giovedì 28 febbraio 2013

Viva il bimbo Enzo

N

on ho fatto altro che parlare di maschere negli ultimi tempi. Ne ho utilizzate di tutti i tipi, ma quasi mai sono riuscito ad essere veramente chi non sono. Sono giunto alla conclusione che indossare una maschera non voglia affatto dire, fingere; sono sempre più lontano dall’idea che ciò significhi abbandonare totalmente se stessi per adattarsi al mondo. Prendete il sottoscritto. Sono consapevole di avere una personalità complessa, frastagliata, di difficile interpretazione. Ma sono altrettanto convinto di poter mettere a frutto questa ambiguità per far fronte alle difficoltà quotidiane. Oggi sono bimbo, domani imbronciato, poi istintivo, ancora razionale. Ma sarò sempre me stesso perché nessuna di queste maschere mi è estranea. Partiamo da un presupposto fondamentale: chiunque tu sia o voglia essere, agli occhi del mondo non andrai mai bene come sei. Quando indosso la maschera del bimbo ad esempio, lo faccio allo scopo di esorcizzare i momenti in cui ho un estremo bisogno di protezione. Che colpa ne ho io se, la maggior parte delle persone che mi circondano, solo per questo mi giudica dandomi dell’infantile? Quando decido di far sentire che ci sono, divento improvvisamente istintivo, faccio la voce grossa; questione di attimi, spesso inopportuni all’interno del contesto. Ma sono per me necessari per autoconvincermi di avere le palle, di essere un uomo maturo. Che colpa ne ho io poi se, chi mi circonda mi dà del lunatico, del folle? Quando poi decido di essere tutto cervello e niente cuore, lo faccio per proteggermi dalle aspettative e dalle delusioni, per sentirmi ben saldo a terra. Che colpa ne ho io se, ai più risulterò una macchina? Vedete, non riuscirò mai ad indossare la maschera dell’ipocrisia, e nemmeno quella del bastardo perché sono tratti caratteriali a me estranei. Non sono finto, sono sempre io, e mi ritengo fortunato ad avere una così grande disponibilità di sfumature caratteriali. Che poi, non lo nego, tutto ciò contribuisce a trasmettere un’immagine misteriosa del sottoscritto. Non chiedo tuttavia di interpretarmi, non chiedo di capirmi, ma sorrido di gusto quando vengo giudicato sulla base delle apparenze. Chi mi sta dando dell’infantile ad esempio, è persona che non ha mai meritato la mia stima. Ai suoi occhi e per la mia sopravvivenza continuerò ad essere bimbo. Perché questa è la maschera che più di ogni altra adoro con tutto il cuore. Viva il bimbo Enzo.

 
bimbo

martedì 26 febbraio 2013

Sorriso amaro

I

l weekend appena trascorso mi ha lasciato un sorriso amaro in volto. E’ quello della consapevolezza, dell’accettazione quasi definitiva della mia inadeguatezza e della necessaria finzione laddove ( e sono rari casi ) io mi trovi faccia a faccia con il mondo. Parola grossa, mondo. Ma nel mio caso e, considerando il mio punto di vista ( quello dell’eterno solitario), mondo vuol dire anche una piccola folla di quattro o cinque persone. L’importante è che io mi trovi, mio malgrado, a doverne vivere la presenza. Ho il sorriso amaro di chi mette nel sacco un’altra delusione che non arriva però dal mondo, bensì da me stesso. Bello potersi confrontare, bellissimo alla luce di lunghi periodi di isolamento e lamentele sulla necessità di avere qualcosa di “vero” e non virtuale. Terribile quando ti rendi conto di sentirti sempre inadeguato, e di studiarti nelle movenze, nelle parole dette, nelle battute di spirito, persino nei silenzi. Avrò detto qualcosa di sbagliato? Come mi vedono? Cosa pensano? Studiarti e studiare chi ti circonda. Questo è il mio voler vivere il mondo? Normale allora che alla fine di tutto mi ritrovi in auto, verso casa, ragionando ad alta voce, autoconvincendomi che così facendo, non lascerò nulla al caso e sarò sempre prevedibile e insoddisfatto. Ho un sorriso amaro che mi dice tante cose, mi fa tornare a casa quasi io volessi a tutti i costi la protezione della mia stanza e della mia solitudine. Poi ho i miei momenti. Improvvisamente mi sveglio dal torpore e tiro fuori gli attributi quasi volessi dare un segnale della mia presenza, quasi fosse l’unica possibilità per dire che poi non sono solo quel segaiolo mentale in perenne lotta con se stesso e con gli altri. Che non sono solo il serioso, ombroso, cinico, a tratti bastardo che emerge da queste righe. O meglio, non lo sono solo a livello teorico. Quando mi si prospetta la possibilità di vivere non mi tiro indietro, sappiatelo. Trattasi però dell’esperienza più difficile perché ogni volta è come accendere la luce dopo lungo tempo al buio. Ce ne vuole prima che l’occhio metta a fuoco. Il problema dove sta? Forse proprio in queste righe, nel voler a tutti i costi dire qualcosa che non vada oltre la teoria delle parole; sono belle, fanno effetto, ma si disperdono quando ci devi mettere la faccia, e scontrarti con chi delle parole spesso fa volentieri a meno. Continuo a scrivere, mi è mancato farlo in questi giorni. Chi sono, dove sono e dove sto andando non me lo dirà certo il mondo.

 
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giovedì 21 febbraio 2013

Domanda d’obbligo

L

e giornate sono tutte uguali. Bella scoperta. Constatazione ai più indolore, affermazione di circostanza, intercalare ormai frequente. Tutto normale o quasi, almeno per chi non ha molto tempo per rendersene conto oppure è dotato di un cervello non predisposto ai “perché”. Sono l’eccezione che conferma la regola. Le mie giornate iniziano e finiscono in un battito di ciglia, almeno l’impressione è questa. Nel bel mezzo succede un po’ di tutto, anche se, non appena mi infilo sotto le coperte ho già rimosso ogni cosa. Non ho tempo per pensarci e tutto questo sarebbe bellissimo. Peccato che il mio difetto di fabbrica consista nel ripetere meccanicamente la stessa domanda quelle volte in cui (e sono tante) la vita tocca le corde del mio cervello. “Perché?”. “Che senso ha?” Ci sono giornate come questa che hanno la sola funzione di ricordarti, qualora te ne fossi scordato, che la vita non ha alcun senso. Che magari avrà sempre senso viverla, sta a te come. Io sono uno di quelli che, alla veneranda età, ha deciso di impegnarsi; non a dare un senso alla propria vita bensì a capire se questa possa realmente averne uno. Se arrivassi ad una conclusione positiva, mi adopererei in tale direzione. Dunque sono in viaggio, alla scoperta di cosa potrebbe voler dire “vivere”. Troppi però gli indizi a sfavore, troppe le conferme e le immediate smentite. Forse la vita non avrà un senso e forse ancor meno ce l’ha il fatto che io mi divori il cervello a cercarne uno. Ma vedete, non ne posso fare a meno. Ad un certo punto della vita, guardi le persone, le situazioni, ciò che ti accade intorno con occhio spudoratamente critico, analizzatore. Non sono un materiale, sono un teorico, mi faccio seghe mentali, non vivo. Sento però di appartenere a questa vita solo nel momento in cui cerco di capirla. E’ struggente, penoso, forse irrazionale ma non lo so evitare. Se proprio devo vivere, se proprio devo rendere conto di me a qualcuno (perché non sono invisibile, parlo, rido, piango e via dicendo), beh, allora mi sia concesso di usarlo il cervello e di passare per folle. Almeno quando sono solo perché è quando sono solo che capisco, mi rendo conto. E faccio quadrare i conti. Ripeto: la vita non ha un senso, ha senso viverla ma decidiamo noi come. E se a metà del cammino scopri che sei fuori da questo mondo, allora forse sei libero. E goditela questa libertà, nel tuo piccolo mondo fatto di niente ma pieno di perché.

 
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martedì 19 febbraio 2013

Libertà, libertà

V

oglio godermi questo momento. Si chiama forse libertà, ma desidero tanto non usare nessuna delle maschere nascoste nell’armadio. Ambisco ad essere me stesso senza limitazioni, senza ingerenze esterne, senza domande né risposte. Sto vivendo una vita di merda che più di merda non si può. Non ci sono appigli nelle cose, non ambisco ad averne tra gli umani, fatico solo con la mia famiglia per apparire il più possibile “neutro”. Con loro non mi lamento, non mi incazzo, non gioisco, non piango. Hanno capito che non possono più pretendere da me l’assoluta trasparenza, ma a dire il vero non la può pretendere nessuno. Mi sento stranamente libero di muovermi nel mio piccolo mondo di niente, ho poca voglia di parlare, di urlare, di comunicare. Non indosso maschere al lavoro, sono io cavoli, sono io. E sono io quando dico che non ho bisogno di sentirmi amato o voluto bene. Bisogna, (cacchio nessuno può farlo) entrare nella mia vita, anche solo per un  giorno, per capire il niente di cui vivo, di cui sono circondato, verso cui sto andando. Ma esigo e pretendo di sentirmi libero mentre mi muovo solitario nella landa desolata della mia esistenza. Sono felice di questo? Sono un uomo che non ha più pretese, che apre gli occhi alle cinque e mezza del mattino, li chiude alle dieci di sera senza nemmeno avere il tempo di chiedersi se valga la pena tutto questo. Oddio che lamentoso che sono! Io me lo posso dire, mi posso rimproverare. Le mie giornate terminano con un muso lungo, sempre; con la voglia di usare il meno possibile la bocca per parlare, se non per mangiare. Maledico i weekend o forse non li maledico più. Che li maledico a fare? Io non riesco a far capire di cosa ho bisogno perché non ho bisogno di nulla. E stento a far capire di cosa non ho bisogno. Non ho bisogno di amore, di comprensione, di affetto, di condivisione. Non è il solito post incavolato, pessimista, scritto alla fine dell’ennesima giornata pesante. Quando li devo scrivere gli articoli perché ne esca uno positivo? Mi viene da ridere perché non esiste momento della giornata in cui io non pensi a quello che sono diventato. Non ho tanta voglia di giustificarmi, di spiegare. Voglio dire le cose come stanno, che ho bisogno che mi cada la manna dal cielo, che mi capiti qualcosa di straordinariamente bello che non è roba di questa terra. Dio mio, ma fate in modo che io possa finalmente smettere di chiedermi perché.

 
papavero


domenica 17 febbraio 2013

Anacronismi

N

on maledico i miei quarantaquattro anni, piuttosto il fatto di sentirmene almeno venti in meno. Non maledico il luogo dove vivo. Lo odio ma ho sperimentato che il malessere lo porti ovunque, che tu viva in un minuscolo paesino oppure in una metropoli. Si dirà che non ho vissuto bene i miei vent’anni se ora sono qui a menarla con i rimpianti ed i rimorsi. Macché. Forse me la sono anche goduta, senza farmi mancare le seghe mentali, ma me la sono goduta. Maledico il fatto di trovarmi in un tempo che non è il mio e non accetto che la gente si adegui con facilità a questi giorni di ipocrisia, maleducazione, indifferenza, rapida disaffezione, acuta ignoranza. Quando giungo alle conclusioni mi viene un tuffo al cuore e ripenso al tempo perso e agli errori di un decennio fa. Acqua passata, va bene, ma il dazio lo paghi ora e, se hai coraggio il passato lo guardi e lo studi per capire il perché di un presente di merda. Gli altri non c’entrano, c’entro solo io nel bene e nel male. E’ che, ancora non riesco a chiudere con il mondo definitivamente, a ritirarmi a vita ascetica. E fino a quando girerò come una trottola tra voci, volti e parole a me del tutto estranee mi sentirò un pesce fuor d’acqua. Sono un ragazzino, senza grandi responsabilità un po’ per colpa un po’ per merito di una famiglia che ha fatto di me una persona perbene. Sempre incazzata, impulsiva, odiosa, detestabile ma educata, pura, limpida. Maledico i miei trent’anni vissuti nell’incertezza del futuro di cui conoscevo bene le problematiche che mi avrebbero coinvolto. Mi detesto perché non avrei dovuto sentire le voci opprimenti di chi ti invogliava a fare cose che non volevi. Rebus sic stantibus, sono un uomo indecifrabile, superbo, distaccato, e ho tanta voglia di liberarmi di ulteriori scorie. Sono stanco di condividere il mio malessere con altri malesseri, me ne devo liberare. Mi sento un giovanotto che ha voglia di fare cazzate, di rischiare, di mandare a fanculo moralismi e tutti quegli stereotipi sull’uomo di quasi mezz’età. Ma scherziamo? Maledico il mondo perché l’ipocrisia della gente è tale che, pur di vivere seguendo le regole del momento perde contatto con se stessa, accetta di buon grado e giustifica i peggiori comportamenti. Sono unico, non voglio più avere a che fare con nessun altro se non quel ragazzino che è in me e che adoro più di ogni altra cosa.

 
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sabato 16 febbraio 2013

L’aria del Sabato sera

E

’ il post più difficile da scrivere quello del Sabato sera. Semplicemente perché non vorrei scriverlo, vorrei non avere tempo per farlo, vorrei essere altrove. Ma sarà poi vero? E poi, come faccio ad evitarlo visto che per me scrivere è una droga? Mentre, Sabato scorso, mi trovavo a circa cento chilometri da qui, quasi sentivo la mancanza di questo momento. E allora forse non è più difficile di altre volte, buttare giù qualcosa. Il Sabato ha sempre un’aria strana, l’atmosfera impalpabile, non c’è pensiero cupo che mi attraversi anzi, la mia mente è vuota. E quando non penso mi sento un po’sperso, forse è per questo che il Sabato mi fa paura. Dunque ben vengano la settimana lavorativa con annessi e connessi, di cui mi lamento sempre ma che poi sono il mio ossigeno. E’ tutto chiaro sebbene mi piaccia parlarne e rigirare il discorso in tutti i modi. Il lavoro mi assorbe, mi toglie vita ma è ormai a tutti gli effetti, la mia vita. Due stupidi giorni trascorsi a casa non significano nulla: non significano riposo perché mi basterebbe molto meno, non significano diversivo perché non ne ho la possibilità. Non significano nulla. Tutto perde senso, al Sabato. Non voglio e non devo dimenticare i momenti con la mia famiglia, sempre più rari sebbene io sia sempre qui, con loro. Ma le cene della settimana sono mute, veloci, tanto sono indaffarato a pensare al giorno successivo. Ci si deve accontentare, ci si deve arrangiare. Belle parole. Facile no? Macché. Parliamo di questa settimana lavorativa allora e degli aspetti che riguardano da vicino il mio carattere. Sono stato zerbino, accondiscendente, disponibile. Più che mai. E mi sono alterato molto, come sempre solo al culmine della sopportazione. Ci sto male dopo, mi faccio pena. E’ orribile pensare alla percezione che gli altri possono avere di me: provate a dire di No una volta, provateci. Verrete pure mandati a cagare. Insomma, starei volentieri lontano dal mondo se solo mi fosse concesso, ma non posso e mi tocca pure accettare quello che sono. Ma io mi domando e dico se può vivere serenamente una persona così. Si dirà che ho tutte le fortune del mondo, che basterebbe affrontare la vita con il sorriso. Stronzate. Non basta l’empatia, non basta nemmeno più quella. Il post del Sabato sera finisce qui. Non è servito a nulla, oppure è servito a farmi sentire ancora peggio. Oppure ancora, a dirmi che sono unico nel mio genere.

 
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giovedì 14 febbraio 2013

E’ fisiologico

F

asi di intenso lavoro mentale alternate ad altre di non-pensiero. E’ una di queste ultime. Il mio blog si sta progressivamente cerebralizzando, lontano anni luce dall’emozione e dall’emozionarmi. Sono stati fatti passi avanti in questa direzione, inizialmente mio malgrado poi, voluti e decisi. Il foglio è pur sempre solo un foglio pieno di parole dall’apparente senso compiuto, nulla più. A volte però fare andare la penna diventa fisiologico come fare la pipì. Se ti scappa, devi correre anche se trovare un foglio nel bel mezzo di una passeggiata oppure in un bagno pubblico diventa problematico. Il mio essere pendolare mi svuota emotivamente, rende ogni giorno l’esatta fotocopia del precedente e via andare. Se si considera che il viaggio, il lavoro sono la mia vita la spiegazione è presto servita. I primi tempi a Torino erano incredibilmente produttivi; di me, di tutto ciò che di nuovo era entrato a far parte della mia vita non potevo fare a meno di raccontare. Si era aperto uno squarcio di sereno in un cielo fattosi paurosamente grigio. Rifletto sulla fugacità di ciò che sembra dare un senso alla nostra vita, alla fragilità dei rapporti che si squagliano sotto l’azione del tempo e dell’abitudine. Penso in modo particolare ad alcuni aspetti che tornano sempre d’attualità quando si parla di assenza di relazioni. La contingenza, il reciproco riconoscersi, un inaspettato “mal comune mezzo gaudio”. Poi? Poi non c’è tempo, poi il vento comincia a soffiare nella giusta direzione e…via. Bisogno reciproco e momentaneo. Da buon depresso, insicuro, astenico e altro, sono sempre stato portato a legarmi ai miei simili. Ne ho sempre compreso la condizione per ovvi motivi ma inconsciamente ne ho altresì desiderato il protrarsi della stessa per non sentirmi più solo. Porto con me questo retaggio del passato perché passato non è. E’ presente, più presente che mai. Il male di vivere è uno status traditore: ti fa credere di avere bisogno di qualcuno, di un sostegno che sia il tuo specchio personale. Ti trasforma in un essere egoista, accentratore del tutto indifferente ai problemi altrui. La solitudine porta solitudine attraverso rapporti pseudo-empatici. Non fatemene una colpa, dico questo perché come sempre è ciò che sento ora. Sono cerebrale, non ho pretese se non di soddisfare un’esigenza fisiologica.

 
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martedì 12 febbraio 2013

E’ tutto un attimo

N

on sono avvezzo a parlare di emozioni anzi, il solo pronunciarla, questa parola, mi imbarazza. Si può dire che provi persino un leggero fastidio. Difficile, quasi impossibile io riesca a percepire i sussulti del mio cuore, quasi mai si trasformano in attimi di vita vera. Il cervello oppone una solida resistenza e quando si prova a combatterlo la sensazione è di debolezza, di un pericoloso distacco dalla realtà. Non vivo un’emozione da anni, parlarne (e addirittura scriverne) è la cosa che più mi riesce difficile. Poi magari alla fine di questo articolo vi dirò che emozione ho provato. Tortuose, impervie, accidentate sono le strade che portano al mio cuore: provate a chiederlo alle persone che vi si sono avventurate, per poi impantanarsi nella solita via senza uscita. Provate a chiederlo alle parole; pesanti, importanti, eppur scivolate via fino a perdere la loro forza nella solita strettoia del dimenticatoio. Ma non esistono percorsi, non ci sono segreti o strani enigmi da interpretare per liberarmi del ghiaccio che mi copre. La strada per l’emozione è l’emozione stessa: immediata, fugace, labile, persino talvolta illusoria di un futuro migliore. La notte ha allestito per me, senza troppo faticare, un palcoscenico naturale del quale, questa mattina (e mio malgrado) io sono stato protagonista. La solitudine del momento, accentuata dall’ora piccola e da quel silenzio che io vivo sempre come una musica celestiale. Condizioni ormai note, mie. Camminavo, alternando i soliti passi spediti ad altrettanto improvvisi stop. Ad ogni stop, un click. E la mano che nervosamente fa risalire la tracolla della valigetta intenta a fare spola tra spalla e avambraccio. Ecco un altro po’ di passi ed ecco un altro click. La frazione di secondo tra ciò che l’occhio percepiva e la pressione del dito sul pulsante. L’emozione era lì. E lì è rimasta. L’emozione è uno status in cui i nostri sensi giocano in sincrono. Un pizzicotto ben dato sulla nostra parte più sensibile ed uno scatto improvviso per capire da dove arriva. Poi, riprendevo il passo, sempre più spedito. Tutto qui. Non sto condividendo questa emozione con voi, perché non è possibile farlo. L’emozione in differita sa di minestra riscaldata, non credete anche voi? Racconto di me, di un momento di cui non volevo parlare ma che rafforza il mio concetto di serenità, fatto di solitudine, attimi, inesistente percezione del futuro.

 
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lunedì 11 febbraio 2013

Contatto!

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on è di certo il luogo a fare la differenza. Ovunque io vada l’ombra di me stesso è la peggior compagnia io possa avere. E fino a che sarò con me, altrove, non avrò pace. Ogni volta che provo ad allontanarmi dalla gabbia in realtà porto la gabbia con me. Quale uccellino non desidererebbe altro che riuscire ad aprire la porticina e volare libero? Ma chi lo dice che alla fine, non decida di tornare là dove ormai si era così ben abituato a vivere? Il povero uccellino accetterà di buon grado che le proprie ali non sono poi così utili alla causa, se il mondo in cui vuole vivere è la gabbia. E così io, tanto desideroso di fuggire ma ancor più bramoso di tornare. Non agogno la fuga, desidero con tutto me stesso, il ritorno. Non miglioro, non peggioro, sono stazionario. E pure stanziale, abitudinario, solitario, immobile. Quelle rare volte in cui metto il naso nel mondo avverto un odore forte, fastidioso, mi sento spintonato a destra e a sinistra, perdo il senso dell’orientamento, barcollo. Si può perdere tempo in tanti modi, io amo farlo guardando per aria, fissando il mio caro punto nel vuoto piuttosto che sentirmi un’entità, tra i corpi. Non voglio autoconvincermi di avere possibilità di miglioramento. Ieri, ho ritrovato il mio tanto amato finestrino. Guardando oltre lo sporco del vetro, ho ben immortalato i colori che il sole cercava di ravvivare in un estremo quanto goffo tentativo di spintonare l’inverno. Primi abbozzi di primavera. Primi pensieri colorati: la mia nuova bicicletta, una foto dai colori vividi, il mare, i vestiti leggeri. Sono andato in piazza e ho dato qualche segno di squilibrio, gridando dapprima di voler uscire dal mondo: l’ho fatto. Sono subito rientrato. Follia pura. Smetto di gridare, di dire che sto male. Attiro l’attenzione. Smetto di dire che sto meglio. Attiro l’attenzione. Non c’è intimità più intima del mio intimo per capire se sto bene oppure male. Sto. Non so se leggerlo come un segnale positivo, di reale evoluzione ma finalmente mi capisco. Comprendo le mie ragioni, riesco a far quadrare il cerchio, non c’è sprone che abbia un senso. E non solo perché realisticamente non esistono margini di miglioramento, semplicemente perché io non voglio migliorare. Mi piaccio perché credo fermamente in ciò che dico e la percezione che gli altri hanno di me conta sempre meno. So che non vivo, che nemmeno sopravvivo. Io respiro. E’ un modo semplice per dire che sono morto dentro ma solo perché corpo e anima ora si toccano. Ditemi che è poco.

 
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giovedì 7 febbraio 2013

La stanza dei giochi

C

ome se non bastasse la vita, ci si mette anche il lavoro a ricordarmi ( ammesso ce ne sia bisogno ) chi sono e chi invece vorrei essere. Dedizione ammirevole, impegno, ostinazione: doti che fanno di te un impiegato modello dal destino segnato. Ne ho già parlato ieri. Qualità fini a se stesse, dall’utilizzo limitato e del tutto inutili nel grande circo della vita. Chi sono io? Questo, purtroppo. C’è altro, che non vorrei essere. Misero, meschino, senza palle, vigliacco, qualunquista, eternamente sottomesso. Più passa il tempo più divento piccolo; dentro di me cresce la convinzione che il mondo mi sia stato costruito intorno al solo scopo di impedire la realizzazione del mio percorso. Minuscolo, sfigato, un bambino che si agita in un corpo di quarantaquattro primavere, ostaggio di paure, della solita fragilità, del timore di far sentire che esiste. Il confronto è difficile, a livello concreto. Fino a che, vigliaccamente, mi limito a teorizzare del mio mondo ideale, del mio archetipo di umano, tutto e tutti sembrano inutili, piccoli, indegni di questa vita. Ma ogni mattina, ogni santo inutile giorno le parole dette, annunciate, si sparpagliano, perdono consistenza, vanno nel cesso. Eccolo, il protagonista di un film muto: entra in scena, come da vent’anni a questa parte e…cosa fa? Dimentica tutto. Come poter fondere teoria e pratica in modo tale da raggiungere un compromesso salvifico? Impossibile. E così mi prendo la libertà di giocare con il mio orribile carattere, di scriverci pure, di provare a confrontarlo con quello di altri, quasi sempre uscendone vincitore. La gloria del vigliacco. Quando il film quotidiano finisce, entro nella mia stanza dei giochi e comincio a giocare. Due mondi dunque, due realtà, due persone. Ragazzi, non è affatto facile sapete? La contraddizione è dentro di me, si nutre di me. Perversa e invadente genera centomila Enzo differenti. Qual è quello vero? Quale quello migliore? E quello giusto? Si perché sebbene non esista alcuna regola di vita universale dovrebbe almeno esisterne una per ogni situazione. Che non comporti mai, sofferenza. Stanno ancora costruendo intorno a me, il cemento mi soffoca. La città si fa opprimente. Ho bisogno ancora della mia stanza dei giochi. Questo bimbo non ha voglia di crescere e sapete perché? Perché sono troppo geloso di me stesso, di cosa non sono diventato. Non posso tradirmi nel nome di qualcosa di tanto strano che gli altri chiamano vita.

 
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martedì 5 febbraio 2013

Il megafono

L

’insicurezza è portatrice sana di molteplici patologie, tutte con lo stesso comune denominatore: la ricerca ( anche un po’ perversa ) di attenzione verso se stessi. C’è chi organizzerebbe il proprio finto funerale allo scopo di capire “ex post” quante persone ne piangerebbero la dipartita. Difficile però in questo caso distinguere la vera sofferenza dalle lacrime di coccodrillo. Ne avremmo di che discutere e sorprenderci. Al tempo in cui il mondo era uno ed uno solo ( reale) la tecnica più diffusa era la fuga. Scappo per farmi accalappiare. “Chi l’ha visto” sotto certi aspetti ha pure amplificato la mania di protagonismo di colui che fugge. Cercatemi, sto scappando, vediamo quanto vi frega; ci vuole tuttavia una buona dose di coraggio. Al tempo dei mondi paralleli (reale e virtuale) tutto è maledettamente semplice: basta un click del mouse. Di una immediatezza disarmante, dal riscontro efficace. Disattivo, sparisco. Sparire, sempre e comunque. Il masochista non ha certo paura della prova del nove e dell’esito infausto della stessa. Provo a verificare, sebbene io sappia che fare parte di una grande piazza fa di noi numeri, fa di noi una voce nel bel mezzo di un grande comizio dove parlano tutti e tutti credono di avere capito. Sentite, so bene che fuga spesso fa rima con codardia. L’insicuro è in quanto tale portato all’alienazione per timore dell’inevitabile confronto. Il picco in negativo della propria autostima gioca poi il ruolo della goccia che fa traboccare il vaso; ecco che a quel punto abbiamo l’antidoto: un click del mouse. Disattivo. Sto vivendo in questi giorni la mia personale prova del nove, scelta dettata dall’ennesimo “big bang” portatore sano di un bisogno impellente di attenzione. Insomma, conosco le origini del male, vado in farmacia e compro un farmaco che so essere del tutto inefficace. Ma chi me lo fa fare? Masochismo? Ancora? Addirittura egocentrismo? Chissà se qualcuno si chiederà che fine ho fatto, se Tizio o Caio si domanderanno perché. Sono fuggito dal mondo virtuale o almeno credo: in questo momento, quale mezzo sto credendo di usare? Patetico. E meschino. E’ come avessi smarrito il mio megafono. Non posso più urlare la mia insicurezza. La sto reprimendo? Non ne sono sicuro. Vabbè, tanto lo so. Tra poco ritroverò il megafono e tutto tornerà esattamente come prima. Mettiamola così, mi sono fatto un giretto là dove un tempo, a risolvere i problemi era un semplice abbraccio.

 
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lunedì 4 febbraio 2013

Porgi l’altra guancia ( anche no )

E

’ raro. Diciamo,è assai poco frequente che mi lasci andare ad autocelebrazioni. Oggi lo faccio. Noi esseri sensibili, fragili, persino un po’ folli abbiamo sempre bisogno della nostra quotidiana dose di masochismo. Ci serve per sopravvivere. La mia personale fornitura è rappresentata dalla delusione; concetto assai lato è vero, ma quasi sempre intrinseco alle relazioni umane. E’ lei che colpisce come un gancio al viso, scaraventandomi al tappeto. E’ avvezza, ci ha preso gusto. Sono tramortito ma non morto, respiro ancora voglia di vita. Il masochismo segue regole perverse cui il cuore non sfugge, e non lo si può negare. Mi odio quando apro la linea di difesa per consentire agli attaccanti di sfondare. Se ho scelto di non avere più alcun tipo di relazione ( anche sentimentale ) una ragione plausibile ci sarà. Ufficiosamente il motivo principale è nella strenua difesa di una libertà conquistata o forse non voluta ma predestinata. Gli spazi, le abitudini, l’aria che respiro. Voglio tutto per me. Ma non dimentichiamo le paure, l’incapacità di sostenere il peso di un possibile compromesso, la vigliaccheria quando si tratterebbe di affrontare le comuni discussioni tipiche della vita a due. Ufficialmente sono geloso, possessivo e protettivo. E per uno strano gioco degli specchi le persone che più mi mettono in difficoltà sono proprio quelle che usano la mia stessa moneta. E quando non ve n’è motivo. Chi ostenta una costante presenza nella mia vita spacciandola per affetto , ha sbagliato i calcoli. Non contesto i sentimenti altrui, ma pretendo, esigo e impongo che io venga rispettato come persona. Guai uscire dagli argini del volere bene travolgendo la debole difesa innalzata da chi cerca di usare la testa. Il quieto vivere. Ovunque, e sempre. E’ la mia teoria, stupida ma pur sempre una teoria. La porto con me ovunque, a costo di non espormi mai, di non prendere una decisione. Sul lavoro è la mia regola numero uno e lo è anche nella vita. Sono un vigliacco. Per questo scelgo la solitudine. Il litigio, la voce grossa, l’insulto. Perché arrivare a tanto? Si dirà che la reazione è commisurata all’affetto che si prova, ma non è sempre così. E’ il maledetto virtuale che impedisce le vie di mezzo, che porta ad esasperare i toni. Tante domande ancora, mentre sono a terra tramortito. Mi rialzo. Mi complimento con l’Enzo di oggi. Rialzati, e che non valga il detto: “Porgi l’altra guancia”.
 

 
Guantone


domenica 3 febbraio 2013

Semplicemente, Willy

I

mmaginate io sia Willy coyote e Bip Bip il mio cervello. Sapete come va a finire ogni volta,no? Precipito dai Canyon, esplodo, lascio la mia bella impronta sul terreno ma mi rialzo. Sempre. E’ una lotta impari, probabilmente inutile (quella tra Enzo corpo ed Enzo testa) ma infinita e a tratti divertente. Non ce la faccio proprio a liberarmene, questo è vero. Ho un equilibrio emotivo altamente instabile: potrei ridere e piangere da un momento all’altro, spesso lo stomaco si contrae e manda inequivocabili messaggi al cervello. Quando tutto si ferma lì, nella testa, hai la sensazione di impazzire: “Prima o poi accadrà”, mi ripeto. E poi piangi, e ben venga quando accade. Non sono pazzo dai, sono esageratamente emotivo ma mi nascondo bene dietro la corazza di un corpo che amo scolpire, adoro tenere in forma. Se fossi solo carne e ossa sarei infinitamente felice. Ma sono anche testa. Mi segue ovunque, persino nei sogni, che dire poi quando la posizione è orizzontale sperando in un riposo fittizio. Mi sento Willy perché provo in tutti i modi a combattere, e sono anche amante del rischio in questo senso. Ho paura di volare, di staccare i piedi da terra, ma se si tratta di spegnere la macchina infernale…. Cacchio se corre però. Non ce la faccio a stargli dietro e mentre precipito nel Canyon, divento l’essere più ignobile e detestabile. Ma è una storia che si ripete, ciclicamente, come le avventure di Willy. Ogni tentativo fallito è sprone per una nuova interessante invenzione. Ieri ad esempio la macchina infernale stentava a partire. Non ho di certo avuto la sensazione di averlo sconfitto, Bip Bip, ma riuscire ad arrivare al mattino dopo senza la voglia di piangere è una grande conquista. Chi non capisce questo non capirà mai Enzo. E non capirà i motivi per cui una persona sola cerchi disperatamente di evitare tutto ciò che le provoca dolore; o almeno il ricordo della sua condizione umana. Mi immagino lì nel grande Canyon e prendo tutto con la dovuta ironia; per fortuna qualcuno là in alto mi ha dato questo grande dono. Non viene quasi mai capita. Grazie proprio alla capacità di ridere di ciò che mi circonda e di me stesso io sopravvivo. Non mi è facile dare un’immagine completa e comprensibile a chi mi ronza intorno. Ma sono assolutamente certo di riuscire a farmi capire. Almeno da chi vuole intendere. Ops, sta arrivando Bip Bip. Vado ad attrezzarmi.

 
Wile-E-Coyote

sabato 2 febbraio 2013

Pensieri silenziosi

L

a macchina infernale perde colpi. Mi ritrovo nella stessa identica situazione di sette giorni fa, circondato dal niente come sette giorni fa. Ibrido, apatico, provo a pubblicare qualcosa sui social semplicemente per attirare l’attenzione. Sono le due del pomeriggio, in casa c’è il silenzio che spesso desidero e molte volte aborro. In questi momenti il tempo frena di colpo, come se improvvisamente trovasse avanti a sé un ostacolo difficile da schivare. Mi accontenta, il tempo. Mi dice che ora posso fare ciò che voglio, così smetto anche di lamentarmi sempre di quanto corre. Non è facile dare un senso alla vita figuriamoci al tempo. E diventa un’impresa titanica quando non ti importa del telefono, dei messaggi, di una telefonata. Vorresti solo stare con qualcuno. Ma questa è un’altra storia. Mi perdo sempre quando scrivo, ma credetemi, quando parlo è ancora peggio. Non riesco a frenarmi, ho un bisogno impellente di parlare, di confrontarmi, di guardare negli occhi qualcuno che ti guarda ed è attento a ciò che stai dicendo. Ecco, ho divagato ancora. La macchina infernale perde colpi dicevo, perché a differenza dello scorso fine settimana, sto provando a non ricordare a me stesso di essere solo. Come? Evitando tutto ciò che appesantisce la mia situazione. Non ricordo quando è stata l’ultima volta che sono uscito il Sabato sera. Se la memoria non mi inganna potrebbe essere Ottobre. Ho indubbiamente fatto dei passi da gigante sotto il profilo dell’autodifesa, perché non ce la facevo più a stare lì, imbalsamato, ad ascoltare cazzate senza poter essere me stesso. Non so chi volevo far contento, ma di sicuro l’unico infelice ero io. Tornare a casa, con la pizza sullo stomaco e ripromettersi ogni volta di non farlo più, non aveva alcun senso. Sto cominciando a rendermi conto di aver smesso di lottare già da molto tempo, più di quanto io non possa immaginare. Ma poi, lottare contro cosa? E per cosa? Non ho un fine specifico, o meglio forse ce l’ho ma è irrealizzabile qui. Scrivo, come sempre per riempire lo spazio tra me e il mondo, una voragine, un oceano difficili da colmare solo ed esclusivamente attraverso le parole. Fortuna che la vita, per brutta e noiosa che sia mi dà sempre spunto per accanirmi contro qualcuno o qualcosa, se no sai che monotonia? Vorrei raccogliere in un grande cerchio le persone che vivono questa condizione strana, semplicemente per non iniziare a darmi del pazzo. E’ sabato. Sono solo le due e venti. Dovrei prendermela comoda quando scrivo. E non me la posso prendere con il tempo.

 
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venerdì 1 febbraio 2013

Zerbino

A

d esempio, il lavoro è uno di quei campi in cui è frequente che io mi detesti. Si, indosso la consueta maschera di sopravvivenza anche lì, mi sembra del tutto normale. Ma come già dissi tempo fa non è affatto facile impedire a quelle che sono poi le falle più grandi della mia personalità, di venire fuori. Sono spesso a contatto con persone di cui non ho affatto stima e rispetto; ci può stare, ma questo potrebbe far pensare ad un ego fin troppo sviluppato, ad una presunzione che in realtà non esiste. E più vengo a contatto con queste persone più io mi ritraggo, abbasso le difese, divento una vera e propria merda. Ho paura, non prendo posizione, accetto imprescindibilmente, dico “Si”, “Ok, non c’è problema”. Che schifo. Dove sta il problema? Ma è ovvio. Si, magari ho anche delle qualità, dei valori, delle capacità. Ma ammesso e non concesso ne sia in possesso, me le tengo da parte per altre situazioni, non certo per il lavoro. La verità è che a nessuno piace il proprio lavoro. E io non faccio eccezione. Ma superando questo problema c’è, ed è importante, quello della inevitabile relazione. Mio Dio, ogni volta che uso questo termine ho la nausea. Dicevo che mi odio, mi detesto, mi faccio pena quando agisco in modo sottomesso. Che mi aspetto? Penso di cambiare musica? Ma figuriamoci. Ho azioni e reazioni totalmente prevedibili. Posso dire che potrebbe derivare dal fatto che non mi frega del lavoro? Che il lavoro è assolutamente marginale rispetto alle mie problematiche esistenziali? Non mi frega del fatto che qualcuno dirà : “ Ci sono persone che il lavoro manco ce l’hanno”. E ci risiamo. Ognuno di noi è un minuscolo puntino. Che ha un valore pari a zero se posto in relazione con l’universo intero. Mi sarà almeno concesso di lamentarmi, di isolarmi, di fare l’egoista e di fregarmene delle situazioni altrui? Tanto siamo tutti bravi a fare i solidali, salvo poi tornare a coltivare il nostro orticello quando viene bene. Sto scrivendo a manetta, non rendo forse alcuna idea, non cavo alcun ragno dal buco. Ma oggi avevo voglia di parlare di questo. Le sensazioni sono sempre estemporanee e naturali. Torno a scavare sugli aspetti del mio carattere che maggiormente detesto e che sono enfatizzati proprio dal confronto con gli altri. Io , perdo sempre. Torno al mio mondo. Oggi può bastare.

 
zerbino

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