cronica difficoltà. Mi alzo di scatto, avvicino il portatile alle gambe incrociate e scrivo. Scrivo le stesse cose di ieri, anticipo quelle che scriverò domani, tra un mese, tra un anno. Anche ripetere e ripetersi è un modo per vincere un momento di tristezza. Chi non ha amici ma ha un tremendo desiderio di parlare, scrive. Non ne posso più di questo grigio ma non sono l’unico. Come sapete sono caos nel caos, ma soprattutto sono grigio nel grigio. Il tempo è triste come me, il mondo è nel casino come il mio universo interiore. E’ di nuovo qui, il mal comune mezzo gaudio. Maledetto mal comune. Tanti giorni a casa, spesso mi pento di prendere giorni di ferie;riesco a giustificarmi con la solita storia del riposo, dei tempi finalmente lenti, dell’opportunità di qualche gita per cambiare aria. Puntualmente non è così ma, tra le tante cose ho fatto l’abitudine anche a questo. E’ tutto tranquillo, tutto preso con le dovute cautele, non ci sono momenti urlati e nemmeno meschini tentativi di togliersi di mezzo dal mondo virtuale. Sono qui, scrivo, sto bene, e non sento soprattutto il bisogno di pretendere che qualcuno lo sappia, O mio Dio, adesso che ci penso devo dire che mi sto davvero disabituando a rendermi pubblico, fatta eccezione per questo diario. E allora qual è questo momento di tristezza dal quale sto scappando ora, mentre butto giù due righe? E’ quello che ti afferra e ti porta le farfalle allo stomaco quando d’improvviso pensi al tempo che scorre via. Mi tocca ripeterlo: ho smesso di preoccuparmi del lavoro che l’età fa su di me. Ma sono seriamente preoccupato di quello che può fare e sta facendo sugli altri, sulle persone a me più vicine. Ho sentito troppo parlare di morte in questi tempi, vorrei uscire da questo pantano fatto di incubi notturni e pensieri bui. Ancora una volta, e senza volerlo, indosso una maschera. Appaio anche piuttosto tranquillo ma penso di tutto. Si dirà che ho bisogno di svago, di parlare, di uscire. Cazzo, non ne ho l’opportunità. Non riesco a far capire che ognuno pensa a sé, e che bisogna avere due palle così per uscire dal tunnel. Forse ho raggiunto le trentacinque righe. Ora mi rimetto stravaccato sul letto e attendo il sonno. Il momento di tristezza è passato. Grazie blog.

 
scrivere

giovedì 25 aprile 2013

Zona franca

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volte penso che questi fogli sono tutta la libertà che voglio. Niente oceani da attraversare, montagne da scalare, nessun luogo sperduto nel mondo da raggiungere. Scrivere è la mia più naturale forma di espressione. Tuttavia non è facile farlo ponendosi come obiettivo di capire ed apprendere la lezione. Qualora fossi anche riuscito nell’intento, non avrei più bisogno dei fogli. La libertà è bella per questo: puoi essere chi vuoi, dire ciò che vuoi, fare un passo avanti, altri due indietro, e nonostante tutto continuare ad essere te stesso. Passare pure per pazzo, liberarti delle scorie e prendertela con il mondo: bello vero? Chissenefrega se il mondo non ci arriva oppure fa orecchie da mercante. Chi è il mondo? Cosa rappresenta? Quale ruolo gioca nella vita di ognuno di noi? Ho libertà di movimento e di pensiero fino a quando il mio territorio sarà la scrittura. Torno ad elogiare la mia capacità di analisi, che di per sé è già una forma di libertà. Una gran parte di noi vive prigioniera delle proprie paure, delle menzogne, dell’esibizionismo gratuito; lo chiedono la realtà, la società e, nel mondo di oggi, pure la piazza di internet. Non ci sto a queste condizioni. E da tempo non mi vergogno più né delle mie paturnie, tantomeno della mia pazzia conclamata. Vado e vengo in continuazione. Ma mi accorgo che, varcati i confini del mio territorio preferito, inevitabilmente scendo a compromessi con la società. La mia libertà è dunque qui. Ora devo capire quale ruolo abbia il mondo, il prossimo, la società. E’ assodata la mia incomunicabilità. Non posso passare per ipocrita e dire che del mondo non mi frega nulla: se così fosse non sarei caduto nel tranello dei messaggi subliminali, della meschinità dei gesti per attirare l’attenzione. Vorrebbe dunque dire che io del mondo ho bisogno. Sarebbe un ammissione faticosa, difficile da digerire ma, terribilmente veritiera. Dove sbaglio? Dove ho sbagliato? E sono sempre qui, qui ritorno quando ho bisogno di parlare con qualcuno, qui so di trovare risposte, magari solo abbozzate ma pur sempre risposte. Nell’era della comunicazione in tempo reale, io riduco la velocità. Non c’è nulla da fare, ho bisogno di tempi lenti, di stabilità, di costanza. Denigro e aborro la fugacità della contingenza, voglio e impongo presenza ed esclusività. Mi sorge una domanda inquietante: io voglio, denigro, aborro, impongo. Ma, io cosa offro? E’ solo triste accorgersi di non essere oggetto di critiche, di non essere destinatario di consigli. Semplice: perché non interessa a nessuno. E siamo pari.

 
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martedì 23 aprile 2013

Molestie

E

poi continuo a lamentarmi della mia vita noiosa. Lo sarà ( ed è poco ma sicuro ) quella sociale, il sesso, il divertimento in generale. Azzerata. Da questo punto di vista è appurato che sono morto da molto tempo. A vivere di vita propria, ad autorigenerarsi è il mio cervello, le sue elucubrazioni, i suoi inappellabili giudizi. Dopo aver fatto “clic” abbandonando il mondo di plastica che tanto mi faceva soffrire, forse mi sono privato dell’unica valvola di sfogo a disposizione. Ragionandoci però, è evidente che sto facendo un passo avanti. La vita azzerata è condizione pericolosa; quando non esisteva internet (e tutto l’impalpabile che lo caratterizza) come si faceva? Il divertimento ora sta nel mio cervello, un po’ pazzo, a volte geniale, spesso e volentieri cinico e fascista. Chi più di me è discriminatore di un mondo? Chi? Chi odia a tal punto un sistema? E chi più di me lo fa, senza accorgersi di esserne parte e pure complice? Ecco perché sto uscendo da quel bordello, per provare innanzitutto ad essere un uomo di 45 anni, maturo e responsabile. Perché non voglio più credere che un social network, come una chat, rappresentino uno squallido rattoppo di una vita vuota. Aggiungiamo poi che non potrei più parlarne male e mettiamoci pure ( non dimentichiamolo ) il popolo. Perché se è sbagliato generalizzare, mettere tutti sullo stesso piano, è altresì pericoloso non tenere conto del proprio pregresso e rischiare di fare qualche eccezione. Io non voglio fare eccezioni perché sono espertissimo di fregature, mi rendo perfettamente conto dello straordinario egoismo della gente e non voglio cadere nell’errore di dire “Non sono tutti così”. Invece lo sono per un semplice motivo: ognuno di noi conserva un istinto di sopravvivenza. E’ il nostro fine, che giustifica il mezzo, ogni mezzo. Le persone sono strumenti, che noi usiamo attraverso il gioco delle emozioni, dei sentimenti, dei valori. La mia vita reale settimanale è pur sempre fatta di persone. Oggi ad esempio, sono stato molestato. Ebbene si, esistono ancora persone capaci di giocare alla luce del sole con la tua presunta stupidità, il tuo buonismo, minacciandoti velatamente di farti sentire in colpa. Non riesco più ad esprimere giudizi ma come sempre sono il più feroce critico di me stesso. Mi sento una merda al solo pensiero che questa è la gente, questo è ciò che mi circonda. E vi circonda, fatevene una ragione. Si chiama istinto di sopravvivenza. Non siamo cannibali, ma divoratori di anime. Tutto questo mi fa schifo.

 
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lunedì 22 aprile 2013

Ancora un clic

L

’ho fatto ancora. Come se disattivare un account fosse un gesto che ti cambia la vita, quella scelta che da tempo aspetto di fare. Manca il coraggio per le grandi decisioni, mancano le palle per andare incontro al mondo. E per un povero uomo che ha tantissimo da dare, vivendo però in un mondo vuoto, ecco che i gesti più stupidi diventano memorabili. Comodo prendere decisioni per poi ritornarci sopra, vigliacco soprattutto quando si bypassa il confronto e si scappa. L’autolesionismo tipico, unito alla solita codardia mi ha portato nuovamente a fare “clic”. Via, non ci sono più. Prevedibile anche nella preparazione: messaggi subliminali forti, incisivi, carichi, puntualmente non recepiti. Il mondo virtuale è troppo impegnato a condividere. Come faccio a condividere quando per me significa confrontarsi?. Ed il confronto produce invidia, rabbia e persino rancore. Non mi riferisco a tutto il mondo di plastica, solo a chi ha cercato di coinvolgermi facendomi credere che esiste un briciolo di realtà, di sensazione, di emozione anche stando davanti ad uno schermo. Generalizzo, continuo a farlo ma l’esperienza è soggettiva ed il giudizio senza appello. Porto rabbia. Non è solo il mio passato, è anche e soprattutto il presente. Un presente vuoto più che mai, dove un uomo ricco non può accettare di vivere in mezzo alla povertà. Non ho voglia di privarmi delle mie potenzialità a favore di chi non è in grado di capirle, di apprezzarle, di coltivarle. Su una cosa non transigo. Ho sbagliato ancora nell’accettare i timidi tentativi di condivisione di una vita insoddisfacente da parte di chi ha visto in me un sosia. Ma che ci faccio io alla gente? Sono trasparente, ecco la maledizione. L’aspetto repellente del mondo virtuale è questo: attiri persone molto simili a te che spesso ti immaginano un trenino su cui salire; il viaggio dura poco, il tempo di ritrovare la propria stazione poi si scende dal treno e tu prosegui da solo. Sarò fatto a mio modo, ma vedere e rivedere quelle facce, quegli stati, leggere parole mi inonda di rabbia. Vedete, la vigliaccheria e l’autolesionismo sono note caratteriali che portano all’isolamento e alla frustrazione. Bastava prendere ogni singolo soggetto e fare un altro “clic”. Invece, meglio punirmi, meglio lasciare, nell’ennesimo misero gesto  di attirare l’attenzione. Non importa. Guardiamo la realtà. La domanda è : “Ora come sto?”. Risposta : “Meglio”. Attenzione, non ho nomi da salvare da quella lista: nessuno, eccetto i parenti e coloro con cui ho interagito a livello superficiale.. Ma è tutto fine a se stesso. Materiale, materiale, materiale, materiale….

 
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domenica 21 aprile 2013

Coiti

L

e relazioni virtuali hanno durata e consistenza emotiva simili a quelle di un coito. Non ho detto che provocano lo stesso piacere, questo sia ben chiaro. Da tempo andavo cercando una specie di metafora che sapesse sintetizzare in modo efficace la mia ormai consolidata idea di “amicizia” virtuale. Mi spiace che molti non leggeranno questo articolo, soprattutto quelli che fanno parte della fantomatica lista di amici del più famoso social network; quella che ormai rappresenta il termometro del nostro successo nel mondo sociale. Perché questo messaggio subliminale ( ma neanche poi tanto ) è proprio indirizzato a loro. Il coito è un picco di piacere che solitamente il soggetto virtuale cerca in un momento specifico, sulla base di un’esigenza specifica del momento, salvo poi, come dopo ogni coito che si rispetti, girarsi dall’altra parte ed addormentarsi. Spesso mi chiedo cosa induca alcune persone a comportarsi come se io fossi la puttana di turno. Non ho risposte ma semplicemente sono convinto che la devo smettere una volta per tutte di fare il consigliere da strapazzo, il Freud de no' artri, tantomeno quello a cui si può facilmente promettere di essere tirato fuori dal tunnel. E la devo piantare di lasciarmi trascinare dai momenti “no” e dalle presunte comuni condizioni di malessere altrui. Il mal comune mezzo gaudio è finito. Sono un bel vigliacco perché ho nomi e cognomi di persone mai conosciute veramente, con cui ho scambiato solo qualche parola e verso le quali nutro un odio profondo. Sono malato, questo è certo. Malato di noia, di solitudine, per cui tutto può essere facilmente spiegabile considerata tale patologia. Ma non posso far finta di niente, perché non si può e non si deve ignorare ciò che è stato, anche se di breve durata. Si sono matto. Sembra io stia parlando di furtivi rapporti sessuali a seguito dei quali mi sono innamorato della compagna del momento. Non è così. Pensate un po’, sto solo parlando di amicizia, di parole, di momenti di condivisione. Assurdo no? Io non voglio sentire questa parola: condivisione. Passi se ciò riguardi le solite stronzate che ti passano sotto gli occhi sul video e che fanno del popolo una manica di ipocriti occasionali. Ma non quando si entra nel privato, e poi tutto viene lasciato lì, in sospeso. E’ uno schifo e lo so bene. E’ uno schifo il virtuale, è uno schifo il mal comune mezzo gaudio che preannuncia il coito. Faccio schifo pure io che ne faccio parte. Chi legge, sappia. Il silenzio, sarà la mia arma verso chi, a mio parere è stato un coito. Mi giro dall’altra parte.

 
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sabato 20 aprile 2013

Confronti

L

a tentazione è sempre forte, ragion per cui eccomi qua. Il confronto è sempre deleterio ammesso che esista una definizione oggettiva di vita. Per fortuna non è così, per cui ognuno di noi pensa di star bene o di star male nella propria esistenza in modo del tutto soggettivo. Bisognerebbe poi fare un’ulteriore (importante) distinzione tra teoria e pratica. A parole siamo tutti bravi; ad agire tuttavia, una buona parte di noi ( me compreso ) assomiglia ad una macchina ingolfata. Non credo di aver mai pronunciato in questo blog la parola sesso, forse ho abbozzato un accenno di discorso sulle relazioni sentimentali. Non lo faccio perché sono lontano da questo mondo. Se non vivi la realtà, non potrai mai nemmeno rivivere emozioni sopite, in essa necessariamente contenute. Basta una chiacchierata a tirare fuori alcuni aspetti di Enzo che fanno clamore: sono un credulone, un “boccalone” e sono manifestamente retrogrado e conservatore. Da tempo combatto (?) la solitudine teorizzando sulla perfezione dei rapporti, sulla presenza ed altro ancora. E poi? E poi mi tuffo su di essa ( la solitudine) quasi fosse una nuvola, saltellandoci come un bambino. E’ incredibile ( ma neanche poi tanto) che io ancora mi stupisca quando qualcuno parla di sé, della sua vita e questa sembri sempre così diversa e migliore della mia. Io rifuggo ( o dovrei cominciare a rifuggire ) il confronto, ancor più se virtuale. Ributtarmi nella vita reale a 45 anni cosa può voler dire? E cosa richiede? Non lo so, ma indubbiamente una grande dose di coraggio, di voglia di mettersi in gioco. Enzo è un cretino perché ancora pensa esistano certi valori, certe convinzioni. E dire che fino ad almeno dieci anni fa io una vita ce l’avevo, almeno provavo ad averla sebbene me ne lamentassi sempre. Povero Enzo, dove sei finito. Non sai dove vai, non sai cosa vuoi, eppur ti crucci e un po’ invidi chi ti sta di fronte. Ecco, ci sono precisi momenti in cui sento che la vita mi sta sfuggendo di mano, altri in cui credo di vivere come dovrei, molti ( moltissimi ) nei quali penso di essere uno sfigato, un perditempo, pure vigliacco. Ora, una cosa è certa: ho paura. Della mia ombra, dei miei pensieri, delle possibilità, di scegliere. Di vivere. Non ho timore alcuno quando scrivo ma, pensandoci, so che potrei impiegare questo tempo in modo diverso. Bene, avrò modo di parlarne ancora. Eh no, è qui che cadi Enzo, è qui che ti sbagli. Non ne devi più parlare, piantala di teorizzare per poi scandalizzarti del fatto che gli altri agiscono. Loro. Non sono mai cresciuto, sta tutta qui la spiegazione.

 
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venerdì 19 aprile 2013

Sotto questo sole

V

orrei riuscire a trasmettere la sensazione di calma che avverto. Mi piacerebbe evidenziare quanto sia inusuale, e non solo per l’ormai cronica agitazione interiore che mi appartiene. E’ proprio lo stato materiale delle cose ( lavoro in primis ) a non giustificare il mio procedere lento, affabile, quasi spensierato. Inutile chiedersi il perché, le dinamiche di relazione sono assai incomprensibili, figuriamoci quelle interne. Ho sentito parlare spesso di morte in questi giorni, io pure ne ho parlato. E’ inevitabile perché chiunque incontri, ti chiede di quel ragazzo così giovane che ci ha lasciati e devi rendere conto. Questa settimana ho lavorato poco, pochissimo ma non certo per colpa mia. Insomma, fattori diversi ma il risultato non cambia. La sostanza è che non ho molto da dire né a voi ma ancor più a me stesso; non ho esaurito le scorte, ma dovrei parlare prevalentemente di lavoro e non amo disquisire di argomenti che trovo frivoli, superficiali, per certi versi grotteschi. Bene o male anche il lavoro è fatto di umani e di relazioni che assumono connotati indegni; tuttavia si sa che la maggior parte delle persone con cui interagiamo in ufficio indossa ciascuna la propria maschera. Questo significa che giudicare i colleghi potrebbe rivelarsi non solo immorale ma anche inutile. Risparmiamo dunque fiato, e liberiamo la testa di pensieri superflui: a questo punto è quasi naturale ritrovarmi nella solita posizione yoga del Venerdì; ma è la testa a vivere una nuova vita. Ora , chiamarla “nuova” forse è esagerato. Sono convinto che gli elementi portatori di cambiamento vero, debbano trovare collocazione in quella che chiamo realtà materiale. Poco conta una diversa predisposizione, poco importa se ci poniamo da un punto di vista differente. Alla fine della fiera il rinforzo esterno deve essere tangibile. Ieri ho trascorso un’inaspettata giornata di lavoro e svago. Quando sono sprofondato nel letto mi sentivo uno straccio ma soddisfatto. Ecco, non ho pretese. Quell’Enzo abituato a gridare al mondo parole di fuoco, quasi sempre inascoltate, è in realtà un uomo che ha bisogno di piccolissimi spicchi di tempo da trascorrere alla luce del sole, liberando sorrisi e voglia di vivere. Tutto questo manca, manca sempre. L’inverno mi ha visto perennemente chino su me stesso; ora, a fatica raddrizzo la schiena. Riconosciamo alla luce quel che è della luce. Nulla di nuovo sotto questo sole, ma lasciamo che i fogli si riempiano di un bel niente, mi farà bene rileggerli all’occorrenza.

 
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mercoledì 17 aprile 2013

Caos nel caos

C

hi vive un caos interiore non può che trovarsi a proprio agio nel caos che lo circonda. Prendete ad esempio una persona come me, maniaca dell’ordine: scrivania, cassetti, armadi, tutto è rigorosamente riposto e disposto con maniacale precisione. Ora prendete l’opposto del sottoscritto. Coloro che appartengono al mondo dei disordinati cronici, alla domanda “Come fai ad essere così?” rispondono sempre allo stesso modo: “Io nel mio disordine trovo tutto”. In questi ultimi tempi sto perdendo contatto con la strada interiore che avevo imboccato e sono finito in uno strano posto, senza insegne, indicazioni o altro che lo possa identificare. Bene, ora però questo caos interiore prende a braccetto quello che, al momento è il mio mondo, cioè il lavoro. Perché, per quanto io possa fregarmene del fatto che ho un’occupazione stabile, per quanto abbia preso tristemente coscienza del fatto che è diventato la mia vita, devo riconoscere che il mio lavoro è un caos cosmico. Insomma, quando al lavoro sembra tutto tranquillo, il mio casino interiore diventa incontrollabile; quando anche l’ufficio (o tutto ciò che vi ruota intorno) diventa un’indefinita commistione di situazioni e sensazioni, tutto torna in equilibrio. Il mio caos nel caos. Stiamo bene. Non a caso la prima ed immediata reazione a questa situazione è un pressoché totale menefreghismo. Oggi pensavo a quanto sia assurdo continuare a pensare che la mia vita è noiosa ed apatica. Non è così, non lo è, cavoli. Basterebbe soffermarsi a riflettere su come a volte il destino si diverta a mischiare le carte, a generare dinamiche di relazione impensate ed impensabili magari fino al giorno prima. Ogni giorno è diverso se osservato attentamente in quelle che sono le più impercettibili modificazioni. La mia riflessione è questa. Io sono incapace di fare scelte, credo nell’etica professionale, nel rispetto dell’altro (non si direbbe a leggermi ). Penso che prima di fare un passo, bisognerebbe chiedersi se, facendolo si sta danneggiando qualcuno. Ora, conoscete qualcuno che lo fa nella vita? E sul lavoro? Meno che mai, vero? Invece io lo faccio e continuo ad essere un vigliacco che aspetta solo di pagare dazio della propria non-decisione. Pazienza, sono un debole, non ho la percezione di cosa mi porti vantaggio e cosa mi danneggia, ma sono io. Non c’è modo di cambiarmi. Ora sto osservando il caos, senza alcun pentimento, senza alcun timore. Forse sarà la vita a farmi scegliere, a prendermi per il collo e a buttarmi altrove, dove starò anche meglio. Chissà.

 

martedì 16 aprile 2013

Chi ha rubato le frecce?

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i sto ammalando di normalità, io almeno non trovo altra spiegazione. E questa cosa mi incute pure un po’ di timore. La mia condizione di alieno sembra essersi perduta strada facendo. Dove ho lasciato la strada imboccata qualche mese fa? Le frecce che indirizzavano al senso della vita, sono state rimosse a mia insaputa? Il fatto è che, non riesco a capacitarmi di questo nuovo punto di vista delle cose che non è certo privilegiato anzi, del tutto comune e per niente voluto o cercato. Non accetto tutto questo, non mi piace. Del resto, a fronte di una vita scevra di contenuti, la lotta era tutto ciò che avevo ancora a disposizione per sentirmi vivo. E ora? La soluzione ci sarebbe: non parlare, non scrivere, far sentire la mia presenza attraverso un bel silenzio. C’è una sostanziale differenza tra scrivere e condividere. Il mondo virtuale ci impone di collaborare, di mettere in piazza molto di noi. Scrivere è ben diverso: non richiede consensi, non accetta critiche, è uno strumento di libertà privilegiato. Se mi assentassi per tanto tempo dal mio blog, non vorrebbe dire che non ho nulla da condividere; piuttosto non ho nulla da dire. Ora, in questo momento sto scrivendo inutilmente, sto seguendo in modo pedestre le regole della condivisione. Avrei tantissime cose inutili da dire, basterebbe che riavvolgessi il nastro di questo Martedì e facessi affidamento sulla mia memoria visiva. Ho visto la campagna. Questo si. Sapevate che conosco quasi a memoria ogni filo d’erba delle dolci colline che accompagnano il mio viaggio quotidiano? Sapevate che ogni mattina rivedo gli stessi palazzi, gli stessi lampioni ? E che mi accorgo di essere in orario se, passando davanti al solito bar , il ragazzo non ha ancora messo fuori i tavolini? Ecco, potrei parlarvi di questo perché in fondo anche ciò che vedono gli occhi è vita. Da tempo mi sono illuso di poterli usare anche per andare giù nel profondo della mia anima convincendomi peraltro che farlo, significa vivere. E allora rilassati Enzo. Adesso come faccio a sentirmi vivo? Ho bisogno di un nuovo, nuovissimo punto di vista che non è certo quello umano; aiutatemi, voglio tornare alieno, desidero con tutto il cuore combattere per il mio personale scopo, ridatemi le frecce. E se l’uscita dalla metro e la lunga passeggiata verso il luogo di lavoro un tempo erano occasione quotidiana per pensare, ora…ora… Ora guardo i palazzi, incrocio gli sguardi, tengo alta la testa. C’è qualcosa che non va. Ce la posso fare, passerà.

 
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lunedì 15 aprile 2013

Come una pallina magica

E

ccola la luce, ecco occhiali da sole, vestiti leggeri e tanta voglia di guardare dal finestrino. Non succede nulla, forse ancor meno del solito ma so bene che non è così, è solo diverso il mio punto di osservazione. Ma, come ad ogni fase di rabbia segue un fisiologico stato di calma, così da un picco di emozioni negative forti nasce ( sempre fisologicamente ) la necessità di pensieri positivi. Non mi sbilancio mai, non riesco a fare l’ottimista di circostanza ma non posso nascondere che mi piace la luce. Mi piace la nuova bicicletta che ho scelto, già mi vedo tra quelle strade di campagna, guardo le mie gambe e penso che quei freddi sabati mattina trascorsi in palestra hanno dato un buon risultato. Si può partire. C’è il caos al lavoro ma anche lì ho deciso di lasciarmi dolcemente trascinare dagli eventi; la morte di qualcuno lascia sempre un grande vuoto che viene solitamente riempito dalle più ignobili cattiverie. La gente non ha ancora capito che il silenzio è d’oro. Di platino quando stiamo parlando di chi non c’è più. Fa parte del copione della vita: il morto si piange qualche giorno poi lo spettacolo prosegue non senza aver detto e pensato cose quasi sempre evitabili. A volte credo che il mio desiderio più grande non sia realizzabile in vita. Quando passerò a miglior vita vorrei, non tanto poter sentire o vedere cosa gli altri diranno di me e sul mio conto. Desidererei piuttosto andar da loro e rendergli la vita il più difficile possibile. E’ schifosamente umano essere umani. C’è solo un’occasione nella quale possiamo renderci finalmente conto della nostra pochezza e quella è la morte. Beh, guardate che giro immenso: inizio l’articolo parlando di luce e voglia di vivere e a poco più di metà discorso sono ai necrologi. Questo spiega in buona parte l’elasticità del mio cervello, la capacità di spaziare e saltellare da un argomento all’altro. Ma è prova ulteriore di una cronica difficoltà a mantenere in equilibrio tutto, almeno qui su questa terra. Ho ancora qualche cartuccia da sparare sul fronte dei messaggi subliminali e mi diverto a farne oggetto di pubblicazione sui social network. Nessuno afferra, nessuno coglie, ma prendere in giro e prendermi in giro sono sintomi di un’ironia che torna a prendere vigore. Insomma, mi sento una pallina magica che salta di qua e di là senza nessun senso. Pace, può andare bene anche così.

 

domenica 14 aprile 2013

Passaggio di consegne

E

’ sempre tutto vuoto ma è un vuoto diverso. Farei meglio a dire che è differente la percezione che ho di esso. E’ fantastico vedere le cose da un diverso punto di vista, fantastico ed insolito per uno come me da sempre fossilizzato sulla stessa focale del mondo. E’ un’esperienza nuova, dettata da situazioni contingenti non proprio belle ma, come già dicevo ieri, utili se colte nel loro significato più profondo. Il mondo ora cede il trono alla paura ed è lei il mio nemico più grande. Istintivamente mi aggrappo al tempo, anche quello che sembra inutilmente perso nel lungo fissare il soffitto od il solito schermo luminoso. Sento il bisogno di aria, sento la necessità di uscire e di passare le mie giornate libere facendo qualcosa che sia anche solo una semplice passeggiata. Passata è la tempesta emotiva o almeno è quel che credo visto che il mondo è bello perché vario. Sento di essere pericolosamente vulnerabile quando si tratta di pensare non più alla mia solitudine, non più alle entità bensì al tempo che fugge. Indubbiamente sono ancora provato da ciò che è accaduto qualche giorno fa dunque stento ad essere obiettivo. Ora il problema si chiama: paura del tempo che vola; soprattutto su chi mi è vicino, molto vicino. Ho ancora tempo, hanno ancora tempo. Certo. Mi viene da ridere al solo pensarlo ma tutti sappiamo quanto sia efficace la retorica sul tempo; tutti possono parlarne, tutti giungeranno alle solite conclusioni. “Dobbiamo approfittarne, godiamoci la vita, tutto passa in fretta”. Di sicuro io non sono un esempio di procacciatore di esistenza felice, non faccio nulla per rendere la mia, migliore di quello che è. Ma sono un vigliacco,fragile, e dietro ad ogni mio silenzio si nasconde il timore del peggio. Per anni sono andato a dire in giro di essere un realista; non sopportavo essere tacciato di pessimismo. Sono un incompiuto pieno di desideri e di voglia che cadono ancor prima di aver provato a volare. Non si cambia se non con i fatti, e credetemi, sono stanco di parole. Lo dico ora, poi come sempre tornerò sui miei passi; nonostante questo vorrei anche passare per un uomo con delle passioni, dei sogni, e non il solito impalato. Mi piace immaginarmi così, mi fa sorridere e mi regala pure un senso di sicurezza. E’ ciò che si chiama speranza: sapere di essere quadrato ma ambire a diventare rotondo, alla faccia dei proverbi e delle credenze popolari. Paura permettendo.

 
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sabato 13 aprile 2013

Una mano di nero

C

i sono modi diversi di arrivare al fine settimana. Non per me che da troppo tempo ormai, giungo al tanto atteso weekend con le pile completamente scariche. Salvo poi riprendere vigore grazie alla ormai tradizionale crociata contro il mondo; dunque il copione lo conoscete anche voi: solitudine, piagnisteo, individuazione del capro espiatorio, sentenza. Me ne sono fatto una ragione, o almeno così spero, dunque non tornerò più in questa sede a gridare aiuto, a cercare comprensione, a mandare messaggi subliminali. Scommetto che nessuno di voi è pronto a metterci una mano sul fuoco. Neppure io ma non importa. Sono arrivato a questo fine settimana spompato come sempre, ma il lavoro non c’entra, anzi semmai è uno di quei periodi in cui non me ne può fregare di meno. Lo so che è agghiacciante il solo pensarlo ma gli eventi luttuosi sono maledettamente utili a capire tutto o quasi. E’ come se una mano gigantesca ed un pennello enorme attraversassero il cielo e coprissero di un tetro nero il nostro personale disegno di vita. A colorare il mio, fino ad ora sono bastati pochi pennarelli. Per giunta neanche tanto vivaci, semplicemente abbozzati, dai toni spenti; il mio disegno ha una gamma cromatica piuttosto ibrida. Ma qual è il problema, la mano gigantesca ci ha dato una bella pennellata di nero sopra così ora mi toccherà ricominciare a disegnare. Gli eventi tragici e maledettamente bastardi nella loro ineluttabilità producono in ognuno di noi un personale senso di colpa. Quando per nostra fortuna non colpiscono persone a noi vicine(in linea di sangue intendo) ci stanno ricordando che siamo stati fortunati. Dunque, un indiretto avvertimento a continuare a colorare la vita. Guardatela come volete ma in questi giorni non mi sento paladino di nulla, non mi va di andare contro il solito mondo, sono restio a cadere nella tentazione dei messaggi subliminali. Del mondo, però, a maggior ragione, mi frega sempre meno perché la non accettazione dell’ineluttabile, non fa che accrescere il senso di rabbia. Ma forse è questa la strada giusta da intraprendere: nessuna crociata e, al tempo stesso, nessuna mano tesa. Nessun rancore e solo quieto vivere. Quando scrivo queste cose, la prima cosa che mi passa per la mente è che non manterrò le promesse. A cosa scrivo da fare allora? Mica lo faccio per insegnarmi a vivere, semplicemente, come sempre, per avere la prova che respiro.

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giovedì 11 aprile 2013

Il flipper

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esidero una sola cosa: prendere una bacinella piena d’acqua, farci scivolare dentro un quantitativo consistente di cubetti di ghiaccio e poi infilarci la testa. Almeno quel tanto che basta ad azzerare i pensieri. E’ un normale Giovedì di una solita, anonima settimana di lavoro. Ancora una volta (maledizione), sono costretto a mettere ai margini la retorica di circostanza, evitando di parlare di ciò che potrebbe inevitabilmente scatenarla. Non è facile, perché alla fine sono sempre gli occhi a parlare, quegli sguardi sbigottiti e mettiamoci il tanto che basta d’ipocrisia e falsità. Sono loro, rivelatori della bestialità umana. Ci sono giornate che sono bastonate tra capo e collo; sono quelle che si dirà “the show must go on”, il lavoro deve proseguire. La vita anche. Sono le giornate in cui vorresti dire ma non puoi, vorresti fare ma non ce la fai. Sono le giornate in cui muore qualcuno a quarantaquattro anni e il giorno prima eri lì a scherzarci insieme. Ecco, il mio articolo dovrebbe finire qui perché si sa, il silenzio è la massima forma di rispetto verso i vivi, figuriamoci per chi muore. E vagando qua e là tra gli uffici oggi mi chiedevo cosa fosse più giusto fare, dire, pensare. Mi domandavo se dovevo fare ancora ammenda e frustarmi per essermi arrabbiato ( anche solo per un attimo ) qualche giorno fa. Se fosse poi il caso di smetterla una volta per tutte di sentirmi indifeso. Storie. Torneremo sempre al nostro vivere ( o sopravvivere ) perché il dolore è diffuso, latente, colpisce in modo casuale ma mai ci abbandona. La vita è un grande flipper dove la pallina impazzita siamo noi; abbiamo giusto il tempo per fare più punti possibili prima di finire mestamente nel buco. Basta Enzo, ora la retorica è in agguato. Di questa giornata voglio egoisticamente ricordare le mie sensazioni, i miei momenti di riflessione mentre mangio faticosamente una brioche e guardo fuori dalla finestra. E’ un’impresa fissarle qui, forse basterebbe (come sto per fare) mettere un punto finale a questo articolo. L’ultima volta che ho pianto è stato qualche mese fa. Ho pianto per me, solo per me. Non riesco più a farlo quando non ne sento il bisogno. Lo so, è preoccupante oppure semplicemente un segno inequivocabile di egoismo. Ecco, ho pensato anche a questo e probabilmente non è una bella conclusione quella cui sono giunto. Mi basta aver pensato, aver sentito, aver cercato ancora una volta di capirci qualcosa. Senza esito.

 
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martedì 9 aprile 2013

Nel silenzio

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to trascorrendo questi giorni avvolto da un silenzio protettivo. Mi piace definirlo “morbido”. Non vuol dire riflessione, probabilmente è una reazione naturale al recente trascorso “urlato”. Come sempre le grida d’aiuto si sono perse nel vuoto sebbene non vi fosse l’intenzione di attirare l’attenzione. E’ il silenzio dei pensieri che tengo a bada neanche tanto difficilmente. E’ un silenzio buono, riesco ad immaginarmi al centro di un campo che non è più piacevolmente colorato del giallo del grano e dell’azzurro del blu; sono nel bel mezzo di una distesa di terra così arida da spaccarsi, qua e là qualche albero rinsecchito. Ho bruciato tutto, l’odore acre dell’aria mi rende ancora difficile il respiro, ma sto nuovamente riprendendo coscienza. Non ho teso mani, non mi sono fatto avanti. Ho denigrato il mondo ed ho ottenuto ciò che meritavo ma non mi pento, sia chiaro. Ho odiato, maledetto ma qualcosa ho realizzato. Il mio male è il confronto, la mia condanna, guardare sempre oltre il muro della casa vicina. Ma quale condividere, quale ritrovarsi. Io nel mondo virtuale cercavo la vita che non ho, la vita che non vivo e non voglio vivere per come si è trasformata. E così ci sto provando ancora. Di nuovo lontano dalle promesse di plastica, dai caffè mai presi, dagli incontri buttati qua e là per riempire una chiacchierata dal suono meccanico. Ci sto provando senza sforzi, ributtandomi sulle pagine di un libro, di una rivista. Non ho assolutamente nulla da condividere che possa interessare a me, che renda questo gesto espressione di un orgoglio personale. Poi arriverà di nuovo il fine settimana, forse torneranno gli incubi di queste ultime notti. Ad un certo punto ho aperto gli occhi: ero in un bagno di sudore e sembrava che il cuore fosse ad un passo dall’esplodere. Tutto ritorna. Quando dormi puoi mica indossare una maschera. E se lo hai fatto durante la giornata per salvare il salvabile, la notte paghi dazio. La chiamate vita? Eppure esistono momenti nei quali la situazione sembra sotto controllo: hai detto ciò che dovevi dire, fatto ciò che potevi fare. Hai ferito, forse anche ucciso con le parole, ma non puoi sempre permettere al mondo di volerti male restando lì a guardarlo. Maledetta sensibilità, si dirà. Posso parlarne liberamente con te, caro diario. La lotta contro i mulini a vento è finita, le mie parole spesso ritornano ancor più pesanti perché chi le riceve le respinge con forza. Non ho molto altro da dire se non che sto bene quando sto lontano dal mondo parallelo. Quello è fatto per chi ancora si può permettere uno spicchio di ipocrisia sufficiente a credere di vivere .

 
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domenica 7 aprile 2013

Il falò

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ra le maschere non servono più. Ora è bene tirare fuori la mia vera natura, l’identità spesso nascosta tra le righe del compromesso per piacere, per piacersi. E’ necessario tirare fuori la testa dalla sabbia perché non voglio morire di ipocrisia, di perbenismo, di falsa accondiscendenza. Le maschere hanno fatto il loro tempo e non chiedono più di essere indossate per regalare sorrisi morti, sguardi che il solo sforzo rischia di rendere vuoti come quelli di un cadavere. Ora basta, non c’è appiglio, non c’è parola, non c’è confronto. Odio con tutte le mie forze chi in modo becero, superficiale, quasi ridicolo ancora vuol far credere a se stesso che la vita è bella perché…Perché c’è chi sta peggio. Annulliamoci allora, facciamo come i kamikaze no? Facciamoci esplodere. Così almeno smetteremo di compiangere tutti. Non è più il caso di indossare maschere per far finta di non aver letto o sentito. Perché questo maledetto mondo di plastica, fatto di gente di plastica ancora parla, ancora giudica, ancora sentenzia. Raggiungo l’orgasmo quando scrivo perché non invio messaggi, non voglio che vengano letti, semplicemente ribadisco e mi autoconvinco di essere non il migliore ma…diverso. La maledizione del virtuale sta nelle vostre maledette maschere di ipocrisia, luoghi comuni, retorica spicciola. Tenetevele per voi, ma chi vi ha chiesto nulla. Siamo un popolo di benefattori. Se tutti veramente pensassero ciò che dicono e si mettessero in moto per fare qualcosa, saremmo un popolo di crocerossini. Andate in Africa allora. Ed invece gli umani non si mettono in testa che pensare a se stessi non è sempre egoismo, non è sempre mania di grandezza. Pensare al proprio malessere è provare a sopravvivere altrimenti basta poco e fai …puff! Pensare a me stesso è capire fino a dove posso arrivare e non fregarmene degli altri che stanno peggio. Vedete, è di gran lunga meglio fare un falò di tutte le maschere che avevo raccolto, e mostrare il mio odio, la mia invidia. In un certo senso è un gioco a scoprire chi è più ipocrita di chi. Come faccio a far capire alla gente che non ho bisogno di commiserazione, che voglio essere spudoratamente me stesso e che la mia solitudine ha raggiunto punti pericolosissimi di sopportazione. Signori, cali il silenzio laddove una parola potrebbe far cadere definitivamente la vostra credibilità. Odio si, invidio anche, ma vi prego lasciate che mi lasci andare. La fame nel mondo non tocca a noi combatterla.

 
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sabato 6 aprile 2013

Diavolo in me

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adesso dove la butto tutta questa rabbia? Dove? Non c’è più posto, il cervello è ormai saturo e non riesco più nemmeno a scaricarla addosso al mondo. Potrei, anzi dovrei, buttarla in faccia a chi ( nomi e cognomi ) ha contribuito a rendermi la vita difficile. Persone che ritenevo fidate, salvo poi rivelarsi i soliti coltivatori dell’orticello personale. Vorrei anche scaricarla addosso a quelli che di mestiere dispensano parole di apertura, comportamenti assertivi, sorrisi alla vita . C’è un po’ di rabbia anche per loro. Ma ce n’è tanta, tantissima per me stesso. La solitudine mi fa un baffo, fosse solo questo il problema dormirei tra due guanciali. La mia solitudine non è solo un dato di fatto, è parte di me, vive con me, mi segue quelle rarissime volte in cui mi trovo in mezzo a persone che non sono necessariamente colleghi. Più vado avanti più immagino quanto potrebbe essere scioccante ricevere una proposta, un invito, una serata in compagnia. Sono lontanissimo dal mondo delle persone, non riuscirei a muovermi senza mostrare disagio, sofferenza, stupore. Dicevo, ho una buona dose di rabbia per me. L’errore ci sta: una volta, due, tre. Poi basta. Ho un diavolo in me, perché perseverare è ciò che mi riesce più naturale fare. Non si può, non si deve rimanere appigliati a qualcuno, farne sentire il proprio fiato, cercare di tenerlo vicino. E’ una questione di orgoglio, innanzitutto. Ma in amicizia, c’è spazio per parole come orgoglio, scopo, o altro? Direi di no. Tuttavia invidio fortemente coloro che agiscono senza pensare ad altro che a se stessi, forse perché soli e forse perché hanno imparato cosa vuol dire fidarsi del mondo. Loro. Indosso le orecchie da asino e me ne vado dietro la lavagna, poi magari la maestra mi obbligherà a scrivere cento, mille volte: “non devo fidarmi, non devo fidarmi, non devo fidarmi”. Eppure non sto bene. Oggi è persino tornato quel fastidioso dolore nella parte sinistra del petto. E’ nervoso, si dirà. Enzo, devi smetterla. Te ne prego, smettila. Cerca di fartene una ragione. Lo so, la rabbia è pur sempre un segnale di vita, vuol dire che ci sei, che lotti, che ancora non accetti tutto questo. Non ci prendo gusto, vorrei vivere potendo sorridere, alzando lo sguardo invece di lasciarlo perdere nel vuoto dei miei pensieri. Non è vero che la solitudine mi fa un baffo, la solitudine mi opprime, la solitudine fa schifo. Smettiamola di aprirci alla vita, piantiamola di voler essere a tutti i costi positivi per trasmettere positività. Provateci voi, ancora non riesco a credere di essere così solo.

 
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giovedì 4 aprile 2013

Mano nella mano

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’inverno sembra non finire mai. La mia vita gli aderisce perfettamente nei tempi lenti, nel cielo opprimente, nella monocromia. Ho l’impressione di essermi appoggiato su questo letto piatto e di aver trovato un luogo confortevole. Non desidero ardentemente l’arrivo della luce, ed è un brutto segno; forse perché sono certo del fatto che non sarà poi l’arrivo della primavera a svegliarmi dal torpore. Mi viene da ridere se penso a quanto io possa essere contagioso: sono diventato pigro, svogliato, sonnolento, quasi contento di questa monotonia. E ho trasmesso la mia astenia persino al tempo, anche lui si sta addormentando su se stesso e non ne vuol sapere di svegliarsi. Ci prendiamo per mano, io e l’inverno. L’ho amato, il mio lavoro. L’ho pure odiato, come oggi. Poi mi chiedo perché io debba provare sentimenti per qualcosa che non ha né cuore né anima. Chissà, non mi so rispondere, anche questo è un brutto segno. Ci ho provato ad alzare un muro tra vita e giornate stressanti, facendo credere a me stesso di essere un uomo normale come tutti gli altri. Un uomo libero, senza condizionamenti e vincoli, potenzialmente in grado di vivere una vita a buoni livelli in termini economici e di soddisfazione personale. Sono giunto alla triste conclusione per cui sarò anche normale (ma su questo non ci giurerei) ma una vita non ce l’ho. Sento le macchine che passano sull’asfalto bagnato, sento le chiacchiere di mio padre e di mia madre. Sento che la cena è quasi pronta, e questo calore domestico dovrebbe solo farmi piacere. Anche questa è vita. In fondo siamo in pieno inverno e nulla è meglio di questo tepore che arriva dal termosifone e da quelle voci là, nel soggiorno. Sono confuso, scrivo per scrivere, per provare a dare senso agli spicchi di tempo utile. Poi magari se questo articolo non mi piace, eviterò di pubblicarlo. Da studente mi si rimproverava di non avere il dono della sintesi, ora invece mi sono imposto di sciorinare qualche concetto comprensibile in non più di trentacinque righe. Ma voglio ribadire che proprio su queste righe io tocco nel vivo la libertà, qualunque cosa io scriva o pensi. Nella mia contraddittorietà, ipocrisia e falsa modestia ritrovo sempre me stesso. Oggi ho odiato il mio lavoro, e odio me stesso per aver preso per mano l’inverno ed avere tradito la mia passione per la luce, per i colori. Oppure è solo la fine di una giornata cui solo un pigiama di flanella, quelle voci, ed il termosifone danno una ragione di essere.

 
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mercoledì 3 aprile 2013

Soffi di parole

N

ulla di ciò che accade nella vita sfugge alla retorica. Questa è una delle ragioni per cui, sin dal giorno in cui ho aperto al pubblico questo diario, ho deciso di parlare di me. Ma quale egocentrismo, quale vittimismo, quale mania di protagonismo. Ho preso due piccioni con una fava: da un lato ho scoperto di trovare la mia personale valvola di sfogo, dall’altro ho ben compreso uno dei miei tanti limiti: se parlo di temi ai più conosciuti finisco con l’essere più scontato di un bambino. Così, quando ieri ho saputo che un amico virtuale era morto a 40 anni da qualche mese (e solo adesso ne avevo notizia), mi sono imbambolato davanti allo schermo. Ho ingoiato la saliva per molte volte, ho ripassato le sue foto, ho riletto il suo ultimo messaggio, ho persino provato a confortare la sua ragazza. In inglese, pensate un po’. E oggi, ho pensato solo a questo, complice quella maledetta luce del mattino che invogliava a guardare dal finestrino. Ho deciso di lasciare tutto ciò che di retorico e scontato segue alla morte, nel cesto delle emozioni private, privatissime. Le parole non servono se non quelle che senti di confidare ad un amico vero. Nulla di scritto dunque, anche se, mi sto accorgendo di farlo ora, in questo momento. Oggi ero dove non ero. Non è una novità. Ben sapete che l’attrezzatura completa di maschere consente di affrontare ogni evenienza, e dunque, ho superato l’esame. Ho sentito parlare molto in questi giorni, di vite che finiscono. Quasi a volermi ricordare che le preoccupazioni sono sempre assolutamente relative; ma, come già dissi tempo fa, far sentire la propria voce, anche per cose che posso apparire senza senso è un inequivocabile segno di lotta. Possiamo mica pensare tutti i giorni alla morte no? Dobbiamo pensare e gioire alla vita! Beh, adesso non esageriamo; diciamo piuttosto che in alcuni casi, cercare di trovare soluzioni per sopravvivere è pur sempre una forma di vita. Dopo aver riempito di fango il catino del mondo virtuale suonerà come l’ennesima contraddizione: ieri ho trattenuto le lacrime a stento. Non mi vergogno a dirlo, perché la mia scorza è solo apparentemente dura. Mi sono solo soffermato su questa riflessione: a volte sentiamo il bisogno di abbracciare tante persone, di essere abbracciati. E’ un desiderio spesso frustrato. La distanza, il tempo, chissà. Maledetti entrambi. Poi, un soffio e via. Parole non dette, mai dette, sensi di colpa a gogò. Ma forse accade anche nella vita reale. Non avremo mai tempo per essere uomini veri.

 
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martedì 2 aprile 2013

Il giorno dopo

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l giorno dopo il dì della festa ha sempre un sapore particolare. Per un attimo dimentichi tutto, il masochista addirittura accenna ad un pentimento. Ma in fondo il giorno dopo è pur sempre quello migliore per osservare il disastro, per rendersi conto del danno, se ne è valsa la pena. Sapete, le persone condannate ad essere sensibili, ad avvertire anche gli spifferi che dall’anima vanno a raffreddare il cuore, fanno fatica ad essere comprese. Non a caso il fiume del tempo per loro sfocia sempre in un mare di solitudine, di assenza, di depressione. Si dice che l’origine del male di vivere stia nella testa, e non nel cuore. Allora il mio male è avere un cervello, perché penso il peggio di me fuorché il non avere testa e non saperla usare. Si dirà allora che la uso troppo, che la perfezione del proprio meccanismo mentale non potrà mai trovare la propria fedele riproduzione nella vita di tutti i giorni. Faccio fatica ad accettare l’umoralità delle persone, ancora mi sconvolgo nell’apprendere i cambiamenti radicali di alcuni, ma poi… Poi mi accorgo che gli altri sono me ed io sono gli altri, e nel momento in cui realizzo questo, sprofondo nella bassezza umana. Dio, sono come loro! C’è tanta gente sola al mondo, c’è tanta gente di cui non si duole nessuno, e forse una buona parte di essi non ha nemmeno la possibilità di fare anche un riassunto della situazione. Io dunque sono fortunato. Bene, quindi Enzo, smettila di lamentarti, le tue sono infinite rotture di balle, inutili disquisizioni sulla vita. Devi agire. Butta via questo pc, cancella un pezzo della tua vita e ricomincia. E’ lì la soluzione? Oppure mi diverto anche a raccontare queste cose? Se fosse così non ci sarebbe alternativa : la camicia di forza. Ma Dio, io non gioco affatto quando me ne sto buttato sul letto e aspetto che passi qualcuno. Ma chi deve passare? Ma chi aspetto? E soprattutto ho un’idea vaga di cosa voglio? Sempre le solite domande. Vorrei precisare, se non lo avessi ancora fatto, che il mio odio per il mondo è un odio liberatorio, un odio buono, che fa bene solo a me. La relazione umana è un ostacolo : perché io devo giustificare, io devo spiegare. Io non voglio farlo, perché voglio essere libero di arrabbiarmi e nello stesso tempo non amo essere giudicato. Presuntuoso eh? Il giorno dopo il dì di festa ha uno strano sapore. Sto guardando l’ennesimo disastro.

 
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lunedì 1 aprile 2013

Nella pelle

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i volevano le feste. E menomale, perché già non ci stavo più nella parte dell’omino tranquillo, riflessivo, consapevole, di quelli che: “Ma si dai, non prendiamocela, arrabbiarsi non porta da nessuna parte”. Ci volevano le feste per ritrovarmi maledettamente solo, per ricominciare a pensare, per liberare l’odio vero verso tutto e tutti. Non ce la facevo più a recitare il ruolo di colui che ha capito tutto e solo per questo deve starsene lì a comprendere il mondo e ad accettarlo. Non sia mai, io sono un toro e le feste sono quel manto rosso che gli viene sventolato in faccia durante la corrida. Non è che guardo chi vi sta dietro, parto in quarta ed attacco. Le feste acuiscono il mio risentimento; innanzitutto verso me stesso. Non ho voglia, non ce la faccio proprio a chiudere i capitoli e a voltare le spalle a tutti. Anche se quei “tutti” non sono altro che entità, ed è questo su cui dovrei lavorare. Dovrei fissare questo maledetto cervello sulla reale sostanza della vita, sullo scopo che intendo perseguire. Materia, materia e materia. Al bando parole, promesse, faccine, e cazzate varie. Ci vuole presenza. Se non c’è, allora tanto vale chiudere il capitolo. E’ risaputo che sentirsi soli in mezzo a tanta gente è più doloroso della solitudine fisica. Io stesso mi sono spesso lasciato trascinare dall’enfasi per un rapporto magari appena nato e ho pronunciato cose inenarrabili per quanto sono lontane dal mio modo di essere. E allora, non è meglio stare soli ed evitare di sentirsi tali in mezzo ad altri? Da tempo non so cosa sia uno scopo, non so cosa voglia dire, avere un fine precipuo. E non riesco a capire che il raggiungimento dell’obiettivo prescinde da questo cazzo di mondo virtuale del menga. Perché come ho già ribadito, non esistono amicizie vere, non esistono amicizie, esistono solo amicizie utili. Io non ce la faccio a ritrovare il gusto di vivere, nelle passioni; mi sentirei ipocrita, sono stanco di giustificare tutto cercando consensi ed apprezzamenti. Fanculo alle belle parole, siano benvenuti i fatti. Questa vita schifosa fa si che ognuno sia troppo impegnato nella propria vita schifosa per poter incontrare la vita schifosa di qualcun altro. Non ho dimenticato i miei pensieri recenti sulla brevità della vita, sul timore di perdere qualcuno prima di quanto io pensi, sul timore che io stesso finisca per perdermi. Non li ho dimenticati. Ma mi premeva ricordare che non ho scordato il mondo, la sua ipocrisia, la sua schifosa mania di accontentarsi, di apparire e sembrare felice. Ora va meglio.

 
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