lunedì 31 ottobre 2011

Il giusto approccio

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a si dai, perché non scrivere qualcosa alla fine di una giornata produttiva. Sono talmente rare le volte in cui mi sento soddisfatto! Sopravvissuto e soddisfatto di me. Oddio, forse “sopravvissuto” è inappropriato, ma quando si sta in una sorta di trincea per 8 ore, tu sei lì e dall’altra parte un esercito scatenato di gente pronta ad inveire, beh, ci può stare. Soddisfatto invece ha un non so che di strano. Quante volte l’avrò scritta questa parola? Capita che in una giornata che si preannunciava “calda” tutto invece fili liscio. Merito dell’approccio, della calma, del senso del dovere. Arrivavo da un weekend che si è rivelato una sorta di endovena di malinconia. In ogni caso mi è stato utile avendomi regalato una sostanziosa dose di calma. Niente di meglio in vista di un ponte lavorativo. Dicevo che sono soddisfatto. E da dove nasce tutto ciò? Non lo so! Ci sono giornate in cui ti rendi conto di quanto sia fondamentale, come in tutte le cose, il giusto approccio. Ed io, almeno sul lavoro lo sto dimostrando. La soddisfazione abbatte persino la stanchezza; questa sera sono salito sul 17.20 e ho cominciato a leggere il mio libro. Sono andato avanti per un po’, sapendo che prima o poi gli occhi avrebbero ceduto. Nulla. A quel punto mi sono iniettato un po’ di musica. Niente da fare. E dire che ormai non mi è più concesso nemmeno di guardare oltre il finestrino. La mia immagine riflessa e la luce artificiale mi ricordano che siamo a Novembre, che i mei tanto amati colori torneranno solo tra qualche mese. Ma oggi tutto va bene. Sono giornate. Non posso pretendere che sia sempre così, non vorrei che fosse il lavoro a farmi sentire soddisfatto. Certo anche questo è importante ma dovrei pretendere di più. Ieri ho parlato di solitudine. Non me ne vogliano alcune persone nei confronti delle quali ho manifestato l’intenzione di incontrarsi, di conoscersi per poi, “ritirare” tutto. A chi di voi sta leggendo questo articolo chiedo scusa. Non dipende solo da me. Spero arrivi il momento giusto. Non voglio sentirmi forzato a fare ciò che ora non riuscirei a fare con la dovuta naturalezza ed il giusto entusiasmo. E’ un bene anche per voi, sopportarmi sarebbe dura! Ma oggi sono soddisfatto. E domani non suona neppure la sveglia. Meglio di così!
 
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domenica 30 ottobre 2011

Foschie

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colori asfittici della campagna d’autunno mi hanno accompagnato durante il viaggio ( l’ennesimo in treno ) verso Milano. Un sole pallido rapidamente inghiottito dalla foschia pomeridiana, a far da cornice a quello del ritorno. Sulla carretta che da Mortara mi ha portato fino a casa, le solite riflessioni. Tanta malinconia e la consapevolezza di qualcosa che era nell’aria e non avevo mai avuto il coraggio di riconoscere. Io sto bene come sto. Inutile, del tutto assurdo che muova critiche a questa o quella persona. Ho portato avanti in questo tempo vere e proprie crociate in nome di sentimenti nobili, quali ad esempio l’amicizia. Peste e corna su chi, a mio parere, aveva tradito questi sentimenti, su chi aveva dimostrato totale mancanza di sensibilità. Se la solitudine è qualcosa di insopportabile, del tutto lecito appare andare alla ricerca di chi potrebbe colmare il vuoto. Triste è rendersi poi conto che nessuno o quasi può colmare i vuoti, tanto e tale è l’egoismo che ci pervade. Se qualcuno cercasse me, io probabilmente risulterei uguale agli altri. Io non sono migliore di alcuno. E così scopri che cerchi, cerchi e cerchi ma in realtà ciò che vuoi è proprio stare solo. Si si. Io voglio questo. Io voglio e posso stare solo. Non sono fatto per la società. Vivo forzatamente i rapporti necessari alla sopravvivenza ( vedi ambiente di lavoro ), ma fuori da quella porta io sono un asociale in tutti i sensi. Perché arrivo a questa conclusione? Perché sono un ipercritico, un pignolo, uno che sta a guardare sempre il capello, che studia i comportamenti altrui, che vive di sensazioni. Mi è già capitato di affermare quanto sia difficile relazionarsi con persone timide. Non esprimono ciò che sentono, spesso glielo devi tirare tu fuori, con le tenaglie. Vivi sensazioni al posto loro, fai deduzioni al posto loro. Troppa fatica però. Mi è capitato di passeggiare in centro a Milano, Sabato pomeriggio. Non ho resistito più di trenta minuti. Mi mancava l’aria. Sono sempre più lontano dalla società. Cosa mi succede? Non faccio assolutamente nulla per circondarmi di persone. Lancio il sasso, poi nascondo la mano. Voglio stare solo. Smetterò di turbarmi, di pensare che la vita è relazione, che ci si debba confrontare a tutti i costi. Non sono mai contento e non mi impegno. Sono veramente tutto matto.

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giovedì 27 ottobre 2011

Non sono uno “Yes man”

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l problema poi non era di così difficile soluzione. Si trattava di scegliere una persona disponibile tra dieci. Una disposta ad immolarsi, a recitare il ruolo ( poi mica tanto recitato ) di vittima sacrificale. Quale criterio seguire? Un bella boccia di vetro con all’interno i bigliettini nominativi sarebbe stata una soluzione salomonica quanto imparziale. Fare almeno finta di fondare la decisione su elementi concreti ( pochi ma attendibili ) avrebbe salvato le apparenze. E perché mai? Meglio puntare su qualcosa di più certo, meglio agire tenendo conto della debolezza altrui, di quel fattore umano che spesso e volentieri mi gioca contro e mi regala solo tristi consapevolezze. Tu sei quello. Quello che difficilmente dirà : ”No”. Tu sei quello che, inesauribile fonte di disponibilità ed accondiscendenza, risolverà il problema in men che non si dica. Cammino sempre lungo un’immaginaria linea di confine tra ciò che è ( e deve rappresentare ) motivo di orgoglio e la netta sensazione di essere un coglione. Non dovremmo farci mai trascinare troppo dall’altra parte, ma di fatto siamo noi ad impostare e a determinare tutto. Cavoli dipende da noi! Siamo assolutamente noi a decidere quando sentirci orgogliosi ed evitare di passare per deficienti di turno. La cosa che trovo più divertente è accorgermi che non c’è persona al mondo in grado di sapere chi sei veramente. Chi poi dimostra così tanta superficialità da pensare di avere a che fare con il cretino di turno, non ha fatto bene i conti. Non siamo degli Yes Men, come recita uno spot. Se dire Si provoca nell’immediato un senso di inadeguatezza, attenzione, abbiamo un’alternativa ed è dire un secco “No”. Ahimè, mi tocca una doverosa precisazione: il lavoro è il lavoro. Non sempre ci è consentito farlo, ma nel lavoro come nella vita non bisogna mai perdere la stima di sé stessi. Se ci sarà impossibile dire un No, beh, la regola è quella di continuare ad essere noi, a non far si che qualcuno possa indicarti come la comoda soluzione. I contesti nei quali i rapporti umani sono ridotti al lumicino, esaltano le qualità inutili di ogni soggetto. Capacità tecniche, abilità ostruzionistiche, dimestichezza nel fancazzismo. E fuori da quella porta? E’ lì che ci si deve preoccupare di chi siamo veramente. E allora mi immolo. Guarda che non sei tu a prendermi per il culo, forse non ti accorgi di questo.
 
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mercoledì 26 ottobre 2011

Scarnebbia

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alle mie parti la chiamano “scarnebbia”. Trattasi di una sorta di finissima pioggerella che insieme ad una sottile nebbiolina crea una strana condensa assai fastidiosa. Certo che ho scelto il momento peggiore per aprire la famosa finestra. Ancora qualche giorno e poi tutto sarà avvolto dall’oscurità; il mio viaggio di andata per Torino lo è già, da Lunedì sarà la volta di quello del ritorno. Da qualche tempo ho ripreso alcuni contatti con vecchi amici “di penna”. Addirittura sono riuscito a ritagliarmi uno spazio per una corrispondenza in lingua Inglese alla vecchia maniera del foglio di carta. Sono dimagrito di circa un chilo e mezzo. Non riesco a spiegarmelo in quanto le giornate sono scandite dai soliti ritmi ( forsennati ), l’alimentazione è sempre la stessa ( approssimativa per quanto attiene ai tempi ), l’attività fisica pure ( una volta a settimana, ma bella tosta ). Ultimamente ho il sonno disturbato; ne conto almeno quattro o cinque: sono le volte in cui, nel cuore della notte compio un movimento arcuato di schiena e collo per cogliere i led rossi della sveglia. Ogni volta ripiombo sul cuscino senza però addormentarmi realmente. Sono periodi. Qualche settimana fa, sempre senza un apparente ragione, le mie notti erano scandite da sogni frequenti. Sognavo un po’ di tutto, e ricordavo perfettamente ogni immagine onirica. Volevo ringraziare tutti quelli che, leggendo il mio post “Sipario!” mi hanno ulteriormente incoraggiato ad aprire la finestra. L’ho già fatto, sto prendendo piano piano le distanze da tutto ciò che sono, non tanto perché me ne vergogni, semplicemente per il fatto di dover avere un altro punto di vista sul mondo. Quel che sono lo so, lo sapete, lo sanno, almeno chi ha l’arguzia e l’intelligenza di non fermarsi all’apparenza. Quel che posso essere forse ancora non lo so nemmeno io, ma di sicuro non è continuando ad inciampare nei meandri della mia coscienza che lo scoprirò. Affrontare il mondo, attenzione, non significa capire il mondo. Guai a me se provassi solo a farlo. Affrontare il mondo significa vivere. Chissenefrega di dare necessariamente una spiegazione a tutto, chi se ne importa di Tizio o Caio, di come agiscono e del perché lo fanno. E’ finito il tempo dei perché. Del resto, quello delle risposte non è mai iniziato.
 
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sabato 22 ottobre 2011

Sipario!

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ffettivamente c’è tutto un mondo intorno. Chi entra nel mio blog entra in una sorta di stanza quasi buia, ove l’unica luce è quella che trapela dalle fessure delle persiane chiuse. La realtà resta fuori, oltre quelle persiane, il rumore di fondo è attutito dalle spesse mura della mia coscienza. E’ iniziata così l’avventura, con la voglia di lasciare il mondo e i suoi rumori lontano, quel tanto che basta per rendere chiari e nitidi i pensieri. Scrivere rappresenta l’ennesima occasione per chiudermi alla realtà, per esplorare ciò che con la realtà spesso si scontra, generando situazioni contorte e distorte. Ma se un bel giorno decidessi di aprire quelle persiane, non sarebbe sbagliato. C’è un mondo là fuori, e l’unico modo per evitare l’inevitabile è guardarlo, quel mondo. Stavo pensando che non sarebbe una cattiva idea quella di continuare a scrivere aprendo pian piano le persiane. Queste pagine si riempirebbero di vita, di immagini, finalmente si colorerebbero. Non si tratta di un cambio di tendenza dettato da esigenze di auditel. Io sono sempre io. Oggi pensavo ancora al ruolo degli strumenti di analisi interiore, come la scrittura; essi possono gradualmente provocare un’implosione. Voglio evitarlo, e ora mi pare tutto ciò stia accadendo in modo naturale. Vorrei riversare su questi fogli qualcosa che non arrivi direttamente dall’interno. Vorrei che queste pagine non documentassero solo ed unicamente moti interiori, vorrei invece che si impregnassero di vita. Non è detto che sia la mia, però. Quando scrivo non alzo la testa e non guardo oltre quella che è la mia anima; quando vivo ho il mondo a farmi da cornice, ma sembra che io non me ne accorga. Credo sia giunto il momento di alzare la testa, di non rinnegare necessariamente il mio lavoro interiore, ma di aprire cuore e fogli al mondo. Come nasce questa decisione? Cosa mi porta a guardare al di là della finestra chiusa? Forse la voglia irrefrenabile di staccarmi da me, il desiderio di essere un uomo e non solo una macchina pensante. Voglio aprire le persiane, lo farò gradatamente. Il forte bagliore dopo anni di buio potrebbe essere fatale. Il mio mondo intorno è un mondo fatto di giorni, di visi, di parole. Si alzi il sipario allora.
 
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giovedì 20 ottobre 2011

Carenze

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a dove comincio? O meglio, da dove ricomincio? Non ho molta scelta. Ricomincio da me. Perché se non si può sfuggire ad alcuni aspetti del proprio essere, li si può quanto meno adattare alla situazione, giusto? Diciamola tutta, senza giri di parole: la mia condizione è deficitaria. Guardiamo i lati positivi: ho una famiglia, un posto fisso, non ho problemi di salute. Devo per questo ritenermi l’uomo più felice al mondo? Ditelo, perché in tal caso smetto subito di lamentarmi come al solito. E probabilmente così facendo non darei più materiale al mio blog. Ma chi di noi non ha mai trovato un motivo per lamentarsi, per dire “ Ah se però….” Io sono così, mi cruccio continuamente di ciò che non ho. Cosa mi manca però? Di cosa ho bisogno realmente? Affetto, un mare di affetto. Virtuale? Ma no! Vero, tangibile, non solo nei gesti ma anche nelle parole. Ma non potevo neanche immaginare che nel 2011 ci fossero persone incapaci di dirti esattamente quello che pensano. Devi estrarre loro le parole con le tenaglie e giungere ( tu per loro ) alle conclusioni. Ma io mi domando e dico: “Ma perché non avere il coraggio di dirle certe cose?” E soprattutto “Perché non farlo prima??” Mi viene da ridere perché spesso mi ritrovo a parlare con certa gente e a tirar fuori loro concetti che non sanno come esprimere. Loro risparmiano il fiato ed io mi distruggo a pensare e parlare per due. Ecco perché la solitudine paga, sotto certi aspetti. Dicevo che non ho molta scelta se non ricominciare da me. Ho imparato un po’ di lezioni no? Cosa devo fare? Buttarmi a capofitto in quella miseria di opportunità che sembrano apparire all’orizzonte ( in cui credo poco ) o continuare a lamentarmi fino a che, spossato, sarò il primo nemico di me stesso? Per otto ore al giorno fingo, prendo per il culo chi non si accorge di che pasta son fatto veramente, torno a casa, respiro un po’ di sentimento vero. Ma poi? Non c’è nulla di realmente consistente in termini di pensiero, di anima, di emozioni intorno a me. C’è chi crede che un viaggio possa essere talmente emozionante da cambiarti per sempre. Balle. E solo per questo dovrei vincere una paura atavica ( di volare ) per poi tornare tale quale a prima? E’ tutto fugace ragazzi! Anche tu che sostieni che d’ora in poi io non farò più testo, perché non prendo un aereo, non ti rendi conto di questo. Questo tuo desiderio di andare lontano, queste tue nuove amicizie….E’ tutto finto credimi! Tu viaggi e fuggi dalla tua realtà. Ora non sei più parte della mia. E’ normale. Tutto è fugace. Ma io almeno non mi illudo.
 
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mercoledì 19 ottobre 2011

In perfetto equilibrio

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ntirizzito nel corpo e nella mente, gli occhi sbarrati, dal marciapiede del binario guardo fisso il selciato della ferrovia; tutto ciò di cui ho bisogno sono le luci gialle del treno in lontananza ed una carrozza calda. Desidèri di una mattina d’autunno. Questi primi freddi mi irrigidiscono completamente. E’ questa la fase in cui riesce difficile scrollarsi da addosso il tepore tardo estivo di Settembre e ancor più risulta arduo accettare l’arrivo dell’inverno. Fasi di passaggio, cambiamenti in atto e non solo per quanto concerne la consistenza di ciò che si indossa. Scrivo poco, parlo ancora meno, ma quando lo faccio la percezione è sempre la stessa: chi mi sta intorno sta lentamente perdendo quella forma che io avevo contribuito a fare assumere. Una forma perfetta, qualcosa da cui non poter prescindere, una presenza indispensabile. E’ come se mi riprendessi tutto, e ricominciassi a disegnare intorno a me contorni più precisi, netti, inossidabili. Ciò che mi circonda sbiadisce di fronte a tanto splendore e tanto orgoglio. Scrivo poco ma quando lo faccio parlo solo di una cosa: cambiamento. Sono giunto ad un' ulteriore consapevolezza: non ho bisogno di scelte drastiche per segnare il passaggio, tutto viene naturale. Me ne rendo conto dai discorsi che faccio, dalle parole che non dico, dall’assoluta naturalezza delle conclusioni cui giungo. C’è un ultimo ostacolo da superare giunto a questo punto e ha sempre lo stesso nome: coscienza. Solo quando non avrò più alcun rigurgito, solo nel momento in cui le sue urla smetteranno di stordirmi, potrò considerare completata la mia opera. Non ho stabilito date, non ho sancito momenti di svolta; non ricordo quante volte me lo sono imposto, quante volte ho pianto promettendomi di non farlo mai più. E come sempre accade, ciò che più desideriamo arriva nel momento più inatteso. A me non frega nulla di essere ripetitivo, di continuare a celebrare un anno che mi è stato ostile. Non mi frega nulla di apparire lamentoso e noioso. Gli altri: chi sono? Cosa sanno? Ma perché giudicano? Sentirne il bisogno è più che naturale ma poi? Chi può provare le tue stesse emozioni, chi può avere le tue stesse reazioni, chi lo può fare? Esiste qualcuno capace di non mettere comunque sé stesso prima di ogni altro? Ora lo faccio io. Normale che paghi dazio, che paghi con la solitudine più estrema. E’ una regola di vita. Ma la bilancia è in equilibrio.
 
Bilancia

domenica 16 ottobre 2011

Sempre sul cambiamento

C
i vuole poco, anzi pochissimo, per capire il senso della vita. E’ così semplice, quasi elementare. Lo è di certo per colui che la vita la vive, l’ha vissuta e la vivrà seguendo un canone preciso: afferrare il giorno.  Non è così per chi (come il sottoscritto) ha preferito sedersi, assistendo allo scorrere inevitabile delle proprie giornate, nella speranza di un futuro migliore. E’ bello, bellissimo programmare il domani, soprattutto quando lo immaginiamo contornato da linee morbide e colorato da tinte pastello. Lo vogliamo tutti un domani migliore, no? Ma che domani e domani. Il senso della vita è il vivere stesso, è tutto qui. Se qualcuno mi avesse chiesto qualche anno fa quale fosse per me il senso della vita, avrei risposto con un secco: “Quale senso?” oppure “La vita ha un senso?”. Oggi mi ritrovo a respirare la vita a tal punto da non avere fiato da disperdere per ciò che mi gira attorno, tantomeno per qualcosa che non conosco, sia anche solo il mio domani. Vorrei con tutto il cuore che quelle poche certezze di cui dispongo al momento ( in termini di persone ) restassero lì dove sono in eterno. Non è possibile. Quale modo migliore per attutire l’eventuale colpo se non pensare a ciò che ho ora? Avverto un senso di fastidio non riuscendo a rivolgere anche una sola speranza nel domani; tempo fa, fabbricavo la mia apparente serenità su deboli pilastri fatti di immagini e situazioni che si sarebbero verificate da lì a poco. Non riuscivo tuttavia a capire cosa stesse realmente accadendo in quell’esatto momento. In quel momento il tempo stava scivolando via. Ed io mi aggrappavo al futuro. Ora mi è vietato farlo, il tempo perso è stato tanto. Di una cosa sono sicuro : non sto perdendo tempo. Lo sto mangiando, divorando, masticando a più non posso. Non riesco a buttare via nulla, nulla mi avanza. Le energie spesso vengono a mancare. Ma non ci sono momenti di sconforto, non ci sono cedimenti, costruisco la mia serenità giorno per giorno. Quante volte promettiamo a noi stessi di cambiare, scegliamo date o momenti dell’anno a partire dalle quali dare una svolta alla nostra vita. Non serve. La svolta è qui, anche in questa anonima e apparentemente inutile Domenica. Ma solo apparentemente.
 
cambiamenti

giovedì 13 ottobre 2011

Pronto a saltare

S
ono molto lontano dal blog, sono lontano dai miei lettori. E’ più che probabile che la causa sia questa: sono lontano da me stesso. Non mi studio, non mi osservo, non mi giudico, non mi colpevolizzo. Osservo gli altri, li sento parlare, ne sento tanti ogni giorno. Sento. Il che è ben lungi dall’ascoltare. Non ho più voglia né di fare il padre confessore, né di mettere  a disposizione una innata empatia per il bene altrui. E ho ormai dismesso i panni di attento osservatore di me stesso: tutti gli attrezzi del chirurgo dell’anima li ho chiusi in un cassetto e ho buttato la chiave. Vuoto. Io non ho mai avuto difficoltà ( seppur con estenuanti giri di parole ) a descrivere come mi sento. Cosa provo. Nulla, non provo nulla. La settimana si sta rivelando lunghissima, e calda; insomma, visto che io quest’anno ho deciso di odiare l’estate, questa si prolunga fino ad Ottobre. Sono piuttosto irritabile. Non sopporto gli studenti spaccaballe sul treno delle 6.30. Li reggo proprio poco, non tollero la loro voglia di parlare a manetta, di urtarmi con quegli zaini alle spalle mentre provo a dormire. Sopporto anche poco certi colleghi. Di cui ovviamente non faccio nomi. Divento piuttosto intollerante con chi non riesce a tenere una conversazione di un certo livello. Alla fine, dopo gira che ti rigira sempre solo finisco. Voglio questo. Sto diventando vecchio, invidioso, rompiballe, ma sto benissimo così. Tutto ciò che mi ruota intorno ha un unico colore ed un’unica consistenza. Non esistono sfumature, tantomeno eccezioni. Anche questa merda di servizio ferroviario mi fa incazzare. Che faccio ora? Sono finalmente arrivato alla conclusione: sono perfettamente autonomo, caratterialmente ibrido quanto basta. Cosa me ne faccio adesso del blog? Questo blog è “ragnatelato”, è vecchio, non è più il mio blog. Non sono più io, io e il mio blog ormai viaggiamo su binari paralleli. Posso semplicemente lasciarlo vuoto, fare si che rispecchi perfettamente quello che sono io, ora. Non ho più voglia di scrivere, di comunicare, di andare a ricercare le ragioni di qualcosa, di farmi domande senza risposte. Non è che per caso ho solo voglia di vivere? Non è che per caso sto tracciando una spessa linea di demarcazione tra me e il passato? Non è che ci sono arrivato al traguardo finale ? E che sto virtualmente saltando il fosso? Sono nel pieno di questo mutamento. Questo blog al momento lo testimonia. Quando sarò dall’altra parte gli dirò addio.
 
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lunedì 10 ottobre 2011

Schiaccianti indizi

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rima vera mattina lavorativa di autunno. Per contrastarne gli effetti passo ad illustrarne “a caldo” (sono le 6.42) alcuni aspetti tipici. Vestirsi “a cipolla”: operazione consistente nell’indossare un’orribile mescolanza di capi d’abbigliamento che appartengono alle quattro stagioni. Quello della mezza stagione è un luogo comune solo in apparenza perché di fatto gli armadi, in questo periodo mostrano il peggio di sé; almeno per uno come il sottoscritto che ama l’ordine delle cose. Vestirsi a strati comporta inoltre una frustrante perdita di tempo quando sono le 5.30 e si avrebbe solo voglia di mettere su bermuda, infradito ed uscire. O magari tenersi addosso il pigiama e tornare a dormire. Segno inequivocabile dell’autunno lavorativo del pendolare è il progressivo intirizzimento del corpo. In modo particolare me ne accorgo dalla postura di manico di scopa che assumo attraversando i giardini pubblici, ultimo scoglio prima di raggiungere la stazione. Un sentimento strano fatto di speranza mescolata a terrore è ciò che ti avvolge quando entri nell’atrio della stazione e cominci a desiderare con tutte le tue forze che le carrozze del treno siano riscaldate. Desideri ardentemente poterti addormentare, ascoltare la tua musichetta, persino scrivere, il tutto nel più familiare ( beh, si fa per dire) dei tepori. Uno degli aspetti più interessanti è il bagaglio di fisime e comportamenti standard cui non si riesce a rinunciare. Prima fra tutti, credere che il treno fermi sempre allo stesso punto del marciapiede; posizionarsi in quel punto potrebbe voler dire avere garantiti un paio di vantaggi: riesci praticamente ad agganciarti alla porta di ingresso con il solo movimento del braccio e corpo ben piantato a terra, probabilmente quella carrozza sarà anche una prima declassata. Voi ridete, ma è successo proprio stamattina. Sono tornato al mio vecchio amore. Il sedile di finta pelle azzurra con schienale quasi anatomico e larghi braccioli dove riesci persino ad appoggiare l’avambraccio senza che questo finisca sulle gambe del vicino. Strano a dirsi ma c’è uno strano silenzio: tale da far quasi rimbombare il docile suono delle dita sui tasti. E’ ora di riporre via tutto. Magari ci scappa pure un sonnellino.
 
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venerdì 7 ottobre 2011

Dare e avere

M
i capita di avere picchi di autostima. Lo dico da sempre. Si tratta di flash veri e propri durante i quali mi accorgo di essere ben più di quello che sono e mi reputo. Faccio fatica ad essere orgoglioso di qualcosa che mi appartiene ed il motivo è semplice: non mi accorgo di averlo. Da tempo mi sto lamentando di avere una lastra di ghiaccio al posto del cuore e di aver congelato ogni forma di emozione. Ma ( c’è sempre un ma..) sono io stesso a ricordarmi di avere un’anima e lo apprendo dalle mie stesse parole. Ma cavoli, proprio oggi parlando al telefono e sostenendo alcune tesi in materia di amore ed amicizia mi sono accorto di quanto sono capace di amare. E ne vado orgoglioso. Poco importa se l’amore, l’affetto, l’empatia, la disponibilità, l’umiltà non vengono ricambiate. Sono anche stufo di cercare per forza negli altri un mio secondo Io, capace di replicarmi in tutto e per tutto. In fondo l’ho sempre sostenuto che cercare conferme negli altri è un grave sintomo di insicurezza. Il meccanismo è infernale quanto foriero di benefici: basta un niente, basta accorgermi di quanto valgo e quanto sono capace in termini di “dare” e tutto vien da sé: autostima, e quel piacevole ed insostituibile senso di autonomia. Io non dipendo e non ho bisogno di nessuno. Bello eh? Amo. E amo con trasporto riuscendo perfettamente a dare un tocco di razionalità al tutto. Ho sempre sbagliato. Perché, ho sempre dato pensando di ricevere. Ma in amore non funziona così? E puntando l’attenzione su chi mi stava di fronte ho finito per non considerare quanto avevo dato io, quanto sono capace di dare e di dare ancora. Per quanto tempo durerà? Fa rabbrividire il solo pensiero di essere capaci di darsi in così gran misura; perché poi non è facile trarre soddisfazione dal solo dare. Ma chi abbiamo di fronte? Con chi ci rapportiamo giornalmente? Capisco pure una certa “crisi” di sentimenti ormai in voga. Non penso che non si sia più capaci di amare; penso che il nostro dare non ha più lo stesso peso di un tempo. Si dimentica con facilità, si pensa che poi, in fondo, la sofferenza dura lo spazio di qualche giorno. Se sai dare, se ami, allora è giusto farne un punto di forza, un motivo di orgoglio. E poco importa a questo punto, che quell’amore ti torni indietro.
 
dare e avere

giovedì 6 ottobre 2011

Buoni propositi

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desso basta. La mia vita deve cambiare. Ma che dico, la mia vita sta cambiando, la mia vita cambierà. Come posso far finta di nulla, come posso non accorgermi che il mutamento è già in atto? Tanti, troppi gli indizi a favore, non c’è alcun dubbio. Non posso permettermi di stare qui immobile ad aspettare, un po’ di rischio lo devo correre. Sarebbe una svista imperdonabile, avrei un rimorso di coscienza per tutto il resto della vita da qui a venire. Si rende necessario dunque un esame della situazione: probabilmente è il momento delle decisioni, quelle drastiche. Sento che non posso più permettermi di esitare, di ascoltare la mia coscienza. Occorrono fatti concreti , bisogna agire, ci vuole coraggio. Niente può mutare se veramente non lo voglio, se non lo desidero con tutte le mie forze. Da dove comincio? Questo 2011 è cinico. Sfacciatamente e alla luce del sole mi ha tolto, ancora mi sta togliendo forze ed energie; sotto sotto però, è arrivato per dirmi: “ Dai, Enzo, svegliati!!”. Non posso non ripensare ai miei ultimi anni di vita, alla terribile quanto costante sensazione del tempo che scorreva lento, lentissimo. Non posso non ricordare quei momenti in cui chiudevo gli occhi e speravo di addormentarmi per potermi svegliare quando ormai la giornata stava morendo. Io devo guardare indietro, oggi. Lo devo fare perché solo così mi posso rendere conto perfettamente della consistenza di questo cambiamento. Non potevo pretendere che tutto mutasse in una volta sola senza pagare pegno. Pago, sto pagando ma seppure in modo discreto godo di un grande privilegio: posso scegliere, posso cambiare, posso vivere. Vacilla terribilmente la mia concezione fatalista, vacilla sotto i colpi di un destino che si, ha scelto un momento preciso della mia vita perché tutto cambiasse ma, ora dice: “Tocca a te”. Qui viene il difficile: prendere decisioni, fare scelte, correre rischi. Ma quando mai! E a pensarci bene, la mancanza di coraggio mi ha portato dove sono ora. Molto deve cambiare, molto cambierà. Via da me la convinzione che io ruoti intorno agli altri. E’ tutto il contrario. Ora, uno può pensare che devo aver assunto qualche pastiglia strana per svegliarmi stamattina con questi pensieri positivi e propositivi. Nessun farmaco, lungi da me! Il bello di tutto questo è che, chi ruota intorno a me, inconsapevolmente fa il gioco del destino. Grazie allora, grazie a tutti quelli che mi stanno dando una mano ma non se ne rendono conto. Se non ci foste voi sarei perduto. Attenzione, mi sto riferendo a chi mi vuole male. Scrivo questo post alle ore 7.36. Giudicate voi se è meglio tornare all’antico (17.20) o scrivere sul 6.30.
 
buoni propositi

mercoledì 5 ottobre 2011

Orecchie da mercante

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i dice che talvolta la nostra coscienza ci parla sottovoce. La coscienza di un masochista urla. La mia poi, a squarciagola. Urla e lotta strenuamente con il mio povero cervello, contro quella corazza indistruttibile che si chiama razionalità. Io mi chiedo perché debba intromettersi così maleducatamente proprio mentre, coccolato da ragionamenti e conclusioni che non fanno una grinza, il cervello vive giorni di pace. Non lo so. A volte ho bisogno di lontananza fisica, ho bisogno di ridurre le parole dette, ai minimi termini: mi serve per fare due conti e capire. E’ accaduto così, mi sono posto moltissime domande a cui sono riuscito a dare risposte soddisfacenti. Sono giunto alla conclusione che quello strano e sconosciuto sentimento che mi attraversava il cuore si chiamava indifferenza. Una serenità fatta di assenza di emozioni, positive e negative. Un equilibrio perfetto. E proprio mentre mi dondolavo beatamente sulla culla del mio risultato raggiunto, ecco , invadente, maleducata, persino arrogante, farsi largo lei. Urla, sbraita, provando in tutti i modi a stordire il mio sonno, rendendomi incapace quasi di intendere e di volere. Ma cosa vuole, mio Dio, cosa vuole da me??? E soprattutto, perché mi sta dicendo che forse i miei conti sono sbagliati? Perché vuole insinuare nella mia mente che potrei avere sbagliato qualcosa? Cerca solo di dirmi ancora una volta che nonostante la mia serenità dovrei valutare altri aspetti della situazione e, se il caso, rivedere alcune posizioni. Tutto questo mi stordisce. Siamo schiavi della nostra coscienza? O basterebbe semplicemente fare orecchie da mercante? Probabilmente i miei calcoli sono giusti, ma non posso pensare che il mio subconscio mi voglia così male. Sono ancora schiavo della mia coscienza. Non è un aspetto del tutto negativo, forse. La sostanza è questa: sento paurosamente cigolare quelle certezze acquisite nell’ultimo mese. Sto parlando di relazioni interpersonali, di quelle importanti. Speravo di aver finalmente capito quale fosse la strada giusta. Ed ora? Lei, la mia coscienza è sempre lì. Se ne sta nascosta, pronta ad approfittare di ogni mio cedimento. Voglio, esigo, fare orecchie da mercante. Come sempre, ci provo.


domenica 2 ottobre 2011

Attraversamento pericoloso

E
ffettivamente stento a riconoscermi. Anche il mio approccio al blog sembra essere mutato. Anche lui mi è del tutto indifferente. Ci scrivo, certo, ma ci credo meno. Ma che sta succedendo? Perché tutto mi appare così tremendamente ibrido e privo di ogni consistenza? La cosa che ha dell’incredibile è la naturalezza con cui tutto sta accadendo. Anni e anni per provare in ogni modo ad essere (finalmente) al di sopra delle cose. Anni di comportamenti e tecniche studiate a tavolino. Ed ora? Tutto vien da sé? E’ il leitmotiv di questi ultimi mesi. Papà sta come sta, e vivere la giornata è per tutti noi della famiglia una regola cui non ci si può sottrarre. E’ come se ci fosse stato prescritto uno di quei famaci salvavita. Ogni giorno, puntualmente, non appena poggio i piedi a terra, assumo una simbolica pastiglia. Il mio salvacondotto per la tranquillità quotidiana. Dunque la mia serenità di oggi passa attraverso una necessario senso di superiorità verso tutto e tutti. Un’ostentata sicurezza che non traspare dalle parole, ma è del tutto invisibile agli altri. Ed è proprio quando sono da solo, quando vivo i miei momenti di solitudine che mi accorgo del cambiamento. Non c’è nulla che mi tormenta, nulla che mi faccia per un attimo crollare. Io lo ripeto ancora una volta che mi faccio un po’ paura. Che sono salito su di un piedistallo sufficientemente alto per guardare tutti da un diverso punto di vista. In questi giorni, in alcuni isolati momenti di riflessione, mi chiedevo se fosse lecito domandarsi se tutto ciò ha un senso. Se queste mie giornate e questa mia progressiva e consistente aridità siano poi propedeutici a qualcosa. Stare così, non provare nulla, è un traguardo oppure un mezzo? Bella domanda. Sono il solito incontentabile: ora che ho finalmente raggiunto il mitico stand-by emotivo (e potrei di fatto essere felice), che faccio? Mi chiedo se oltre a questo può esserci altro. E’ piuttosto interessante quanto probabile il fatto di immaginarmi mentre sto attraversando una pericolosissima autostrada, e che sto evitando una per una, tutte le macchine che la percorrono. E prima o poi, arriverò dall’altra parte. Non è finita qui.
 
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