sabato 30 novembre 2013

A buon intenditore...

A

l buon intenditore non servono molte parole. Ecco una delle ragioni per cui sto scivolando verso lidi di serenità mista a rassegnazione, lasciandomi alle spalle inutili battaglie nell'intento nobile di accettare l'imperfettibilità umana. Quella altrui, e la mia innanzitutto. Esiste sempre una vena malinconica nelle consapevolezze acquisite a furia di sbattere contro muri di gomma, di dover sopportare silenzi che avrebbero dovuto far posto alle parole. Non c'è coraggio, e neppure buone intenzioni. Non ci sono finalità che trascendono il “mal comune mezzo gaudio”. C'era una volta l'amicizia, la passione, il rispetto. Questo blog sta perdendo i pezzi e le tematiche che lo hanno caratterizzato agli inizi della sua avventura; ed il diario elettronico è un riflesso della società, tanto da finire relegato ad una sorta di piccola stanza vuota dove le parole rimbombano per ritornare in faccia a chi le scrive. Mi piaceva ascoltare voci vere, mai mascherate dietro uno stupido schermo. Per qualche tempo ho pensato di essere sulla strada della sola comprensione altrui, lasciando le mie sensazioni chiuse in gabbia. Non era giusto fosse così e la maggior parte di quelli che non sono buoni intenditori ora ignorano quanto, l'egoismo che mi permea, sia solo compensazione della benevolenza dei tempi andati. Se facciamo bene attenzione tutto ha un perfetto equilibrio. Basta andare oltre il quotidiano e guardare il nostro percorso come farebbe un obiettivo grandangolare. Ma è decisamente più facile (o forse inevitabile) fermarci a chi siamo, fregandocene del perché ci presentiamo con questa maschera. E i buoni intenditori sono pochi, non hanno mai usato parole a sproposito, mai varcato i confini del giudizio, semplicemente si sono limitati ad accettare. E' indubbio che quei pochi rapporti che galleggiano al di sopra del mare dell'ipocrisia, debbano ricorrere al compromesso. Ma è il tempo che li rende unici e forti. Poi ci sono gli altri, che non poggiano su basi solide fatte di anni trascorsi, e che pretendono ignobilmente di esistere perché l'uno deve insegnare all'altro come vivere. Ed il blog sta perdendo le parole che è inutile dispensare in quantità se, dall'altra parte non ci sono buoni intenditori ma solo falsi predicatori.




giovedì 28 novembre 2013

Più che vivo

S

ta finendo una settimana all’insegna del freddo. E’ tempo di muscoli contratti, di passi svelti e di minuti preziosi persi a sbrinare il parabrezza dell’auto. E’ anche tempo di speranze: una carrozza riscaldata è ormai un lusso e solo quando imbocchi la porta d’ingresso realizzi se sarà un giorno fortunato. Sta finendo una settimana che mi ha visto fortemente motivato sul lavoro, assolutamente disponibile come sempre e con il sorriso stampato in volto per una buona parte della giornata. Si vede che ho scampato un pericolo. Quando nell’aria correva voce che da qui a breve mi sarei potuto ritrovare altrove, non l’ho presa bene. Ma, nell’interesse prevalente di preservare un certo equilibrio psicofisico, ho mantenuto fermezza e persino una buona dose d’ironia. Ma avevo paura. Cambiamento è una parola che mi incute lo stesso terrore dell’idea di prendere un aereo. E’ quel momento nel quale sento di perdere tutta la grinta interiore e la forza d’urto che pochi riescono a notare in me. Le difese cadono. Ed ora che so di poter rimanere al mio posto è come se ricominciassi daccapo. Una sorta di nuovo inizio e di colpo ritrovo l’energia e la motivazione che (ricordo come fosse ieri) accompagnavano i primi tempi; e che, tra le altre cose, spingevano la mente verso lidi di assoluta serenità e spensieratezza. Ricordo che fu proprio l’entusiasmo a rendermi il viaggiare qualcosa di apprezzabile. Ma questo è un altro discorso. Orai mi preme ricordare di questa ritrovata energia che, badate bene, è pur sempre un boomerang. Sommate motivazione, disponibilità, grinta, ritrovata voglia e fate il conto: cosa otterrete? Il solito Enzo factotum, inarrestabile e poi riflessivo: “Ma perché faccio così? Perché non oppongo resistenza?” Non perdo tempo nel provare a rispondermi. Finisce un’altra settimana: il gelo mattutino azzera i pensieri, io provo persino ad addormentarmi con la musica e, in men che non si dica, sono già al lavoro. E poi, in un batter d’occhio mi ritrovo qui, a scrivere. Non so quanto sia piacevole constatare la velocità con cui le giornate sfuggono via ma non è opportuno porsi domande. Scrivo del quotidiano ed evito ogni pericolosa riflessione sul futuro, sulle possibilità, sulle mancate opportunità. Sono più che vivo. 



lunedì 25 novembre 2013

A volte vinco io

M

i piace quando riesco a prendermi gioco del tempo. Spesso tendo a sopravvalutarlo temendo di essere sempre in ritardo sugli impegni, di correre il rischio di non averne abbastanza anche solo per un piccolo piacere quotidiano. Scrivere per me non è solo gratificazione, è innanzitutto sfogo, dialogo, piacere di riesaminare ciò che accade e che (purtroppo) viene risucchiato nel vortice della velocità. Non posso che ritenermi felice di avere uno spicchio di libertà e di essere così stimolato a riempirlo di questi brevi pensieri sul foglio elettronico. Non sempre si ha qualcosa da dire alla fine di ogni giorno, almeno quando il mezzo usato è la scrittura. Verrebbe di gran lunga più facile scendere dal treno, incontrarsi con un amico e chiudersi in un caffè per raccontarsi com’è andata la giornata. Ancor più semplice sarebbe avere un divano, un bel camino, una bottiglia di vino rosso e dedicare una serata alla settimana a parlare di me, di noi. Ecco, quando voglio dimenticare la mia solitudine, immagino questo. Tengo a precisare che la signora non è più in grado di opprimermi come un tempo; il fatto di riuscire a conviverci sarà anche segno di rassegnazione ma io ho me; e sono il più importante interlocutore di me stesso, chissenefrega di passare per pazzo. Le parole scritte lasciano segni, fermano il tempo come uno scatto fotografico. Non è un caso se le mie passioni passano attraverso mezzi che il tempo lo vogliono inchiodare al muro: una fotografia, un breve racconto di trentacinque righe come questo. Ultimamente penso troppo, ma non certo a me. Vorrei tanto parlarne con E. ma come già detto, temo non si potrà fare fino a Gennaio. Se oggi fossi nel suo studio le racconterei delle paure di questi ultimi mesi, del timore (più che naturale) di perdere qualcuno vicino. Mi chiedo se esista umano in grado di convincermi che la vita è questa, nulla è eterno, tutto nasce e tutto muore. Ho indubbiamente bisogno di svago; la rassegnazione cela la sconfitta, attenua l’impeto d’orgoglio ma non annulla il dolore, la voglia innata di vivere la vita come vorrei. Non volevo scrivere un post triste, anzi aver sconfitto il tempo non può che rendermi felice. Sto meglio, come sempre. Eh se non ci fossi tu…



sabato 23 novembre 2013

Scontro frontale

E

poi a volte mi attraversa un pensiero ricorrente: sto perdendo il mio tempo. In pratica il castello di certezze, di conti che tornano, di cuore e ragione che hanno svolto correttamente il loro compito, cade. Il contesto non ha più giustificazione, le pseudo motivazioni ( vedi stanchezza e stress accumulato ) diventano alibi. Un frontale con la realtà dal quale esco con le ossa a pezzi. E allora? Nulla, non succede niente perché so perfettamente di assolvere con dignità al mio compito di sopravvivenza. Lo faccio nel pieno rispetto delle regole della società e adeguandomi a ciò che mi ruota intorno. Il confine tra convinzione e verità è sottile ed è rappresentato dal senso di dignità; perdo tempo a guardare il soffitto, a lacerarmi gli occhi davanti a questo monitor oppure lo sprecherei forzandomi a fare qualcosa che non stimola? Lascio intendere di avere alternative ma non ne ho: difficile (anzi impossibile) che io mi possa permettere il lusso di scegliere. Ho lasciato il vuoto dietro ed intorno anche se, detta così suona come un'ammissione di colpa. Niente di tutto ciò. E' che poi ci sono Sabati d'inverno e la pioggia fuori, dunque pensi: “Bello mettersi addosso un pigiama caldo e rilassarsi mentre fuori piove”. E poi ripensi “ Farei una fatica enorme al solo pensiero di dovermi cambiare per una serata fuori, con questo tempo”. E' cambiato qualcosa. Succede, a volte. Vanno via velocemente i giorni, le settimane, i mesi. Arrivano le feste a ricordarci che siamo rimasti immobili e non abbiamo fatto alcunché per noi stessi. E ne arriveranno altri a condannarci al solito immobilismo e alle consuete considerazioni. Di fatto non c'è più voglia di argomentare su discorsi che hanno fatto la muffa, solo semplicemente dire cosa passa per la testa; e questa sera è venuta a trovarmi la paura di buttare all'aria qualcosa. Sono un combattente anche se tutto si direbbe di me fuorché di essere uno che affronta il mondo. Lo sono nella misura in cui mai e poi mai riuscirò ad accettare questa parabola discendente di cui sono stato protagonista; su dai, non sono triste, anzi come già dicevo ieri ho anche voglia di ridere. E faccio bene ora a chiudere questo foglio, metterlo nella scatola delle sensazioni estemporanee e andare a dormire. Con tanti complimenti a me.




venerdì 22 novembre 2013

Fatti una risata

S

drammatizzare è un verbo quasi del tutto sconosciuto al mio vocabolario. Non so cosa mi sta passando per la testa, forse nulla ed è questo che mi fa sentire così...leggero. Ho messo in un angolo la paura di non essere abbastanza serio per piacere, di non sentirmi abbastanza male da farmi voler bene. E ho ripreso dalla soffitta qualcosa che ormai avevo dimenticato potesse esistere: un po' di voglia di ridere senza che ciò rappresenti una maschera. E' vero, Enzo non è finto. Scusate il gioco di parole ma in questo caso, ci sta. Per quale motivo dovrei sorridere solo per quieto vivere, per fare contenti gli altri e adeguarmi al diffuso vivere superficiale. Io sorrido e lo faccio perché mi va. Come già avevo accennato nel post precedente, ho bisogno di giocare; non ho un secondo fine, con questo non voglio dire che sarò d'ora in poi un cretino. Ma credo che esistano palcoscenici nei quali è importante sdrammatizzare. Per tutto il resto c'è sempre Enzo, capace di complicarsi l'esistenza quando e come crede. Ecco, spero di aver sintetizzato il mio sentire attuale. E non è per nulla facile sentirsi naturalmente così, di buon umore, nonostante là fuori e dentro questa stanza continui a regnare l'immobilismo. Ma ho riscritto la scala dei valori e delle priorità, ho cercato di azzerare le diseguaglianze emotive tra me e gli altri; non posso pretendere nulla e mi sono stancato di giudicare. Chi mi legge penserà all'ennesima fase, cui seguirà verosimilmente un periodo buio. Ho abituato me stesso a questa alternanza umorale ma, riuscendo ad andare nel profondo più profondo di me, posso assicurare che avverto realmente questo mutamento. Dunque, è per me un piacere comunicarlo. Nel mio solito piccolo mondo, i cambiamenti sono impercettibili a quelli che, loro malgrado, sono costretti a fermarsi all'apparenza. Che non è bella. C'è un aspetto di me che, nessun viaggio interiore, nessuna avventura tortuosa nella mia psiche potrà mai cambiare. Questo aspetto si chiama generosità, oppure disponibilità, magari ingenuità. Non serve a mutare lo stato di fatto se non a peggiorarlo. E' dote apprezzata, è segno di grandezza, ma nel contesto sociale (dove vige la legge del più forte) essa si squaglia come neve al sole. E mi lascia nudo, indifeso, chiuso su me stesso, quasi terrorizzato. Ma ora non più solo ironia e autoironia. Anche una buona dose di scemenza, di normalità non possono che darmi una mano.



giovedì 21 novembre 2013

Solo un gioco

N

on so se mi stia venendo naturale o si tratti semplicemente del solito punto di non ritorno; il fatto è che sento di aver preso le misure alla realtà virtuale. E’ cosa non da poco, anzi un passo da gigante considerando che non ho un riscontro nel mondo reale. Continuo ad essere solo, con i miei pensieri quotidiani, le mie divagazioni ma quanto a vita sociale, zero. Se uno ci pensa bene, essersi abituati a questa forma di esistenza significa aver chiuso ogni spiraglio alla possibilità di vivere: siamo animali sociali no? Possiamo pensare di rimanere soli? Anni e anni fa io non me lo sarei mai immaginato. Eppure è capitato e non certo per il mio caratteraccio che ho gentilmente ereditato dalle esperienze maturate negli ultimi anni. Ci si ritrova, punto e basta. Non si hanno colpe per il passato e nemmeno per il presente ed il futuro. Ci si accorge di essere soli e all'improvviso non sai dove andare a parare. A fronte di tutto ciò, il virtuale. Guai fare proclami, guai dire: “ da domani, basta”. Peggio ancora chiudere la porta od urlare che te ne andrai, con la speranza che qualcuno ti trattenga. Mai farlo. Io l’ho fatto nel periodo in cui il virtuale era diventato il mio mondo, la mia casa. Il virtuale è un grande gioco e come tale va vissuto, senza distinzione. Non ci sono uomini o donne, relazioni, parole per cui valga la pena vivere anche un solo attimo di delusione, di rabbia, di rancore. Probabilmente per adeguarmi al gioco ho dovuto compiere (seppur a malincuore) un passo importante: far scendere di qualche gradino nella scala dei valori, le relazioni umane. Non si può pensare di vivere serenamente un contesto superficiale se lo si prende sul serio. Passi farlo con se stessi ma poi, si deve scegliere, selezionare, concentrare la propria attenzione su chi o cosa merita di essere ritenuto degno di rispetto. E così mi sto divertendo, mi piace persino l’idea di dare un’immagine di me che definire goliardica può essere esagerato; però provo a far vincere l’ironia e butto via i pensieri seriosi, quelli di cui mi sono servito per far capire che esistono ancora uomini di un certo calibro. Ma a cosa è servito? E mi diverto anche a sbirciare chi, ancora prende tutto come fosse vita. E gioco, come è giusto che sia. 




lunedì 18 novembre 2013

Rompere il silenzio

E

’ strano aver voglia di scrivere alla fine di una giornata in cui (come spesso accade) il silenzio è l’unica cosa che desideri. Basterebbe poco, lasciar scivolare queste ultime ore e poi, andarsene a dormire. Non è necessario, non c’è una legge che imponga di dire qualcosa di sensato al termine del giorno. La coscienza è pulita, ho fatto il mio dovere sacrosanto dunque, posso andare a letto. E invece mi viene voglia di scrivere, ben sapendo che si tratta del modo più delicato e rispettoso per spezzare il silenzio. Dire qualcosa. Ad esempio vorrei ricordare di come questo anno, malato terminale, abbia portato via tanta gente, lasciando ad ogni perdita una riflessione. E tanta paura, pensieri. Non voglio scrivere un articolo triste. Probabilmente potrei fermarmi qui, era questo il punto su cui avrei voluto spendere due parole. Si è davvero fortunati ad avere certe propensioni come la mia: il dialogo, la voglia di partecipare alla vita attraverso anche una sola considerazione sensata. Non abbiamo occasioni, i giorni spariscono sotto i nostri occhi e non facciamo nulla per impedirlo. So che tentare di dare un senso al quotidiano attraverso riflessioni profonde è dai più considerato una perdita di tempo. Ma non voglio certo tediare nessuno. E come vedete non lo faccio, mi limito ad andare a ruota libera. Sobrietà. Vorrei dire qualcosa al proposito: sto limitando (e senza sofferenza) la pubblica divulgazione dei miei stati emotivi. A che serve diffonderli? E poi, mi sta venendo più che naturale. Non ci sono dubbi, ho abbandonato la mia voglia di protagonismo virtuale e mi sono liberato piacevolmente dell’unico mezzo che mi consentiva di attirare l’attenzione: la solitudine. Questa sera avevo voglia di scrivere solo per convincere me stesso di aver dato un piccolo significato a questa giornata uggiosa. L’ho fatto, sono pienamente soddisfatto e posso andarmene a letto. Ora che la situazione lavorativa sembra essere tornata sui binari della tranquillità, posso tornare ad occuparmi d’altro. Ad esempio? Di quella frenetica attività mentale che mi vede sempre super impegnato a predicare, a lamentarmi, a chiedermi perché. Ora che le giornate torneranno ad essere identiche, troverò sicuramente gli argomenti per arrovellarmi il cervello. Vorrei soltanto un po’ di luce. E riuscire a liberarmi dell’oggi. 



venerdì 15 novembre 2013

Atterraggio morbido

A

quanto pare sono caduto sul morbido. A quanto pare. Uno stravolgimento sul piano professionale, direi non era proprio il caso. La tensione di questi ultimi giorni pare dunque svanita, ma qualcosa ha portato in termini di esperienza: vedi ad esempio il ruolo marginale che, nella mia vita, attribuisco al lavoro. Viaggiare quotidianamente, fare i conti con l'orologio, i ritardi e le privazioni che questo tipo di vita comporta: sono queste le problematiche vere, questi gli argomenti di cui parlare per trovare una soluzione. Il lavoro c'è, questo mi basta. Se poi, mi viene concesso di poter continuare un iter professionale a me congeniale, meglio. E al di fuori di tutto questo ci dovrebbe essere qualcosa di vagamente somigliante alla vita che, nel mio caso non c'è. Almeno nella sostanza. Non mi permetterei mai di non considerare tale la vicinanza della mia famiglia, le tremende preoccupazioni per la salute dei miei. Anche questa è vita. Egoisticamente ( ma forse non è così ), io associo il concetto di vita non alla semplice esistenza quanto alla partecipazione. Io sono spettatore, di quelli costretti ad assistere ad uno spettacolo noioso che si appisolano quasi subito. Eppure la vita noiosa non lo è affatto, ma il mio film è la solita replica. Dunque non posso fare altro di essere felice a mio modo, come quando ricevo un messaggio od una telefonata con cui mi viene manifestata reale gioia nel sapere che sarò ancora dov'ero. Mi faccio voler bene, ne sono capace e non lo nascondo. Poi ho i miei difetti e mi faccio odiare, di un odio buono che lascia gli altri nell'eterno interrogarsi su chi sono veramente, sul perché risulto indecifrabile. Che sia un tenebroso? Scherzi a parte, soffro. Mi spaventa il cambiamento e la ragione è semplice: paura di ricominciare, di dovermi reinventare la vita: sono sintomi di un malessere che non passa mai di cui conosco perfettamente le cause e le soluzioni. Ecco perché questo mio scrivere è ridondante, come se volessi ripetermi cose che ho già pienamente afferrato. Certezze. Non sono eterne, ti danno serenità, forse addirittura gioia, ma ti bastano per essere felice? Cosa vado cercando ancora non lo so; forse non spero accada qualcosa anzi, la mia serenità è qui, in questo momento. Non succede nulla. Che continui così.


 

martedì 12 novembre 2013

Un calcio nel sedere

U

na settimana come tante altre. Il weekend a Milano mi aveva portato il necessario ad affrontarla come sempre, con vigore ed una punta di rassegnazione. Da tre anni mi sono addormentato sul mio posto sicuro, una certezza, qualcosa di miracoloso ai tempi d’oggi. E mi sono dolcemente appisolato nella mia ordinarietà, nel mio barcamenarmi tra le solite scartoffie buttando battute qua e là. Vita. Una settimana apparentemente come tante. Qualcosa stava per spezzare la linea retta dell’elettroencefalogramma piatto. Una domanda, che sembra una proposta oppure è un ordine. Cosa fosse ancora non lo so, e ancora ignoro dove, quella mia risposta tra lo stupefatto e l’incerto, mi porterà. Di sicuro in un luogo diverso da quello nel quale ho vissuto la mia ordinarietà in questi tre anni. Ora, tutto questo incipit per dire che verrò trasferito? Sembra facile. Ditelo ad Enzo, così dolcemente coccolato dalle certezze di un quotidiano esasperante, ma pur sempre sicuro. Ditelo a lui, così sempre capace di legarsi alle persone (poche) dividendo con loro anche qualche momento di intimità di pensiero. Ecco, ora toglieteglielo. E pensate cosa può accadere dentro Enzo. In questi giorni sento tremendamente la mancanza di E. Non la vedo dall’inizio dell’estate e non sono riuscito a mantenere costante la mia presenza in studio. Mi manca, e in questo momento un’ora di sana chiacchierata con lei sono sicuro mi avrebbe rigenerato. In questo momento emotivamente delicato ho scelto di mettere dei paletti e di fare una bella classifica delle cose importanti. Prima fra tutte, la famiglia. Mamma non deve soffrire per come potrà evolvere la situazione. Devo solo cambiare ufficio, è vero. Ma lei carpisce ogni mio battito del cuore, ogni piccolo scompenso e lo legge negli occhi. Al diavolo il lavoro, la priorità è lei, e papà. La priorità assoluta è arrivare a casa stanco e sapere che, mantenendo la calma posso chiacchierare con loro e stare meglio. Che bello, mi piace pensare così. Oggi mi è venuta in mente una frase che sintetizza lo stato di fatto e la sensazione che ne deriva: è come avessi preso un bel calcio nel sedere e mi trovassi in volo; potrei cadere ovunque. Quindi continuo a volare e mentre lo faccio, mi accorgo delle orrende falsità dette, di quanto io continui ad aborrire il genere umano. Dai, sto ancora volando. E se allungo le mani verso il basso, ne sento altre che stringono le mie.





mercoledì 6 novembre 2013

Il mondo addosso

E

’ dura ammetterlo: tu ti ostini a non voler cambiare le cose, ma prima o poi saranno loro a cambiare te. Non amo i luoghi comuni, frasi fatte che non fanno altro che confermare il mio totale immobilismo. Ma niente come questo incipit sintetizza la reale immagine di Enzo, la sua vera natura di uomo incapace di lanciarsi, di prendere decisioni per sé fregandosene delle ripercussioni che potrebbero avere sugli altri. Enzo che alla fine sta bene dove sta, stanziale e sicuro quando trova un luogo che, magari gli va stretto, ma dà un briciolo di certezza. E quando tutto sembra scorrere sul binario della noia, della ripetitività, della consuetudine, ecco arrivare qualcosa, una proposta che sembra un ordine, una nuova occasione di scelta. Ed improvvisamente il mondo mi cade addosso senza che io riesca a spostarmi, d’un tratto vedo svoltare la mia vita verso un nuovo percorso. E forse subisco ancora, forse mi lascio trascinare anche nella nuova avventura, forse mi sento così svuotato di stimoli che la risposta viene naturale: “Si, va bene”. Enzo, se fossi mio figlio ti dedicherei una notte intera a parlare di te, a farmi raccontare cosa ti blocca, cosa ti rende così maledettamente predisposto al sacrificio di te stesso. Ed in nome di cosa. Quell’immobilismo che mi è congeniale fa paura quando sento che potrebbe essere causa di un nuovo errore. Mi sto lasciando trascinare perché, vedete, le cose accadono anche se ti ostini a non volerle fare succedere; ma deve andare così? Sono giunto alla conclusione che qualcuno può lavorare per me, decidere per me. Signori, sto parlando solo di lavoro. Ma tutto è assolutamente trasferibile al campo della vita, dove Enzo è fermo al palo da un'eternità, e sta bene dove sta. Stanziale in un luogo sicuro, protetto. Non sono un uomo maturo, non ho gli attributi. Sono uno di quei pacchi con su scritto “fragile” che durante il trasporto potrebbero cadere, distruggendo il contenuto. L’apparenza ancora una volta, inganna. Corazza fuori, cristallo dentro. Non posso non concludere questo articolo voluto e desiderato più di altri dicendo che non guarirò mai del mio male, che sono appeso ad un filo ed io so bene qual è. Che non posso aspettare che a cadermi addosso non sia il mondo, ma la mia vita. Chissà.




martedì 5 novembre 2013

Camicia di forza

S

pesso i pensieri riescono a trovare una via d’uscita insperata, inattesa, nascosta in chissà quale angolo del cervello. Ed una volta fuori, si disperdono nell’aria. E’ più o meno questa la sensazione che è tornata a trovarmi. Lo fa raramente, purtroppo. I pensieri, i tormenti, le preoccupazioni, i contorcimenti escono a farsi una passeggiata anziché stazionare scomodi, in testa. Ne rimane uno solo e più o meno fa così : “ Oh cacchio, vuoi vedere che ora non ho niente da dire?” “ E come faccio a far sentire che ci sono, che esisto?”. Non ci vuole grande perspicacia nel capire che sono una persona con un grande, disperato bisogno di dialogo, di confronto produttivo; ciò, in piena contraddizione con la mia proverbiale ritrosia ad affacciarmi al mondo. E’ un modo come un altro per combattere la solitudine, non per condividere con qualcuno uno status di insoddisfazione. Ho cercato persone reali e non le ho trovate. E dire che non ambivo a notti brave, ad improbabili ritorni all’adolescenza; volevo far sentire che c’ero, che avevo argomenti, che ero una persona interessante. Ora, come un vecchio pazzo, parlo con questi fogli, spesso mi confido silenziosamente nel buio della mia stanza. Non ho affatto vergogna a dire tutto questo in pubblico. E sarei felice di sapere che, una volta per tutte, qualcuno capisse che non dipende solo dall’approccio, porca miseria. Le favole le ho abbandonate, ora credo a me stesso e alla straordinaria capacità di focalizzare i punti dolenti, sforzandomi di evidenziare soluzioni: inesistenti, a fronte di una valutazione razionale. E non parlatemi del cuore, non ditemi nulla a proposito di ciò che esso muove: interessamento all’altro/a, perseveranza, partecipazione. Sto andando fuori dal seminato. Avevo iniziato dicendo di non avere pensieri e del timore di non “essere”. Ecco, ho recuperato. Questo articolo dice che nonostante tutto ci sono, sempre più confuso, sempre più nevrotico ed ansioso, ma ci sono. Può bastare no? Non mi sto lamentando, non cerco aiuto, dico solo come stanno le cose. Quando capirò che, il non pensare fa anche bene ed il masochismo porta progressivamente alla camicia di forza? 





sabato 2 novembre 2013

Il lottatore

S

abato pomeriggio. Come tanti altri in fotocopia mi fa compagnia il letto, la voglia di dormire per recuperare il sonno accumulato nel corso della settimana. Mi rendo conto di non essere in grado di riposare per timore di passare poi, una notte insonne. Brutta bestia l'ansia. Eppure chiunque fosse entrato nella mia stanza non lo avrebbe detto. I pensieri non vanno in vacanza, non conoscono il fine settimana. Ce ne sono di fissi; da qualche mese mi accompagnano quotidianamente ma preferisco non parlarne ritenendoli profondamente privati. Lascio dunque a questi fogli il compito di raccogliere gli stati d'animo di superficie, in questo Sabato d'autunno, sonnolento, a metà tra il ricordo e la rassegnazione. Cosa vuol dire secondo voi, abbracciare la vita? Non certo starsene a letto sperando di fare qualche ora di sonno, giusto? Cosa vuol dire? Fare un bel sorriso, fregarsene della solitudine ed uscire all'aria aperta? Potrebbe andare bene secondo voi? Vuol dire per caso smetterla di odiare il mondo perché non ha colpe? Potrebbe andare bene? Oppure vuol dire accettare la propria condizione e lasciare che la vita faccia il suo corso? Va bene questa? Perdonatemi, non so cosa significhi abbracciare la vita. Perché, a dispetto di quanto possa sembrare io la vita non solo l'abbraccio, io la vita la mordo, la stringo, la domino. Può un uomo solo (senza amici e senza l'opportunità di crearsene) cavalcare la vita? Voi ci credereste? Io penso che abbracciare la vita sia un gesto ( non me ne vogliano le donne che leggono ) da signorine. Chi ha le palle, la vita non la abbraccia, la prende a testate, cerca di metterla all'angolo. E chi è solo ha due possibilità: abbandonare il ring oppure andare giù di ganci fino alla vittoria finale. Il problema è questo: che tu l'abbracci o la combatta, la vita non ti restituisce mai ciò che cerchi. Non perché sia ingiusta, semplicemente perché è la vita. Non esistono regole primarie, esiste semmai il senso di coscienza e la consapevolezza di aver sempre dato tutto. Che poi ad un certo punto riemerga l'insoddisfazione e la mancanza di stimoli, non è sicuramente per colpa di ciò che rimani lì, spettatore. L'apparenza inganna, ragazzi. Io sono un lottatore.



venerdì 1 novembre 2013

Non me lo ha detto il medico

N

on me lo ha ordinato il medico di scendere in piazza. Nemmeno di farlo permettendo che tutti potessero, gratuitamente, ascoltare ciò che avevo da dire. Non mi ha ordinato neppure di prendermela quando mi sono sentito psicanalizzato, giudicato, spinto ad imboccare la via giusta per redimermi. Non credo mi abbia prescritto poi di farlo promettendomi che sarebbe stata la giusta via per una vita felice. A pensarci bene non mi ha nemmeno indotto ad essere l'esatto contrario di ciò che sono, di vivere un'esistenza forzatamente attiva allo scopo di dimenticare chi sono veramente. Se il mio medico mi avesse imposto trattamenti di questo tipo lo avrei denunciato. Non l'ha fatto e non aveva motivo di farlo visto che, a mettermi nei casini (sempre e comunque) sono bravissimo. Qualcuno (più di uno) non vuole capire. Quando la tristezza la porti dentro, e la porti dentro da sempre, tu sai che non ti abbandonerà mai. Che tu scriva un diario per farlo capire oppure scelga di vivere una vita esageratamente attiva, tu sei e rimani solo. Lo dico con cognizione di causa per il semplice fatto che ricordo assai bene cosa sentivo dentro, a venti o trent’anni. Ho vissuto anch'io momenti magici, di grande condivisione: donne, amici, esagerazioni, spensieratezza. Ma qualcosa mi lasciava un velo di malinconia. Con gli anni, le responsabilità, l'acuirsi della sensibilità, la situazione è degenerata. Un'anima speciale, diversa, non paragonabile ad altre. Che ora viene fuori perentoria, chiudendo all'angolo la vita, la voglia di partecipare, di essere come tutti gli altri. E allora, se come me hai giocato le tue carte, dandoti in pasto al mondo, devi accettare giudizi, analisi, pretese. Ma perché? Non me lo ha ordinato il medico. Ora, è troppo facile esaminare un caso, rebus sic stantibus. Bisogna andare indietro, ed io non ho più voglia di parlare del passato; nemmeno del presente a dire il vero. Dovrei chiudere il blog? Non voglio, ma devo fregarmene totalmente dell'opinione altrui, per quanto finalizzata ad una giusta causa. Impenetrabile: sogno di essere così. Desidero la possibilità di vivere una vita superficiale, senza correre il rischio di dover per forza essere puro, nudo e crudo. Più che di un medico, ho bisogno di un incantesimo.



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