martedì 29 ottobre 2013

Slanci impossibili

E

’ stato bello il viaggio. Minuti, ore, giorni, mesi forse anni ma, alla fine posso sostenere di essere arrivato ad una conclusione: mi conosco. Temo sia del tutto inutile proseguire, credo che nulla o nessuno sarà in grado di provocare in me azioni e reazioni che ancora non conosco. E a questo punto smetto di fare autocritica. Non era ciò che desideravo? Avere tutto sotto controllo, a cominciare da me. Non c’è più gusto, la mia vita ed il mondo sono di una monotonia inenarrabile; una catena di montaggio l’agire umano, per cui anche gli stimoli vanno a farsi benedire. La piena conoscenza di sé è una conquista se, una volta accettati limiti e difetti, si riesce a non lamentarsene più convivendo con la propria essenza. Mi fa soffrire ma non posso evitarlo, questo è lo slogan cui sono giunto dopo anni e anni di paziente analisi. Non ho mai preso una decisione che mi facesse sentire felice, non ho mai avuto il coraggio di sbattere la porta in faccia a chi mi ha reso triste; non ho mai parlato o agito ma solo pensato, teorizzato. E oggi, a quarantacinque anni suonati, piango di me quando mi ritrovo strizzato come una spugna sul lavoro e poi, una volta a casa a tirare giù rospi per la mia solitudine, per le occasioni mancate. Sono certezze, non posso farci niente. Servono scatti improvvisi, inaspettati, slanci così grandi da superare i muri dell’abitudine, del “tutto sommato, mi sta bene”. Non me la sento. Da quando ho iniziato la mia esperienza Torinese la mia vita è profondamente cambiata. Io sono cambiato. Non provo più alcun sentimento e non si tratta, come credevo (o speravo) di una situazione passeggera. E’ una certezza. Non faccio più entrare nessuno nella mia vita, non sopporto chi si ostina a volerlo fare in modo prevedibile, cercando certezze e rassicurazioni nella persona (io) più sbagliata e meno adatta al caso. Non voglio dare e non pretendo più attenzioni. A che scopo? In nome di cosa dovrei scoprire l’amore o l’affetto? Illusioni, abbagli, miraggi. Nulla di tangibile. Il viaggio è stato persino piacevole giacché niente più del nostro complicato cervello e della nostra tortuosa interiorità, suscita interesse. Forse il viaggio è giunto al termine. Non c’è stimolo nell’altrui conoscenza, nulla che riesca più a stupirmi. Non me la sento.



domenica 27 ottobre 2013

Rabbia

S

i chiama rabbia. Quando ce l’hai dentro, come un cancro divora la parte sana e buona di te, trasformandoti in una bestia affamata sempre alla ricerca di una preda da divorare. E la preda è il mondo. Non so quando si è insinuata in me, come e perché ma è fuor di dubbio che non è mai andata via. Ho paura a cercarne i motivi e so che, trovandoli, me ne vergognerei. Nulla è da ricercare nelle delusioni del passato, nella maledetta voglia di perfezione che porta a pretendere dal mondo indiscutibili certezze. Tutto trova spiegazione nella speciale sensibilità di chi percepisce ogni singola particella dell’altrui essenza, ne elabora condotte e parole per giungere sempre alla stessa conclusione: io sono diverso, io ci sto male. E ad ogni percezione, ad ogni malefica conoscenza, ecco accumularsi la solita dose di rabbia, pronta sempre ad esplodere alla prima buona occasione. Ed è quando sfoghi tutto con le parole, che la senti uscire come lava dal vulcano che scende impetuosa fino a travolgere del suo calore distruttivo, ogni lato della montagna. Senza fare caso a nulla. La rabbia è latente, mai se ne va. E mai giungerò ad una completa guarigione; stare bene (per il sottoscritto) significa avere sempre qualcosa di cui parlare, di cui lamentarsi, qualcosa che poi, non potrà mai chiamarsi perfetto. Mi piacciono gli articoli dai quali traspare un certo equilibrio emotivo; li rileggo e sembra realmente trovarsi di fronte ad un Enzo quasi in pace con se stesso, rassegnato ma tutto sommato, vivo. Sono testimonianza di come lo sforzo di trattenere la rabbia là sotto raggiunge un risultato. Non potrò mai liberarmene e dovrei,o almeno potrei, rischiare di passare per pazzo. Come? Parlare, magari urlare, dire ciò che penso. E poi cancellare, cancellare. Sto male, non posso evitarlo. Non posso evitare il contatto umano, non posso lasciare la rabbia nello sgabuzzino e far finta di nulla. C’è. Cosa può fare Enzo per vivere in pace con il mondo? Oggi ho lasciato che la rabbia uscisse, che come lava bruciasse tutto intorno. Ho sentito il desiderio di andare via da qui, da un posto che non è più il mio; ma poi so che non potrei lasciare la rabbia qui. Lei è viva, vive con me, dentro di me. Provo a raccoglierne un po’ per dire quello che penso ed avere il coraggio di passare per pazzo.



sabato 26 ottobre 2013

In disparte

M

i metto in disparte, appartandomi con quel silenzio costruttivo che è ancora di salvezza durante le tempeste emotive. E così non presto il fianco all’approssimazione delle valutazioni dei più, sempre sconosciuti o quasi. Oltremodo non cado nell'errore fatale di guardare cosa c'è nel giardino del vicino, lasciandomi andare a considerazioni sul verde brillante della sua erba. Di tanto in tanto tiro fuori la testa, parlo a singhiozzo, dico cose che hanno un significato relativo ma so bene che la piazza è il giusto territorio per chi vuol condividere l'effimero. Sono ancora malato di virtuale almeno per quanto concerne la ritualità dei gesti che ha introdotto all'interno del nostro quotidiano. Sbircio ciò che mi interessa, lascio cadere le braghe quando vedo cose di cui inorridisco, affermazioni che sono la negazione di un concetto espresso solo fino a qualche mese fa. Da un certo punto di vista, mi è utile; ho passato e sto passando la mia vita ad analizzarmi e ad osservare gli altri quasi sempre allo scopo di capire se sono il solo a sentirmi un deficiente incapace di intavolare un minimo contatto umano. No, non sono l'unico. Ma c’è chi sta perdendo credibilità oppure ho solo sbagliato io a concedergliela. Non farò nomi e cognomi tuttavia nessuno sembra essersene accorto. Sto in disparte a coccolarmi delle mie giornate super impegnate che, comparate alla vita di alcuni, sono il top della mondanità. Si, lo devo ammettere e non perché mi è stato consigliato di guardare il bicchiere mezzo pieno. Io almeno sono un uomo libero. Altri, si illudono di esserlo. Finta per finta, la mia vita è indubbiamente migliore. Che paura mi può fare l'eterno ripetersi di giornate tutte uguali quando forse ( ma non è nemmeno certo ) dovrei essere io a cambiare tutto? Ma questo blog da tempo non è più un calderone ove immergere paturnie e lamentele; trattasi semplicemente di un diario vero e proprio dove racconto il quotidiano. Non è colpa mia se, solo chi ha il coraggio di fermarsi a conoscere l'uomo, non può fare altro che parlarne male, che descriverlo nei suoi connotati negativi, nella sua predisposizione alla menzogna. Sto in disparte, osservo e non favello. Tanto so che non attiro l'attenzione di nessuno ma, e ne godo, non mi gioco la rispettabilità di uomo.

  


mercoledì 23 ottobre 2013

Cosa resta del giorno

M

ettiamo le cose in chiaro: non posso permettermi di sottovalutare l’importanza di questi ritorni a casa sotto la pioggia. Essi conservano la magia (unica) dell’abbraccio che solo i fortunati come me possono e devono apprezzare. La magia si chiama soprattutto famiglia, calore. E chiariamo, già che ci sono, un’altra cosa: in tempi di crisi, risparmiare sulle parole dà una mano all’economia del quieto vivere. Io non alimento, non butto benzina sul fuoco, mi limito ad usare questi fogli per descrivere la dura realtà. Odio il quieto vivere, eccezion fatta per il lavoro. Se solo volessi però, potrei andare sulla piazza, fare nomi e cognomi e ci sarebbe da divertirsi. Ma quanto poi? Giusto il tempo (forse) di essere…..Come si dice oggi? Ah…Cancellato. No, non godrei abbastanza. Le parole pesano, sono carichi difficili da sopportare se ad ognuna di esse si attribuisce l’unico valore possibile: la verità. Ma quanto vale la pena liberarsi del carico se poi il peso diminuisce mano a mano che quanto diciamo, passa attraverso menti e orecchie indegne. Il calore umano è vitale, anche per le macchine da guerra come il sottoscritto; ma, occorre precisare, il sentimento frena quando si oltrepassa il muro del legame di sangue. Al di là di quello, le parole per me non hanno più né peso, né valore e, nella maggioranza dei casi costituiscono una maledetta musica stonata che solo un colpo ben dato in fronte potrebbe spegnere. Mio malgrado, sono costretto a sentire ( non ad ascoltare) suoni indistinti lungo tutto il giorno. Direte che si deve sopportare e va bene; ma quel giorno è pur sempre la mia vita, cosa ne devo fare? Lo devo buttare? E quel giorno è simile a tanti altri uguali a lui e allora? Devo buttare anche tutti gli altri? Dunque, quanto mi rimarrebbe da vivere in modo qualitativamente accettabile? Nulla. E allora, ben venga il calore familiare, ancor più ben accetta è la gestione parsimoniosa delle parole, ma poi? Rimane giusto un po’ di spazio per la solita rabbia, per le urla (ora sopite) nel vuoto dell’indifferenza. Resta anche un po’ di stupore per la mia ingenuità e quell’egocentrismo che mi porta a credere di essere unico al mondo. Allora vada per l’egocentrico illuso, padrone assoluto del suo universo circondato dal nulla, ma sempre e comunque un uomo vero.



lunedì 21 ottobre 2013

Pane al pane, vino al vino

L

a parola giusta è: “distacco”. Ne devo ancora fare di strada prima di arrivare a sentire indifferenza, il più nobile dei non sentimenti. Io ci sto provando ed è un punto a mio favore, non c’è alcun dubbio. Qualcuno lo troverà assurdo, forse infantile: non è cosa di tutti i giorni intraprendere un percorso di disintossicazione da social networks o piazze virtuali (come meglio vi garba chiamarli); so benissimo di non essere l’unico ad aver cercato rimedio ai propri vuoti esistenziali, alle proprie carenze affettive ed altro nel posto più sbagliato. Ora però mi sono stancato, ho fame di guardare la mia vita (seppur vuota) ma non per questo condannarmi, nell’eterno paragone. Perché, chi sta lì come me e mira al protagonismo virtuale ha sbagliato tutto. Io qui mi posso permettere di dire ciò che voglio sapendo che la codardia impedirà a chi legge di riconoscersi. Questo post vuole essere “pane al pane, vino al vino”. Ad esempio: c’è una cosa di cui faccio sempre molta fatica a liberarmi, ed è l’aver dato in pasto una bella fetta del mio intimo più intimo a persone che ora, se ne sbattono altamente i coglioni. Succede anche nella vita reale, so bene come va. Il maledetto virtuale però inibisce l’onestà intellettuale e, concedetemelo, persino la rabbia motivata da sani scopi. Ed è solo osservando il tutto con progressivo distacco che riesco a mitigare progressivamente quel po’ di astio che mi rimane e che vorrei invece destinare ad obiettivi concreti. Ho sbagliato io, mica loro, so bene anche questo. E già sorrido quando penso che chi leggerà questo articolo, avvertirà una strana sensazione, poi la riporrà immediatamente nelle sue cantine interiori. E’ lo schifo di un piatto in cui ho mangiato ed in cui ora, comincio a sputare dentro. Amo il silenzio di questa mia stanza virtuale, non mi ha mai tradito e puntualmente vengo a ricercarla per raccogliere le idee e mettere ordine tra i pensieri. Non devo piacere a nessuno, non devo farlo per piacere a me stesso. Ma il mio giudizio si ferma qui, continuate a fare finta di nulla. Mi spiace solo avervi dato anche solo per poco tempo qualcosa che non meritavate. Pane al pane, vino al vino.



sabato 19 ottobre 2013

Non sono in svendita

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'è tanta voglia di privato. Desidero tornare ad averne uno per riporlo in luogo sicuro, lontano da occhi indiscreti e da giudizi affrettati. Non ci vuole molto per riprovare l’ebbrezza di sentirsi uomo riservato, per certi aspetti indecifrabile, in grado magari di generare la curiosità altrui. Che sarebbe di conseguenza, genuina e reale. Ho tanta voglia di imparare dal passato quando, per nostra fortuna, avere una vita privata significava possederla: era unica, inconfondibile, non condivisibile, e vaffanculo al mal comune mezzo gaudio. Vorrei tornare là. Per chi come me si è messo in piazza in modo del tutto indiscriminato, vendendosi a cani e porci, il lavoro di ritorno è complesso, ma non impossibile. Basta spegnere la luce, continuare ad esserci ma al tempo stesso, risultare invisibile, impenetrabile, non più giudicabile. E’ sufficiente smetterla di farsi prendere dall'istinto di dire qualcosa, sapendo (il peccato è lì) che arriverà alle orecchie di qualcuno a caso, che manco sa chi sei. Se generi il problema, lo devi risolvere. Anche questo blog produce guai perché lui è me e viceversa. Ma qui sono un Io più lento, meditabondo, coricato su un letto di pensieri che mi cullano dolcemente. E qui non urlo per arrivare a qualcuno, ma parlo sottovoce. Lancio ignorando chi colpisco e da quel che posso notare, pochi o nessuno si sentono in dovere di dirmi qualcosa. Mi piace. L'integralismo di fondo che permea il mio carattere e la mia predisposizione verso cose e persone è devastante, ma la vittima sono io. Io mi concedo tutto e poi tutto mi nego. Perché non ha senso nemmeno mettere in piazza se stessi e le proprie ancore di salvezza. Il cancro che uccide le personalità più sensibili si chiama condivisione: ma il messaggio che passa è quello del “che bello, siamo tutti insieme e tu invece sei un asociale”. La realtà non cambia nel mondo che si tocca. Qui, conservare il privato significa indossare stupende maschere di convenienza. Mi riesce. Il silenzio su noi stessi non deve avere uno scopo se non quello di ritrovare il rispetto per ciò che siamo e che non è giusto debba essere svenduto nel primo mercato che capita. Ho tanto voglia di privato. Vivrò lo stesso, forse meglio. Iniziamo da qui.

  

 

giovedì 17 ottobre 2013

La prima perturbazione

S

ono solito scrivere ciò che mi detta l'anima. Temo tuttavia di aver trascurato il cuore ed è lui che, arrivati a questo punto, parla. Almeno lo immagino, dal momento che sono giunto al culmine della prima fase (ce ne saranno altre) di turbolenza; potrei scomodare la meteorologia dicendo che sta passando la prima perturbazione. Si, mi piace così. Parla il cuore (perché temo di non poter girare intorno al problema con argomenti razionali) e lo fa ribadendo la condizione difficile in cui mi trovo. Ma non ho altra via di uscita che queste parole, questi fogli. E quando parla il cuore tutto intorno è silenzio. A volte mi chiedo se agli uomini come me sia stato riservato un destino speciale; e non alludo a quello finale bensì a ciò che si è condannati a sopportare durante la nostra esistenza. Ma chi sono gli uomini come me? Quelli che ostinatamente cercano qualcosa che non troveranno mai, perché non sanno neppur loro cos'è. Sono quelli che il mondo è il nemico e loro gli incompresi; sono quelli caduti nella grande trappola del nuovo mondo virtuale e che lì ostentano la loro presenza ottenendo rinforzi di plastica. Gli uomini come me sono quelli che alla fine, cadono sotto il peso della solitudine che essi stessi invocano come ultima frontiera di salvezza. Sono quelli delle contraddizioni, dell'istinto. Del pianto nascosto. Parla il cuore, ora che la perturbazione se ne sta andando e tutto tornerà come prima. Ultimamente non sopporto la condivisione degli stati d'animo estemporanei sulla piazza virtuale; odio quando lo faccio, ma in realtà odio esserci. E poi, sapete: al lavoro mi dicono che sono pessimista ma non possono non notare che indosso all'occorrenza una bellissima maschera sorridente. Mi spiace per loro, non possono guardare, ma solo vedere. Sento molto forte il distacco tra ciò che sono e ciò che appaio ma è del tutto normale al culmine della prima perturbazione. Non posso fare altro che attendere fino a quando tornerò a sopportare senza lamentarmi, senza il bisogno di esternare. Non aspetto nulla, non mi aspetto nulla. Come sempre, volevo solo dire come stanno le cose. Diamo al cuore quel che è del cuore.

 
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martedì 15 ottobre 2013

Tutte le strade portano a me

H

o fatto fatica a trovare l’incipit giusto per questo articolo sebbene fossi decisamente stimolato a dire qualcosa stasera. Avrei voluto parlare della piattezza quotidiana di questi giorni, ma non ci sarebbe stato nulla di nuovo. Oppure delle mie peregrinazioni da pendolare, del lavoro. Nulla di nuovo, niente. Lo sappiamo bene, tutto quello che di nuovo mi concerne, è tutto là nella sfera privata, intima, così intima da non vedersi a occhio nudo. E se la mia vita non ha un filo logico né relazioni, chi e che cosa può penetrare tanto nel profondo da renderla vivibile e sopportabile? Ovvio, io e solo io. Impegnato ad arrovellarmi, a capire, talvolta incapace di venire a capo della complicata natura umana che mi circonda. Oggi ho acquisito una nuova consapevolezza: non sono in grado di reggere le conversazioni di un certo spessore. Non mi piace la conclusione cui sono giunto ma, almeno per quanto concerne le piazze virtuali, mi rendo conto di avere grandi limiti di sopportazione e tolleranza. Ma sono davvero così presuntuoso? Mi credo realmente così saccente? Perché sento fremere le dita ogni volta in cui mi accorgo di non essere capito? Odio la comunicazione virtuale ma ci sono dentro fino al collo. Reggo a fatica le sparate a zero che non sono schermate dalla conoscenza dell’interlocutore lasciandomi basito. Come posso trovarmi ancora qui a parlarne, quando avrei dovuto tagliare di netto da tempo immemore? E’ raro che mi capiti nella vita reale una situazione simile, solo perché non conosco persone in grado di reggere il peso di una conversazione impegnata. In ogni caso, non ce la farei. Sto scuotendo la testa, faccio smorfie strane mentre scrivo tutto questo. Ma vogliamo parlare della presunzione di chi non sa ma non accetta l’umile consiglio di qualcuno esperto? Attenzione, parlo di lavoro. Siamo immersi in un oceano di ignoranza ed arroganza ma non è giusto che ci debbano nuotare tutti, indiscriminatamente. Torniamo alla solita litania: vivere è un’impresa non da poco, ma se proprio devo starti vicino, ascoltarti, leggerti, allora voglio dire la mia; tanto, per quanto mi riguarda io sono io, continuo ad essere io e rimarrò orgogliosamente solo.

 
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sabato 12 ottobre 2013

Di Sabato, di rosso.

P

er qualcuno è la normalità, magari qualcosa di noioso o soporifero. Per altri, come il sottoscritto, si tratterebbe di un'emozione ritrovata, di cui avverto intensamente la mancanza. Gesti che in passato marchiavo come abitudinari, di cui (e non sarebbe stato Enzo) non facevo che lamentarmi. Cambiano i tempi, cambiano le persone, cambiano le esigenze. Ed ora, un tavolo apparecchiato per due ed una bottiglia di rosso, farebbero di questa serata, una serata speciale. Enzo nel frattempo è invecchiato di almeno quindici anni, uno spazio temporale enorme, sufficiente ( in teoria ) a contenere milioni di esperienze. E a cambiare tutto. E se dicessi che non è così? Che è solo teoria? Che Enzo si, è cambiato, diventando un infido selezionatore, un incontentabile cronico, un maledetto rompicoglioni; ma non certo per il cumulo di vita raccolto. Negli ultimi dieci anni io non ho vissuto affatto. Ho annaspato tra le onde delle mie insicurezze, ho respirato a fatica l'aria pesante di un ambiente familiare che, a torto e con il senno di poi, ho considerato opprimente. Ho cercato realmente di vivere lasciandomi però trascinare dalla “sicurezza” del momento anziché tuffarmi nel mare dell'ignoto. Non avevo ( e non ho ) le palle per scegliere, per decidere, per mettere Enzo davanti a tutto. Tutta questa premessa è quanto basta per aver perso il filo del discorso: sono logorroico, chiedo venia. Dicevo, qui e ora vorrei una tavola apparecchiata, un rosso corposo e qualcuno di fronte a me con tutta la pazienza del mondo per ascoltarmi; e a cui far solo sentire che esisto. Mio Dio, ancora con questa richiesta, ancora con il melenso desiderio di condivisione, ancora con questa nenia sull'amicizia. Tutto fuori luogo vero? Tutto fuori tempo? Io vado avanti con le rughe e non posso pretendere che i valori rimangano al mio passo. Vero? E allora fantastico, e penso di essere realmente fuori luogo e fuori tempo massimo; ed è inquadrandomi al di là della cornice di questo mondo così preso da se stesso, tanto oberato nel suo specchiarsi per non riconoscersi mai, così maestro nel predicare razzolando male, che mi ritrovo. Ecco, stasera vorrei ubriacarmi di rosso, per dire le mie verità, tutte o nessuna, chi lo sa. Della serie: momenti che mi mancano e che mancheranno sempre più fino a quando queste dita scriveranno su questi fogli. Ed è Sabato sera.


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venerdì 11 ottobre 2013

Io, sempre io

S

enza infamia e senza lode. Se ne va così questa settimana che, secondo il mio modesto punto di vista, ha segnato il vero e proprio ingresso nella nuova stagione. Gli indizi sono sparsi qua e là: io che, appena sceso dal letto, guardo timoroso la stazione meteo; io che comincio a contrarre i muscoli delle spalle mentre spingo via le foglie morte sotto il viale della stazione; io che comincio a temere di dovermi accomodare all'interno di qualche carrozza gelata. Io, sempre io. E mentre il mondo continua a fingere di vivere, io riprendo a rigirare vorticosamente su me stesso. Alzo gli occhi per guardarmi intorno poi, eccomi di nuovo dedito ai miei affari di testa e ben poco di cuore. La routine è nuovamente servita con il lavoro che ( duole ripetermi ) costituisce più di ogni altra cosa, il quotidiano salvavita. Non penso, non mi fermo, ironizzo, rido persino di gusto. E' tutto davvero strano, ma non sarei io, non sarebbe capitato a me. Parlo di questa esperienza, del mio essere pendolare, uomo in eterno movimento, una testa che viaggia e che ora deve affrontare il tragitto pure con il corpo: usurante, stressante ma.....incredibile a dirsi, liberatorio. E' assolutamente strano. A ben vedere i pezzi si incastrano ed inducono ad azzardare la reale esistenza di un progetto che, sebbene appaia confusionario, lavora a meraviglia. E' da tempo che lo dico: dovrei accettare questa vita perché tale è, nella forma e nei modi in cui si manifesta. E non avrei torto perché ho provato e riprovato a superare il grande muro del “destino segnato” andando verso direzioni diverse da quelle imposte. Senza risultato. E allora? Pazienza, soprattutto se l'insuccesso lo devi attribuire a qualcuno, a più di uno, a tanti, al mondo intero. E' la routine del pensiero fisso, cui apro sempre molto volentieri la porta, per dare argomenti al mio mondo silenzioso. Mi piace riempire gli spazi con le parole, le mie. Sono davvero un egocentrico affetto da manie di protagonismo. Ma no, sono solo uno che a volte, ad esempio, vorrebbe chiamare per nome e cognome un po' di persone, dire loro cosa pensa e poi magari buttarle nel cesso. Ma non ne ho il coraggio. E riprendo il mio moto di rivoluzione, continuando a dire cose senza dirle. Io, sempre io.

 
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martedì 8 ottobre 2013

La maschera delle maschere

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on ho mai una ragione precisa per sentirmi felice ed il più delle volte ciò accade per futili motivi. Di contro, come voi ben sapete, sono miliardi le occasioni e le situazioni nelle quali distribuisco rabbia, lamenti, insofferenza. Ho iniziato questa settimana sul filo dell’ansia. Capita quando viaggiare diventa più logorante del solito ed io, masochisticamente, proietto tutto nel futuro. “E chissà per quanto ancora dovrò fare questa vita, chissà se riuscirò mai a liberarmi del fardello”. Da due giorni a questa parte arrivo in ufficio con sul viso la stessa espressione del toro davanti al drappo rosso che gli viene sventolato sul muso, durante la corrida. Mi conosco molto bene, so di cosa sono capace. D’abitudine manifesto agitazione, un po’ di irruenza, lancio critiche qua e là. Devo sfogarmi. In questi ultimi anni ho imparato un’arte e l’ho messa da parte con grande maestria. Io sono campione nella disciplina del quieto vivere, di conseguenza non riesco a rovinarmi le giornate. Otto ore di lavoro in convivenza forzata le trascorriamo tutti o quasi. Ognuno di noi adotta tecniche. Io voglio sopravvivere e per farlo rido, scherzo, sono meravigliosamente goliardico. La maschera delle maschere. Tante volte, dopo aver chiuso la porta dell’ufficio alle spalle, mi chiedo se vado sprecando energie in tutto questo voler far quadrare i conti, almeno sul lavoro. Rispondo di no. E le motivazioni sono ben presto servite: al momento la vita lavorativa ( viaggi e lavoro vero e proprio ) rappresenta il novanta per cento della mia esistenza. Per tutto il resto, non ho bisogno di alcuna maschera, di nessun copione, mi posso concedere totale autenticità. Ciò nasce dalla condizione di solitudine cronica che, impedendomi alcun tipo di relazione, mi autorizza a non avere filtri, a lasciare liberi mente e corpo di muoversi senza necessità di adeguamenti o compromessi. Giudicate voi se si tratta di un vantaggio, o se questo porterà gradatamente all’implosione del sistema. Concludendo, mi sovviene questo tipo di considerazione: le qualità sono tante, immense; elevate sono le pretese, dura la selezione. Manca, come sempre il riscontro, il rinforzo, ma credetemi, non lo si può pretendere. Ed è vietato aspettare, illudersi. La pazienza è la mia culla e mi ci dondolo…..nervosamente.

 
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domenica 6 ottobre 2013

Tinte fosche

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ncora pioggia. Sono passati solo otto giorni dalla mia ultima pedalata e non mi sembra vero; eppure colui che può si è permesso di dare una bella pennellata di grigio al mondo. Io detesto queste tinte fosche, sono fardelli pesanti, macigni che premono sulla voglia di fare, ninne nanne quotidiane che si protraggono un’intera giornata. Un velo protettivo (finalmente) scenderà a coprire i miei pensieri cupi, ad evitare che la polvere li renda inerti. Saprò riflettere, dovrò farlo a tutti i costi per riempire i vuoti della solitudine cronica. E saranno riflessioni di colore nero. In questi ultimi giorni ho odiato. Non riesco a guarire da quell’impulso di sentimenti negativi che, di tanto in tanto, mi aggredisce con violenza. D’un tratto alzo la testa, smetto di osservarmi e punto lo sguardo su ciò che mi circonda. E quel che vedo è sempre qualcosa che non sembra appartenermi, di cui sento il piacere di fare a meno. Combatto strenuamente con la contraddizione, la mia vera malattia. Ma è più chiaro di quel che sembri: tutte le volte in cui provo ad andare oltre il mio mondo incontro parole che disprezzo, che non condivido, incitamenti superficiali a vivere la vita, assenze, voragini. Non ne vengo a capo, mi è difficile vivere senza il desiderio di provare a viverla, questa vita. Sono stato a Milano. Ecco, io ho bisogno di persone che vivano la mia stessa condizione umana, che mi trattengano entro i confini della mia e della loro paura o rassegnazione. Mi occorre, se non proprio parlare, sapere di avere vicino qualcuno che non mi lascerà andare, mi terrà stretto perché basterebbe poco per sprofondare entrambi. Voglio questo. Ed è la ragione per cui sospetto delle voci nuove. Mi riferisco a quegli strani personaggi virtuali che sbucano improvvisamente dalla loro vita vuota ( di solito però fanno credere di averne una vera ) piombano nella tua e poi in un attimo ritornano da dove sono venuti. Io odio queste persone, forse più del mondo in generale. Ora lasciamo che la settimana mi avvolga con le sue manie di protagonismo: il lavoro sopra ogni cosa. E mi lascerò circondare in attesa di tornare a pensare con i tempi che desidero, con il mio abat-jour, le mie tapparelle chiuse mentre fuori piove. Non c’è storia, è tutto sospeso, ma io sono presuntuosamente vero ed è per questo che soffro.

 
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giovedì 3 ottobre 2013

Passi lenti

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assi lenti, quasi pavidi. L’autunno chiede tempo, non ama essere scavalcato. Io mi adeguo e metto in disparte la mia proverbiale attitudine alla programmazione, alla rigorosa sistemazione di cose e pensieri. Non mi fido, ma non sarei io. Non amo vivere alla giornata ma solo perché non sono capace di coglierne ( ed apprezzarne ) i frutti. Mi adeguo, a fatica. Effetti collaterali: un diffuso stato di apatia, impassibilità alle sollecitazioni, noia. Dunque niente di nuovo, signore e signori. E’ semplicemente tornato mister Autunno, con le sue cartoline a tinte seppia, i finestrini dipinti di nebbia, i cieli presto scuri. Tutto molto lentamente. Mi sto preparando il giaciglio invernale, affronterò notti piene del solito desiderio di attenzioni, del livore per chi vive una pseudo-vita, ma pur sempre vita. E poi come sempre il mattino. Sto attraversando questa fase di pensiero, volevo essenzialmente dire questo. Passi lenti, pensieri eccellenti. Come quello che mi sta portando a spogliarmi delle vesti di persona noiosa, depressa, monotona, incavolata cronica. C’è il desiderio di non mettere più pericolosamente le mani avanti, di non rischiare più di essere tacciato di falsa modestia. Ma gli altri sono poi così allegri? Sono così stupendamente vivi, goliardici, educati, sopportabili? Figuriamoci. La verità è che sono assolutamente noiosi, penosi nel loro incedere a singhiozzo, alternando presenze a lunghi silenzi. Ma guarda un po’, esattamente come sono solito fare io. E allora perché incriminarmi del reato di inattendibilità, di inabilità a gestire le relazioni. Andate, davvero, ma con il cuore, a quel paese. Passi lenti, compassati. C’è un luogo che mi vede protagonista di monumentali progressi verso la definitiva consacrazione: un uomo capace, competente, straordinariamente autonomo. E’ il luogo più inutile per mettere sul piatto le qualità ma non posso non tenerne conto. Al di fuori di esso, i connotati migliori vanno a farsi benedire. Ali tarpate dall’assenza ovvero dalla inutile presenza. Proseguo un po’ indolente, pigro. E come sempre maldestro, maledettamente inesperto nell’arte del “chissenefrega” di questo o quello. Passi lenti, tanto da alzare lo sguardo ed accorgermi di quanto sono piccolo, inutile. Come tutti. Ma io soffro.

 
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