lunedì 30 dicembre 2013

Ad un tratto

N

on era programmato questo post ma sai, è come quando ti prende l'istinto di chiamare un amico, un’ amica con cui vuoi confidarti; e lo vuoi fare subito perché ne senti un tremendo bisogno. E io con chi lo faccio? Con chi se non con te, perché per quanto io dia il massimo per mantenere un'apparenza quasi normale, non sono tranquillo. Ecco sai, in questi giorni sono molto agitato, preoccupato, ansioso. Vedo i miei. Faccio tante congetture, anziché vivere la giornata; nella mente si affollano pensieri cupi, immagino situazioni e contesti che vorrei fossero lontanissimi ed invece li dipingo come se fossero attuali. Ti rendi conto a cosa penso quando manca un giorno alla fine dell'anno? Ti pare normale? Poi mi faccio male e sfoglio a caso album di fotografie sulla piazza virtuale. Mi chiedo come mai non sono lì, al posto di quella gente sorridente (e un po' idiota). Ci si mette pure l'invidia. Avrei bisogno di una bella secchiata d'acqua gelida in testa. Vorrei solo che domani, quando mi ritroverò attorno ad un tavolo pieno di gente che non considero nemmeno un giorno all'anno, arrivasse subito la mezzanotte. E poi via, a casa. Prova superata e si ricomincia. E' del tutto normale che mi passino tutte queste belle paranoie per la testa, normale e consequenziale di un altro anno passato a sopravvivere, un treno qui l'altro là e poi casa, solo casa. Non ricordo l'ultima volta che sono uscito per una pizza. Forse la scorsa primavera? Tu dirai che sono io a non volermi aprire, ma come faccio? Non esiste nemmeno più il punto di non ritorno dal quale poter ripartire, perché il fondo scivola sempre più giù ed io sto diventando un uomo paziente. Con tanta voglia di piangere, ma che vuole conservarle, le lacrime. Depresso, esaurito, stanco? Scivolano le parole stasera, senza vergogna, io non ho paura di nulla. Non avrei voluto fare bilanci, tirare somme ma ritrovandomi qui, un foglio bianco e la solita tremenda voglia di parlare, non ce l'ho fatta a resistere. L'amico/a del cuore sei sempre tu, senza voce o sguardo ma pur sempre ottimo ascoltatore, fedele ascoltatrice. Si, so che sono paranoie da fine anno, so che bisognerebbe solo pensare al fatto che intanto invecchio e non ho fatto nulla per essere felice. Questo è il punto. Ma volevo lasciare scritto il mio pensiero di oggi, sempre più vero, emozionato, intenso. Buon anno Enzo, nel tuo piccolo mondo ce la farai anche questa volta.




domenica 29 dicembre 2013

Vorrei ma non posso

D

a quando ho aperto il blog, il buon proposito per l'anno a venire è sempre stato lo stesso: chiuderlo. Inconsciamente ho sempre ritenuto che, abbassato il sipario sui miei pensieri, avrei ricominciato a vivere. O forse il contrario: l'aver ripreso confidenza con la vita, avrebbe inevitabilmente portato alla scomparsa del diario. Chissà. Ora che mancano due giorni e questo malefico anno se ne andrà, il proposito ritorna. Vorrei chiudere qui. Vorrei, ma non posso. O se lo facessi, dovrei cambiare pelle, mutare il punto di osservazione, guardare oltre la spessa cortina che mi separa dal mondo. Scrivere è una malattia. Il blog mi ha aiutato, poi si è ripiegato su se stesso in perfetta sincronia con i miei turbamenti e le mie contraddizioni. Ora non mi serve più e vorrei disfarmene. Dovrei fare un operazione di marketing: se ne aprissi uno di cucina? Oppure uno nel quale racconto stronzate quotidiane che non attengono alla mia persona ma alla moltitudine di quelli che mi ronzano intorno? Avrei più lettori? Ma non punto al successo. Punto a stare bene. E io come sto? Ma sto bene, credetemi. Fine del ciclo di puntate della serie: “ alla ricerca di un senso”, termine della saga de: “la guerra contro il mondo”, scena finale del ciclo: “ il virtuale è una merda come chi lo popola”. Sto bene, pulito, sbarbato e rassegnato. Mi basta. Ora i pensieri stanno prendendo ben altra direzione, qualcosa di cui difficilmente riuscirò a sbarazzarmi e che sicuramente eviterò di rendere pubblico. Anche quest'anno sono giunto alla considerevole cifra di quasi duecento post. Un record se si pensa che non è da tutti riuscire a distribuire tante parole senza dare loro un preciso significato. I buoni intenditori, come definisco quei santi che ancora riescono a leggermi, lo sanno. Io dico e poi smentisco, affermo e poi nego con la classe del migliore ipocrita. Mi sono messo a nudo senza vergogna, senza paura di passare per depresso, disfattista e quant'altro. L'ho fatto ( e forse continuerò a farlo ) senza maschere. Perché questo sono, e già sapevo di essere. Già. Lo sapevo come ben conoscevo l'inutilità dell'azione umana e dei buoni propositi di chi ha provato ad aiutarmi. Io, il mio alibi, il mio blog. Il coraggio di un pusillanime che non sa vivere. Vuoi vedere che non lo chiudo neanche questa volta?




giovedì 26 dicembre 2013

Un ospite discreto

S

o bene che non è educato parlare degli assenti, ma non sono armato di malevole intenzioni, giuro. Natale è appena uscito, in punta di piedi così come era arrivato. E non è stato affatto un ospite sgradito, anzi l'ho apprezzato per discrezione e tatto. Lui, poverino, non ha colpe se (ormai da tempo) non mi comporto nei suoi confronti da perfetto padrone di casa. Banditi i tappeti rossi, le cianfrusaglie e addobbi vari, auguri con il contagocce. Tutto è andato bene, senza proclami, senza facili entusiasmi e stupidi baci sulle guance. Non ne avevo bisogno e chi invece ne ha, non deve aspettare Natale per poter sentire la mia presenza. Se n'è andato e va bene così. Ho l'impressione che, nonostante la mia pessima considerazione per il virtuale, qualcuno abbia finalmente recepito e compreso il messaggio subliminale. So di generalizzare con troppa facilità ma quasi sempre le frecciate hanno precisi destinatari; e mi scuso con chi (giustamente) ritiene di non avere ragioni per sentirsi tirato in causa. Ho ottenuto silenzi chiarificatori e mi auguro che l'evento ipocrita per eccellenza abbia rappresentato il momento ad hoc per capire chi o cosa non dovrà più far parte della mia vita. Mi sento indotto a fare una vera operazione di pulizia ma così facendo, cadrei nell'errore di supervalutare una lista del tutto simbolica. Ho la netta sensazione di aver scavalcato il muro del silenzio (mio e altrui) e che sia giunto il momento di riprendere il cammino. La fine di un anno non significa lasciarsi tutto alle spalle, dimenticare e azzerare. Finire di farsi seghe mentali però, si. La piazza virtuale continua ad essere una sorta di cavia su cui poter sperimentare senza limitazioni; la condotta umana è di per sé incomprensibile nella realtà, pensate cosa può diventare se mediata dal privilegio dell'invisibilità e aggravata dalla diffusa disonestà intellettuale. Datemi dunque dell'apprendista psicologo dei pazzi, del voyeur, dello sfigato che non ha di meglio da fare;studiare gli altri mi affascina, capire fino a dove mentire a sé stessi può generare un beneficio. Ho una grande autostima e so che chi mi perde, butta all'aria un'occasione autentica, unica. Ma dove sto andando a parare? Voglio forse lasciar intendere che nessuno è in grado di apprezzarmi? Voglio tornare a dire che sono il solito incompreso? No. Voglio ribadire (mi perdonerete la scivolata scurrile) che la gente non capisce un cazzo, o almeno è sempre troppo presa da sé per afferrare i concetti. L'egoista sarei io? Gli egoisti siete anche voi. Ma sulla piazza potrete persino passare per onesti.



lunedì 23 dicembre 2013

La volpe e l'uva

N

on voglio passare per il solito che ama distinguersi dalla massa; tuttavia se affermo che a me del Natale non frega nulla qualcuno inevitabilmente si stupirà. Non vorrei nemmeno passare per la volpe di turno che, non riuscendo a raggiungere l’uva, abbandona il campo dicendo che non è buona. Quell’uva potrebbe essere la tanto desiderata serenità, quella che non va cercata alla fine di un percorso ma vissuta giornalmente. Ma è risaputo, a Natale questa parola è sulla bocca di tutti, belli e brutti, sinceri e ipocriti, buoni e cattivi. E mentre la gioia sembra trionfare nelle case del mondo, tu ti ritrovi lì con gli stessi pensieri di sempre, la stessa solitudine senza riuscire a mentire a te stesso. Gli altri si fottano ma tu non puoi dire che sei sereno; dunque Natale è un giorno come gli altri. Questa è la mia arringa, ho cercato di difendermi e di non passare per invidioso, poi chi non è d’accordo si arrangia. Quest’anno passerò tredici giorni a casa, riprenderò a lavorare il sette di Gennaio. Liberazione oppure incubo? Sono tranquillo nella misura in cui vado d’accordo con i miei pensieri e non faccio finta di apparire sereno. Forse sereno è una parola grossa, chi è solo non è mai felice, magari semplicemente rassegnato. Ancora una volta infatti, alla fine di un ciclo di dodici mesi, mi ritrovo con un pugno di mosche in mano anzi, più che mosche parole e promesse. Le solite, e ho deciso di riderci sopra. C’è un’altra soluzione? Questi ultimi giorni non sono stati facili. Al lavoro come a casa si parla troppo di vite che se ne sono andate o sembra stiano per andarsene. Lo stomaco si chiude, qualche discorso mi abbatte, non riesco a trovare vie di fuga. Ma come si fa ad essere sereni? Ma viene davvero spontaneo dire : “Ma chissenefrega del Natale!” E vadano a quel paese quei bontemponi che diffondono immagini e pensieri pieni di bontà. Ecco, sono invidioso? Ma no, solo riflessivo e realista. Non posso negare la felicità a chi felice lo è davvero oppure si sforza di esserlo. Allora la conclusione è che io non la voglio, la serenità. Vedete, la colpa è mia no? E va bene sono io il primo responsabile della mia infelicità ma, almeno a Natale vorrei poter non vedere od ascoltare esaltazioni della felicità, inni alla gioia e via dicendo. Mi aspetto (e ne sarei grato) un silenzio costruttivo e coerente da parte dei soliti pseudo-amici. Poi tutto ricomincerà daccapo, i cieli si faranno sempre più blu e non avrò bisogno di raggiungere l’uva. E’ solo Natale, poi passa.



mercoledì 18 dicembre 2013

Meravigliosamente naturale

N

atale, tempo di bilanci. Ma anche no. E’ il momento del confronto, di fare un salto indietro nel tempo, al vecchio Dicembre 2012. Questo si che è un lavoro costruttivo. Non è dal resoconto che si può trarre una lezione, molto meglio capire cosa siamo diventati alla scadenza dell’ennesimo anno di vita. Oppure cosa siamo rimasti. Qualche rughetta in più, i miei genitori più stanchi, il tempo che ci ha preso ancora tutti per il culo. E dentro? Cos’è cambiato? Ricordo bene dove stavo un anno fa, di questi tempi. Ero dentro di me, prigioniero della mia scatola, cercando il senso di qualcosa. Non negativo, non pessimista, solo riflessivo e, a rendermi le cose più difficili, il male comune. Ho ben capito in questi ultimi mesi che, quando ti stai contorcendo su te stesso non c’è nulla di peggio che trovare sul cammino qualcuno nella tua stessa condizione. Ma quale aiuto, quale solidarietà. Illusioni di un momento, una fase da percorrere insieme cadendo nell’errore più banale e imperdonabile che si possa commettere: confidarsi, sciogliere le proprie debolezze dandole in pasto a qualcuno che da lì a poco, ne farà una pallottola da buttare nel cestino. E allora tutto si ridimensiona, a cominciare dalla sciocca supervalutazione di un mondo fatto di sagome senza anima e desiderose solo di mostrarsi. Ma perché prendere tutto questo sul serio? Eccola la stronzata. Il confronto è bello che fatto: non ci sono paragoni, non c’è storia, io ora sono un superficiale all’occorrenza. E credetemi, dal momento in cui sono riuscito a concepire il mondo virtuale come qualcosa di simile alle parole incrociate od il sudoku, tutto è cambiato. E non è cosa da poco. Sto continuando a prendermi sul serio, da questa malattia non si guarisce, ma non ho più bisogno di alcuna maschera per risultare stupido e superficiale. Viene tutto meravigliosamente naturale. Finita la guerra contro il mondo, finita la battaglia di messaggi subliminali verso Tizio o Caio. Non hanno orecchie oppure se le hanno, alzano la testa e guardano per aria. Caffè, anima, cuore, incontro, promessa, solitudine, sto con te, ti capisco, siamo nella stessa barca. Che noia, davvero. Ed ecco Natale, e d’improvviso una parola: “Auguri”. Svalutata, violentata, svenduta come tante altre, tanto è solo una parola: come amicizia, amore, cuore, e via andare. Mi arriveranno anche quest’anno. So già come reagirò. In modo meravigliosamente naturale.



sabato 14 dicembre 2013

La qualità del momento

I

l tempo ci frega. Quanto ne sprechiamo mentre siamo in tutte le nostre faccende affaccendati? Abbiamo a disposizione miliardi di parole. Quante ne buttiamo nell'affermare cose ovvie, senza alcun senso? Cosa ci resta? Poco. E' dunque importante puntare alla qualità, andare dritti allo scopo. Mentre maledivo la settimana appena trascorsa (arrovellandomi nel capire se e come sarei tornato a casa alla fine del lavoro), mi permettevo il lusso di dedicare pochi minuti alla riflessione seria. Minuti miei, intimi. Troppo esiguo il tempo e tanta la stanchezza per poter mettere nero su bianco. E ti accorgi che in realtà non riesci più nemmeno a sopravvivere, se manca la qualità e l'essenzialità di un momento. Possiamo ritenere vita tutte le ore che dedichiamo al lavoro? Ci dà da mangiare, è importante. Stop, però. Cosa resta? A me ad esempio questo blog. E chi me lo dice che anch'io in questo istante non sto buttando parole in aria, mentre potrei arrivare al dunque e dire cosa penso, tutto e subito. Ho picchi di grande coraggio che restano imbottigliati nel cervello, nel pensiero di un istante, in un'espressione rabbuiata mentre qualche immagine ti attraversa la mente. Sono un potenziale bastardo o meglio, un sincero incompiuto. C'è tanta onestà intellettuale in me, ma anche una grande voglia di ricompensa. L'odio verso l'umano si è decisamente attenuato e non sono servite maschere, alibi, o illusorie prospettive di cambiamento. Tutto naturale. Non posso certo pretendere di diventare un agnellino perdonando le assenze, i silenzi, ma non posso più permettermi di espormi, di mettere in piazza debolezze o piagnistei. La mia riflessione di stasera non punta a constatare e a denunciare (se ce ne fosse ancora bisogno) l'altrui egoismo, la cronica ipocrisia. Che barba questi discorsi, non c'è più bisogno di ricordarlo. Queste righe solo per dire che la qualità del momento è vita vera e propria , di certo non la ricerca ossessiva della felicità intesa come percorso. Non so se sto sprecando tempo e parole, ma il solo fatto di riservare queste poche righe e questi minuti ad una riflessione è sintomo di vita. Non è un caso che al di fuori di questa stanza io abbia deciso di prendere finalmente la forma del mondo, abbracciandone la banalità, avallando comportamenti idioti e falsi, senza mai esternare nulla se non perfetto equilibrio. A fronte di tutto ciò, viene naturale che l'umano ti senta diverso. Sembra ormai inevitabile il distacco, l'assoluta indifferenza. C'è poca umiltà. Da quanto tempo qualcuno non si rivolge a voi dicendo: “Scusa, hai ragione”?




martedì 10 dicembre 2013

Tempo da conigli

O

ra capisco quelli che, ritrovata la strada perduta, decidono di andarsene. Poco importa se tu nel frattempo sei ancora nella merda, frega ancor meno di sapere se annaspi, se stai affogando oppure se anche tu nel frattempo, sei riemerso. Li capisco e non li biasimo. Un tempo li avrei odiati, mi sarei lasciato travolgere dall’istinto e avrei detto loro ( uno ad uno ): siete delle merde, quel che vi rende indegni di stima è la vostra codardia, la mancanza di palle. Non sento più niente, forse indifferenza. Me ne rendo conto, perché io stesso ho percorso strade con persone che poi ho miseramente abbandonato, appena vista la luce. Ma l’ho mai vista io la luce? E il tunnel, esiste oppure è una costruzione mentale? Nostro malgrado, se la vita comincia a volerci bene dimentichiamo quel “mal comune mezzo gaudio” su cui si fonda gran parte delle amicizie virtuali. Ne è il motore, l’elemento che innesca la scintilla, e allora tutto sembra bello, tutto umano, la solidarietà trionfa. Fino a quando poi qualcuno dice di aver scoperto la luce e allora, chissenefrega. Muore ciò che non è mai nato, che pesa quanto una piuma, l’idea di un’amicizia. Riflessioni post-weekend, da treno ghiacciato mentre torni a casa e pensi che a volte la vita ti abbraccia. E in quell’esatto momento tutto si scioglie come neve al sole; come flash ti attraversano la mente parole, discorsi, progetti che non avevano senso di esistere ma che hai pronunciato, immaginato e non sai perché. Da tempo dico che non avrei nemmeno più bisogno di stare qui, di dire qualcosa che vada al di là del mio intimo; parlare degli altri è tempo sprecato, ma non perché non vieni ascoltato ( letto, in questo caso). La ragione sta nell’abitudine diffusa alla comodità del sapere potendo avvalersi della facoltà di non replicare. E’ ormai tempo da conigli. Invidio chi realmente sente di aver raggiunto la serenità prescindendo dall’interazione umana. E lo capisco. Ma non riesco a crederci, perché qualcuno o qualcosa subisce sempre un danno dalla tua felicità. Chi crede di aver trovato la via giusta, vantandosi di averlo fatto da solo, ha inevitabilmente provocato sofferenza. Perché se è vero che si può essere felici anche da soli, è altrettanto sacrosanto che a questa conclusione si giunge lavorando su se stessi ma, ripudiando ogni genere di contatto. E gettando nel dimenticatoio chi, nel suo piccolo, ti ha aiutato. Mea culpa, tua grandissima culpa.



mercoledì 4 dicembre 2013

Senza tatto

S

tanotte ho fatto un sogno. Lo ricordo molto bene e non mi stupisco di ciò dal momento che ero protagonista principale della vicenda e la sentivo mia come fosse vera. Piangevo a dirotto e inevitabilmente cercavo aiuto ottenendo per tutta risposta assenza oppure indifferenza. Ero triste all’idea che qualcosa nella mia vita sarebbe cambiato, non ricordo se attenesse al lavoro oppure alla sfera privata. Il fatto è che avvertivo realmente lo scoramento, il disagio, la sofferenza. Di colpo ho alzato la testa cercando le cifre rosse del display della mia sveglia: segnavano le 5 e 36. Mi sono portato il sogno in bagno, mentre facevo colazione, quando intirizzito percorrevo il viale della stazione. E poi in treno. Il subconscio non ha modi, né tatto. Bussa, anzi scardina le porte della vergogna, del timore, della paura vera e propria. Ti viene a trovare e poi ti spiattella tutto lì, sotto forma di immagini. Da mesi porto con me una reale paura di perdere qualcuno che inevitabilmente si accompagna al terrore di dovere, prima o poi, veder cambiato un certo percorso che al momento sembra sicuro. Non posso permettermi certe debolezze a quest’età. Ma sapete, forse sono già preparato. Lo stesso accade sul lavoro: la prospettiva di un cambio radicale mi terrorizza. Io non so camminare sulle mie gambe, questo è. La fase è contraddittoria: riesco ad essere assolutamente superficiale, anche simpatico ma ho momenti di grande riflessione interna che non estrinseco in modo ripetitivo. In altri momenti ho fatto l’esatto contrario: mi sentivo sereno ma esternavo pensieri e riflessioni pesanti. Non mi capisco ma la cosa non mi meraviglia più di tanto. Sono alla disperata ricerca di una soluzione: a cosa devo pensare per scacciare certi fantasmi? Forse magari E. potrebbe aiutarmi. Sto valutando di tornare a trovarla, sono sicuro riuscirebbe a rimettere un po’ in sesto questa macchina traballante. Continuo a sentirmi una roccia, fisicamente mi sento bene, sul lavoro dò il massimo. Poi c’è il resto, questa testa fragile prigioniera della solitudine. Ci pensavo ieri: vuol dire molto avere la possibilità di parlare, di spezzare i ritmi di una vita monotona. Abituarsi a non avere vie di fuga serve ad autoconvincersi che si è fatto tutto il possibile. Vero. Ma so che mi merito anche solo un briciolo di aria, tutto sembra così difficile, devo trovare la soluzione.




lunedì 2 dicembre 2013

Il mio momento

V

orrei davvero credere che la lontananza dal blog (ovvero la mancanza di argomenti) rappresentasse l’avvicinarsi alla linea del traguardo. Forse questo diario è già morto ed io non me ne accorgo, forse dovrei darle un’impronta differente. Non posso prescindere dal foglio essendo l’unico mio confidente, ma non nascondo che vorrei ( e potrei ) riempirlo di ben diversi contenuti. Sapete, io da pendolare ho un’infinita collezione di situazioni che potrei tradurre in brevi racconti per poi magari trarne anche qualche insegnamento. Da tempo ripeto che dovrei alzare lo sguardo, puntare gli occhi su ciò che mi circonda e perché no, scriverci al riguardo. Fino a quando cercherò nel profondo di me stesso, questo diario manterrà un’impronta intimistica senza via d’uscita. Confesso di non essere capace di tradurre in parole situazioni e circostanze che nulla hanno a che vedere con me, ma questo blog sta morendo nella misura in cui io, sto guarendo. Sono fuori dal tunnel. Si lo sono, e non mi vergogno più quando penso che non ho più domande da pormi, nessun quesito esistenziale. La colpa di chi è? Ma del mondo, ovviamente. Ma nessuna battaglia, niente crociate contro il genere umano, semplicemente penso di aver provato a capirlo analizzandolo in tutte le mille sfaccettature. E dico grazie a molti. Recentemente, non più di qualche mese fa, mi è capitato di conoscere le ultime persone da cui speravo di poter apprendere qualcosa, soggetti che in apparenza (solo in apparenza) sembravano vicini alla mia idea di vita, al mio archetipo di relazione amicale. Non me la sento di giudicarli, sono convinto del fatto che, conosciuti in un ambito diverso da quello virtuale, avrebbero potuto essere veri. Ed è finalmente arrivato il mio momento: ora posso giocare, passare per un uomo superficiale disilluso dagli umani ma non per questo arrabbiato. Sto bene anche nella mia normalità. Cosa serve urlare? E cosa voler a tutti i costi dare un’immagine di sé seriosa, cupa e pensierosa? C’è un Enzo che merita solo Enzo, ed è con lui che mi preme sempre sciorinare le problematiche quotidiane, i malesseri, i pensieri cupi. Spiace dover essere arrivato a queste conclusioni, ma sto vedendo la linea del traguardo sempre più vicina. Temo per il blog. Sono contento di me.



sabato 30 novembre 2013

A buon intenditore...

A

l buon intenditore non servono molte parole. Ecco una delle ragioni per cui sto scivolando verso lidi di serenità mista a rassegnazione, lasciandomi alle spalle inutili battaglie nell'intento nobile di accettare l'imperfettibilità umana. Quella altrui, e la mia innanzitutto. Esiste sempre una vena malinconica nelle consapevolezze acquisite a furia di sbattere contro muri di gomma, di dover sopportare silenzi che avrebbero dovuto far posto alle parole. Non c'è coraggio, e neppure buone intenzioni. Non ci sono finalità che trascendono il “mal comune mezzo gaudio”. C'era una volta l'amicizia, la passione, il rispetto. Questo blog sta perdendo i pezzi e le tematiche che lo hanno caratterizzato agli inizi della sua avventura; ed il diario elettronico è un riflesso della società, tanto da finire relegato ad una sorta di piccola stanza vuota dove le parole rimbombano per ritornare in faccia a chi le scrive. Mi piaceva ascoltare voci vere, mai mascherate dietro uno stupido schermo. Per qualche tempo ho pensato di essere sulla strada della sola comprensione altrui, lasciando le mie sensazioni chiuse in gabbia. Non era giusto fosse così e la maggior parte di quelli che non sono buoni intenditori ora ignorano quanto, l'egoismo che mi permea, sia solo compensazione della benevolenza dei tempi andati. Se facciamo bene attenzione tutto ha un perfetto equilibrio. Basta andare oltre il quotidiano e guardare il nostro percorso come farebbe un obiettivo grandangolare. Ma è decisamente più facile (o forse inevitabile) fermarci a chi siamo, fregandocene del perché ci presentiamo con questa maschera. E i buoni intenditori sono pochi, non hanno mai usato parole a sproposito, mai varcato i confini del giudizio, semplicemente si sono limitati ad accettare. E' indubbio che quei pochi rapporti che galleggiano al di sopra del mare dell'ipocrisia, debbano ricorrere al compromesso. Ma è il tempo che li rende unici e forti. Poi ci sono gli altri, che non poggiano su basi solide fatte di anni trascorsi, e che pretendono ignobilmente di esistere perché l'uno deve insegnare all'altro come vivere. Ed il blog sta perdendo le parole che è inutile dispensare in quantità se, dall'altra parte non ci sono buoni intenditori ma solo falsi predicatori.




giovedì 28 novembre 2013

Più che vivo

S

ta finendo una settimana all’insegna del freddo. E’ tempo di muscoli contratti, di passi svelti e di minuti preziosi persi a sbrinare il parabrezza dell’auto. E’ anche tempo di speranze: una carrozza riscaldata è ormai un lusso e solo quando imbocchi la porta d’ingresso realizzi se sarà un giorno fortunato. Sta finendo una settimana che mi ha visto fortemente motivato sul lavoro, assolutamente disponibile come sempre e con il sorriso stampato in volto per una buona parte della giornata. Si vede che ho scampato un pericolo. Quando nell’aria correva voce che da qui a breve mi sarei potuto ritrovare altrove, non l’ho presa bene. Ma, nell’interesse prevalente di preservare un certo equilibrio psicofisico, ho mantenuto fermezza e persino una buona dose d’ironia. Ma avevo paura. Cambiamento è una parola che mi incute lo stesso terrore dell’idea di prendere un aereo. E’ quel momento nel quale sento di perdere tutta la grinta interiore e la forza d’urto che pochi riescono a notare in me. Le difese cadono. Ed ora che so di poter rimanere al mio posto è come se ricominciassi daccapo. Una sorta di nuovo inizio e di colpo ritrovo l’energia e la motivazione che (ricordo come fosse ieri) accompagnavano i primi tempi; e che, tra le altre cose, spingevano la mente verso lidi di assoluta serenità e spensieratezza. Ricordo che fu proprio l’entusiasmo a rendermi il viaggiare qualcosa di apprezzabile. Ma questo è un altro discorso. Orai mi preme ricordare di questa ritrovata energia che, badate bene, è pur sempre un boomerang. Sommate motivazione, disponibilità, grinta, ritrovata voglia e fate il conto: cosa otterrete? Il solito Enzo factotum, inarrestabile e poi riflessivo: “Ma perché faccio così? Perché non oppongo resistenza?” Non perdo tempo nel provare a rispondermi. Finisce un’altra settimana: il gelo mattutino azzera i pensieri, io provo persino ad addormentarmi con la musica e, in men che non si dica, sono già al lavoro. E poi, in un batter d’occhio mi ritrovo qui, a scrivere. Non so quanto sia piacevole constatare la velocità con cui le giornate sfuggono via ma non è opportuno porsi domande. Scrivo del quotidiano ed evito ogni pericolosa riflessione sul futuro, sulle possibilità, sulle mancate opportunità. Sono più che vivo. 



lunedì 25 novembre 2013

A volte vinco io

M

i piace quando riesco a prendermi gioco del tempo. Spesso tendo a sopravvalutarlo temendo di essere sempre in ritardo sugli impegni, di correre il rischio di non averne abbastanza anche solo per un piccolo piacere quotidiano. Scrivere per me non è solo gratificazione, è innanzitutto sfogo, dialogo, piacere di riesaminare ciò che accade e che (purtroppo) viene risucchiato nel vortice della velocità. Non posso che ritenermi felice di avere uno spicchio di libertà e di essere così stimolato a riempirlo di questi brevi pensieri sul foglio elettronico. Non sempre si ha qualcosa da dire alla fine di ogni giorno, almeno quando il mezzo usato è la scrittura. Verrebbe di gran lunga più facile scendere dal treno, incontrarsi con un amico e chiudersi in un caffè per raccontarsi com’è andata la giornata. Ancor più semplice sarebbe avere un divano, un bel camino, una bottiglia di vino rosso e dedicare una serata alla settimana a parlare di me, di noi. Ecco, quando voglio dimenticare la mia solitudine, immagino questo. Tengo a precisare che la signora non è più in grado di opprimermi come un tempo; il fatto di riuscire a conviverci sarà anche segno di rassegnazione ma io ho me; e sono il più importante interlocutore di me stesso, chissenefrega di passare per pazzo. Le parole scritte lasciano segni, fermano il tempo come uno scatto fotografico. Non è un caso se le mie passioni passano attraverso mezzi che il tempo lo vogliono inchiodare al muro: una fotografia, un breve racconto di trentacinque righe come questo. Ultimamente penso troppo, ma non certo a me. Vorrei tanto parlarne con E. ma come già detto, temo non si potrà fare fino a Gennaio. Se oggi fossi nel suo studio le racconterei delle paure di questi ultimi mesi, del timore (più che naturale) di perdere qualcuno vicino. Mi chiedo se esista umano in grado di convincermi che la vita è questa, nulla è eterno, tutto nasce e tutto muore. Ho indubbiamente bisogno di svago; la rassegnazione cela la sconfitta, attenua l’impeto d’orgoglio ma non annulla il dolore, la voglia innata di vivere la vita come vorrei. Non volevo scrivere un post triste, anzi aver sconfitto il tempo non può che rendermi felice. Sto meglio, come sempre. Eh se non ci fossi tu…



sabato 23 novembre 2013

Scontro frontale

E

poi a volte mi attraversa un pensiero ricorrente: sto perdendo il mio tempo. In pratica il castello di certezze, di conti che tornano, di cuore e ragione che hanno svolto correttamente il loro compito, cade. Il contesto non ha più giustificazione, le pseudo motivazioni ( vedi stanchezza e stress accumulato ) diventano alibi. Un frontale con la realtà dal quale esco con le ossa a pezzi. E allora? Nulla, non succede niente perché so perfettamente di assolvere con dignità al mio compito di sopravvivenza. Lo faccio nel pieno rispetto delle regole della società e adeguandomi a ciò che mi ruota intorno. Il confine tra convinzione e verità è sottile ed è rappresentato dal senso di dignità; perdo tempo a guardare il soffitto, a lacerarmi gli occhi davanti a questo monitor oppure lo sprecherei forzandomi a fare qualcosa che non stimola? Lascio intendere di avere alternative ma non ne ho: difficile (anzi impossibile) che io mi possa permettere il lusso di scegliere. Ho lasciato il vuoto dietro ed intorno anche se, detta così suona come un'ammissione di colpa. Niente di tutto ciò. E' che poi ci sono Sabati d'inverno e la pioggia fuori, dunque pensi: “Bello mettersi addosso un pigiama caldo e rilassarsi mentre fuori piove”. E poi ripensi “ Farei una fatica enorme al solo pensiero di dovermi cambiare per una serata fuori, con questo tempo”. E' cambiato qualcosa. Succede, a volte. Vanno via velocemente i giorni, le settimane, i mesi. Arrivano le feste a ricordarci che siamo rimasti immobili e non abbiamo fatto alcunché per noi stessi. E ne arriveranno altri a condannarci al solito immobilismo e alle consuete considerazioni. Di fatto non c'è più voglia di argomentare su discorsi che hanno fatto la muffa, solo semplicemente dire cosa passa per la testa; e questa sera è venuta a trovarmi la paura di buttare all'aria qualcosa. Sono un combattente anche se tutto si direbbe di me fuorché di essere uno che affronta il mondo. Lo sono nella misura in cui mai e poi mai riuscirò ad accettare questa parabola discendente di cui sono stato protagonista; su dai, non sono triste, anzi come già dicevo ieri ho anche voglia di ridere. E faccio bene ora a chiudere questo foglio, metterlo nella scatola delle sensazioni estemporanee e andare a dormire. Con tanti complimenti a me.




venerdì 22 novembre 2013

Fatti una risata

S

drammatizzare è un verbo quasi del tutto sconosciuto al mio vocabolario. Non so cosa mi sta passando per la testa, forse nulla ed è questo che mi fa sentire così...leggero. Ho messo in un angolo la paura di non essere abbastanza serio per piacere, di non sentirmi abbastanza male da farmi voler bene. E ho ripreso dalla soffitta qualcosa che ormai avevo dimenticato potesse esistere: un po' di voglia di ridere senza che ciò rappresenti una maschera. E' vero, Enzo non è finto. Scusate il gioco di parole ma in questo caso, ci sta. Per quale motivo dovrei sorridere solo per quieto vivere, per fare contenti gli altri e adeguarmi al diffuso vivere superficiale. Io sorrido e lo faccio perché mi va. Come già avevo accennato nel post precedente, ho bisogno di giocare; non ho un secondo fine, con questo non voglio dire che sarò d'ora in poi un cretino. Ma credo che esistano palcoscenici nei quali è importante sdrammatizzare. Per tutto il resto c'è sempre Enzo, capace di complicarsi l'esistenza quando e come crede. Ecco, spero di aver sintetizzato il mio sentire attuale. E non è per nulla facile sentirsi naturalmente così, di buon umore, nonostante là fuori e dentro questa stanza continui a regnare l'immobilismo. Ma ho riscritto la scala dei valori e delle priorità, ho cercato di azzerare le diseguaglianze emotive tra me e gli altri; non posso pretendere nulla e mi sono stancato di giudicare. Chi mi legge penserà all'ennesima fase, cui seguirà verosimilmente un periodo buio. Ho abituato me stesso a questa alternanza umorale ma, riuscendo ad andare nel profondo più profondo di me, posso assicurare che avverto realmente questo mutamento. Dunque, è per me un piacere comunicarlo. Nel mio solito piccolo mondo, i cambiamenti sono impercettibili a quelli che, loro malgrado, sono costretti a fermarsi all'apparenza. Che non è bella. C'è un aspetto di me che, nessun viaggio interiore, nessuna avventura tortuosa nella mia psiche potrà mai cambiare. Questo aspetto si chiama generosità, oppure disponibilità, magari ingenuità. Non serve a mutare lo stato di fatto se non a peggiorarlo. E' dote apprezzata, è segno di grandezza, ma nel contesto sociale (dove vige la legge del più forte) essa si squaglia come neve al sole. E mi lascia nudo, indifeso, chiuso su me stesso, quasi terrorizzato. Ma ora non più solo ironia e autoironia. Anche una buona dose di scemenza, di normalità non possono che darmi una mano.



giovedì 21 novembre 2013

Solo un gioco

N

on so se mi stia venendo naturale o si tratti semplicemente del solito punto di non ritorno; il fatto è che sento di aver preso le misure alla realtà virtuale. E’ cosa non da poco, anzi un passo da gigante considerando che non ho un riscontro nel mondo reale. Continuo ad essere solo, con i miei pensieri quotidiani, le mie divagazioni ma quanto a vita sociale, zero. Se uno ci pensa bene, essersi abituati a questa forma di esistenza significa aver chiuso ogni spiraglio alla possibilità di vivere: siamo animali sociali no? Possiamo pensare di rimanere soli? Anni e anni fa io non me lo sarei mai immaginato. Eppure è capitato e non certo per il mio caratteraccio che ho gentilmente ereditato dalle esperienze maturate negli ultimi anni. Ci si ritrova, punto e basta. Non si hanno colpe per il passato e nemmeno per il presente ed il futuro. Ci si accorge di essere soli e all'improvviso non sai dove andare a parare. A fronte di tutto ciò, il virtuale. Guai fare proclami, guai dire: “ da domani, basta”. Peggio ancora chiudere la porta od urlare che te ne andrai, con la speranza che qualcuno ti trattenga. Mai farlo. Io l’ho fatto nel periodo in cui il virtuale era diventato il mio mondo, la mia casa. Il virtuale è un grande gioco e come tale va vissuto, senza distinzione. Non ci sono uomini o donne, relazioni, parole per cui valga la pena vivere anche un solo attimo di delusione, di rabbia, di rancore. Probabilmente per adeguarmi al gioco ho dovuto compiere (seppur a malincuore) un passo importante: far scendere di qualche gradino nella scala dei valori, le relazioni umane. Non si può pensare di vivere serenamente un contesto superficiale se lo si prende sul serio. Passi farlo con se stessi ma poi, si deve scegliere, selezionare, concentrare la propria attenzione su chi o cosa merita di essere ritenuto degno di rispetto. E così mi sto divertendo, mi piace persino l’idea di dare un’immagine di me che definire goliardica può essere esagerato; però provo a far vincere l’ironia e butto via i pensieri seriosi, quelli di cui mi sono servito per far capire che esistono ancora uomini di un certo calibro. Ma a cosa è servito? E mi diverto anche a sbirciare chi, ancora prende tutto come fosse vita. E gioco, come è giusto che sia. 




lunedì 18 novembre 2013

Rompere il silenzio

E

’ strano aver voglia di scrivere alla fine di una giornata in cui (come spesso accade) il silenzio è l’unica cosa che desideri. Basterebbe poco, lasciar scivolare queste ultime ore e poi, andarsene a dormire. Non è necessario, non c’è una legge che imponga di dire qualcosa di sensato al termine del giorno. La coscienza è pulita, ho fatto il mio dovere sacrosanto dunque, posso andare a letto. E invece mi viene voglia di scrivere, ben sapendo che si tratta del modo più delicato e rispettoso per spezzare il silenzio. Dire qualcosa. Ad esempio vorrei ricordare di come questo anno, malato terminale, abbia portato via tanta gente, lasciando ad ogni perdita una riflessione. E tanta paura, pensieri. Non voglio scrivere un articolo triste. Probabilmente potrei fermarmi qui, era questo il punto su cui avrei voluto spendere due parole. Si è davvero fortunati ad avere certe propensioni come la mia: il dialogo, la voglia di partecipare alla vita attraverso anche una sola considerazione sensata. Non abbiamo occasioni, i giorni spariscono sotto i nostri occhi e non facciamo nulla per impedirlo. So che tentare di dare un senso al quotidiano attraverso riflessioni profonde è dai più considerato una perdita di tempo. Ma non voglio certo tediare nessuno. E come vedete non lo faccio, mi limito ad andare a ruota libera. Sobrietà. Vorrei dire qualcosa al proposito: sto limitando (e senza sofferenza) la pubblica divulgazione dei miei stati emotivi. A che serve diffonderli? E poi, mi sta venendo più che naturale. Non ci sono dubbi, ho abbandonato la mia voglia di protagonismo virtuale e mi sono liberato piacevolmente dell’unico mezzo che mi consentiva di attirare l’attenzione: la solitudine. Questa sera avevo voglia di scrivere solo per convincere me stesso di aver dato un piccolo significato a questa giornata uggiosa. L’ho fatto, sono pienamente soddisfatto e posso andarmene a letto. Ora che la situazione lavorativa sembra essere tornata sui binari della tranquillità, posso tornare ad occuparmi d’altro. Ad esempio? Di quella frenetica attività mentale che mi vede sempre super impegnato a predicare, a lamentarmi, a chiedermi perché. Ora che le giornate torneranno ad essere identiche, troverò sicuramente gli argomenti per arrovellarmi il cervello. Vorrei soltanto un po’ di luce. E riuscire a liberarmi dell’oggi. 



venerdì 15 novembre 2013

Atterraggio morbido

A

quanto pare sono caduto sul morbido. A quanto pare. Uno stravolgimento sul piano professionale, direi non era proprio il caso. La tensione di questi ultimi giorni pare dunque svanita, ma qualcosa ha portato in termini di esperienza: vedi ad esempio il ruolo marginale che, nella mia vita, attribuisco al lavoro. Viaggiare quotidianamente, fare i conti con l'orologio, i ritardi e le privazioni che questo tipo di vita comporta: sono queste le problematiche vere, questi gli argomenti di cui parlare per trovare una soluzione. Il lavoro c'è, questo mi basta. Se poi, mi viene concesso di poter continuare un iter professionale a me congeniale, meglio. E al di fuori di tutto questo ci dovrebbe essere qualcosa di vagamente somigliante alla vita che, nel mio caso non c'è. Almeno nella sostanza. Non mi permetterei mai di non considerare tale la vicinanza della mia famiglia, le tremende preoccupazioni per la salute dei miei. Anche questa è vita. Egoisticamente ( ma forse non è così ), io associo il concetto di vita non alla semplice esistenza quanto alla partecipazione. Io sono spettatore, di quelli costretti ad assistere ad uno spettacolo noioso che si appisolano quasi subito. Eppure la vita noiosa non lo è affatto, ma il mio film è la solita replica. Dunque non posso fare altro di essere felice a mio modo, come quando ricevo un messaggio od una telefonata con cui mi viene manifestata reale gioia nel sapere che sarò ancora dov'ero. Mi faccio voler bene, ne sono capace e non lo nascondo. Poi ho i miei difetti e mi faccio odiare, di un odio buono che lascia gli altri nell'eterno interrogarsi su chi sono veramente, sul perché risulto indecifrabile. Che sia un tenebroso? Scherzi a parte, soffro. Mi spaventa il cambiamento e la ragione è semplice: paura di ricominciare, di dovermi reinventare la vita: sono sintomi di un malessere che non passa mai di cui conosco perfettamente le cause e le soluzioni. Ecco perché questo mio scrivere è ridondante, come se volessi ripetermi cose che ho già pienamente afferrato. Certezze. Non sono eterne, ti danno serenità, forse addirittura gioia, ma ti bastano per essere felice? Cosa vado cercando ancora non lo so; forse non spero accada qualcosa anzi, la mia serenità è qui, in questo momento. Non succede nulla. Che continui così.


 

martedì 12 novembre 2013

Un calcio nel sedere

U

na settimana come tante altre. Il weekend a Milano mi aveva portato il necessario ad affrontarla come sempre, con vigore ed una punta di rassegnazione. Da tre anni mi sono addormentato sul mio posto sicuro, una certezza, qualcosa di miracoloso ai tempi d’oggi. E mi sono dolcemente appisolato nella mia ordinarietà, nel mio barcamenarmi tra le solite scartoffie buttando battute qua e là. Vita. Una settimana apparentemente come tante. Qualcosa stava per spezzare la linea retta dell’elettroencefalogramma piatto. Una domanda, che sembra una proposta oppure è un ordine. Cosa fosse ancora non lo so, e ancora ignoro dove, quella mia risposta tra lo stupefatto e l’incerto, mi porterà. Di sicuro in un luogo diverso da quello nel quale ho vissuto la mia ordinarietà in questi tre anni. Ora, tutto questo incipit per dire che verrò trasferito? Sembra facile. Ditelo ad Enzo, così dolcemente coccolato dalle certezze di un quotidiano esasperante, ma pur sempre sicuro. Ditelo a lui, così sempre capace di legarsi alle persone (poche) dividendo con loro anche qualche momento di intimità di pensiero. Ecco, ora toglieteglielo. E pensate cosa può accadere dentro Enzo. In questi giorni sento tremendamente la mancanza di E. Non la vedo dall’inizio dell’estate e non sono riuscito a mantenere costante la mia presenza in studio. Mi manca, e in questo momento un’ora di sana chiacchierata con lei sono sicuro mi avrebbe rigenerato. In questo momento emotivamente delicato ho scelto di mettere dei paletti e di fare una bella classifica delle cose importanti. Prima fra tutte, la famiglia. Mamma non deve soffrire per come potrà evolvere la situazione. Devo solo cambiare ufficio, è vero. Ma lei carpisce ogni mio battito del cuore, ogni piccolo scompenso e lo legge negli occhi. Al diavolo il lavoro, la priorità è lei, e papà. La priorità assoluta è arrivare a casa stanco e sapere che, mantenendo la calma posso chiacchierare con loro e stare meglio. Che bello, mi piace pensare così. Oggi mi è venuta in mente una frase che sintetizza lo stato di fatto e la sensazione che ne deriva: è come avessi preso un bel calcio nel sedere e mi trovassi in volo; potrei cadere ovunque. Quindi continuo a volare e mentre lo faccio, mi accorgo delle orrende falsità dette, di quanto io continui ad aborrire il genere umano. Dai, sto ancora volando. E se allungo le mani verso il basso, ne sento altre che stringono le mie.





mercoledì 6 novembre 2013

Il mondo addosso

E

’ dura ammetterlo: tu ti ostini a non voler cambiare le cose, ma prima o poi saranno loro a cambiare te. Non amo i luoghi comuni, frasi fatte che non fanno altro che confermare il mio totale immobilismo. Ma niente come questo incipit sintetizza la reale immagine di Enzo, la sua vera natura di uomo incapace di lanciarsi, di prendere decisioni per sé fregandosene delle ripercussioni che potrebbero avere sugli altri. Enzo che alla fine sta bene dove sta, stanziale e sicuro quando trova un luogo che, magari gli va stretto, ma dà un briciolo di certezza. E quando tutto sembra scorrere sul binario della noia, della ripetitività, della consuetudine, ecco arrivare qualcosa, una proposta che sembra un ordine, una nuova occasione di scelta. Ed improvvisamente il mondo mi cade addosso senza che io riesca a spostarmi, d’un tratto vedo svoltare la mia vita verso un nuovo percorso. E forse subisco ancora, forse mi lascio trascinare anche nella nuova avventura, forse mi sento così svuotato di stimoli che la risposta viene naturale: “Si, va bene”. Enzo, se fossi mio figlio ti dedicherei una notte intera a parlare di te, a farmi raccontare cosa ti blocca, cosa ti rende così maledettamente predisposto al sacrificio di te stesso. Ed in nome di cosa. Quell’immobilismo che mi è congeniale fa paura quando sento che potrebbe essere causa di un nuovo errore. Mi sto lasciando trascinare perché, vedete, le cose accadono anche se ti ostini a non volerle fare succedere; ma deve andare così? Sono giunto alla conclusione che qualcuno può lavorare per me, decidere per me. Signori, sto parlando solo di lavoro. Ma tutto è assolutamente trasferibile al campo della vita, dove Enzo è fermo al palo da un'eternità, e sta bene dove sta. Stanziale in un luogo sicuro, protetto. Non sono un uomo maturo, non ho gli attributi. Sono uno di quei pacchi con su scritto “fragile” che durante il trasporto potrebbero cadere, distruggendo il contenuto. L’apparenza ancora una volta, inganna. Corazza fuori, cristallo dentro. Non posso non concludere questo articolo voluto e desiderato più di altri dicendo che non guarirò mai del mio male, che sono appeso ad un filo ed io so bene qual è. Che non posso aspettare che a cadermi addosso non sia il mondo, ma la mia vita. Chissà.




martedì 5 novembre 2013

Camicia di forza

S

pesso i pensieri riescono a trovare una via d’uscita insperata, inattesa, nascosta in chissà quale angolo del cervello. Ed una volta fuori, si disperdono nell’aria. E’ più o meno questa la sensazione che è tornata a trovarmi. Lo fa raramente, purtroppo. I pensieri, i tormenti, le preoccupazioni, i contorcimenti escono a farsi una passeggiata anziché stazionare scomodi, in testa. Ne rimane uno solo e più o meno fa così : “ Oh cacchio, vuoi vedere che ora non ho niente da dire?” “ E come faccio a far sentire che ci sono, che esisto?”. Non ci vuole grande perspicacia nel capire che sono una persona con un grande, disperato bisogno di dialogo, di confronto produttivo; ciò, in piena contraddizione con la mia proverbiale ritrosia ad affacciarmi al mondo. E’ un modo come un altro per combattere la solitudine, non per condividere con qualcuno uno status di insoddisfazione. Ho cercato persone reali e non le ho trovate. E dire che non ambivo a notti brave, ad improbabili ritorni all’adolescenza; volevo far sentire che c’ero, che avevo argomenti, che ero una persona interessante. Ora, come un vecchio pazzo, parlo con questi fogli, spesso mi confido silenziosamente nel buio della mia stanza. Non ho affatto vergogna a dire tutto questo in pubblico. E sarei felice di sapere che, una volta per tutte, qualcuno capisse che non dipende solo dall’approccio, porca miseria. Le favole le ho abbandonate, ora credo a me stesso e alla straordinaria capacità di focalizzare i punti dolenti, sforzandomi di evidenziare soluzioni: inesistenti, a fronte di una valutazione razionale. E non parlatemi del cuore, non ditemi nulla a proposito di ciò che esso muove: interessamento all’altro/a, perseveranza, partecipazione. Sto andando fuori dal seminato. Avevo iniziato dicendo di non avere pensieri e del timore di non “essere”. Ecco, ho recuperato. Questo articolo dice che nonostante tutto ci sono, sempre più confuso, sempre più nevrotico ed ansioso, ma ci sono. Può bastare no? Non mi sto lamentando, non cerco aiuto, dico solo come stanno le cose. Quando capirò che, il non pensare fa anche bene ed il masochismo porta progressivamente alla camicia di forza? 





sabato 2 novembre 2013

Il lottatore

S

abato pomeriggio. Come tanti altri in fotocopia mi fa compagnia il letto, la voglia di dormire per recuperare il sonno accumulato nel corso della settimana. Mi rendo conto di non essere in grado di riposare per timore di passare poi, una notte insonne. Brutta bestia l'ansia. Eppure chiunque fosse entrato nella mia stanza non lo avrebbe detto. I pensieri non vanno in vacanza, non conoscono il fine settimana. Ce ne sono di fissi; da qualche mese mi accompagnano quotidianamente ma preferisco non parlarne ritenendoli profondamente privati. Lascio dunque a questi fogli il compito di raccogliere gli stati d'animo di superficie, in questo Sabato d'autunno, sonnolento, a metà tra il ricordo e la rassegnazione. Cosa vuol dire secondo voi, abbracciare la vita? Non certo starsene a letto sperando di fare qualche ora di sonno, giusto? Cosa vuol dire? Fare un bel sorriso, fregarsene della solitudine ed uscire all'aria aperta? Potrebbe andare bene secondo voi? Vuol dire per caso smetterla di odiare il mondo perché non ha colpe? Potrebbe andare bene? Oppure vuol dire accettare la propria condizione e lasciare che la vita faccia il suo corso? Va bene questa? Perdonatemi, non so cosa significhi abbracciare la vita. Perché, a dispetto di quanto possa sembrare io la vita non solo l'abbraccio, io la vita la mordo, la stringo, la domino. Può un uomo solo (senza amici e senza l'opportunità di crearsene) cavalcare la vita? Voi ci credereste? Io penso che abbracciare la vita sia un gesto ( non me ne vogliano le donne che leggono ) da signorine. Chi ha le palle, la vita non la abbraccia, la prende a testate, cerca di metterla all'angolo. E chi è solo ha due possibilità: abbandonare il ring oppure andare giù di ganci fino alla vittoria finale. Il problema è questo: che tu l'abbracci o la combatta, la vita non ti restituisce mai ciò che cerchi. Non perché sia ingiusta, semplicemente perché è la vita. Non esistono regole primarie, esiste semmai il senso di coscienza e la consapevolezza di aver sempre dato tutto. Che poi ad un certo punto riemerga l'insoddisfazione e la mancanza di stimoli, non è sicuramente per colpa di ciò che rimani lì, spettatore. L'apparenza inganna, ragazzi. Io sono un lottatore.



venerdì 1 novembre 2013

Non me lo ha detto il medico

N

on me lo ha ordinato il medico di scendere in piazza. Nemmeno di farlo permettendo che tutti potessero, gratuitamente, ascoltare ciò che avevo da dire. Non mi ha ordinato neppure di prendermela quando mi sono sentito psicanalizzato, giudicato, spinto ad imboccare la via giusta per redimermi. Non credo mi abbia prescritto poi di farlo promettendomi che sarebbe stata la giusta via per una vita felice. A pensarci bene non mi ha nemmeno indotto ad essere l'esatto contrario di ciò che sono, di vivere un'esistenza forzatamente attiva allo scopo di dimenticare chi sono veramente. Se il mio medico mi avesse imposto trattamenti di questo tipo lo avrei denunciato. Non l'ha fatto e non aveva motivo di farlo visto che, a mettermi nei casini (sempre e comunque) sono bravissimo. Qualcuno (più di uno) non vuole capire. Quando la tristezza la porti dentro, e la porti dentro da sempre, tu sai che non ti abbandonerà mai. Che tu scriva un diario per farlo capire oppure scelga di vivere una vita esageratamente attiva, tu sei e rimani solo. Lo dico con cognizione di causa per il semplice fatto che ricordo assai bene cosa sentivo dentro, a venti o trent’anni. Ho vissuto anch'io momenti magici, di grande condivisione: donne, amici, esagerazioni, spensieratezza. Ma qualcosa mi lasciava un velo di malinconia. Con gli anni, le responsabilità, l'acuirsi della sensibilità, la situazione è degenerata. Un'anima speciale, diversa, non paragonabile ad altre. Che ora viene fuori perentoria, chiudendo all'angolo la vita, la voglia di partecipare, di essere come tutti gli altri. E allora, se come me hai giocato le tue carte, dandoti in pasto al mondo, devi accettare giudizi, analisi, pretese. Ma perché? Non me lo ha ordinato il medico. Ora, è troppo facile esaminare un caso, rebus sic stantibus. Bisogna andare indietro, ed io non ho più voglia di parlare del passato; nemmeno del presente a dire il vero. Dovrei chiudere il blog? Non voglio, ma devo fregarmene totalmente dell'opinione altrui, per quanto finalizzata ad una giusta causa. Impenetrabile: sogno di essere così. Desidero la possibilità di vivere una vita superficiale, senza correre il rischio di dover per forza essere puro, nudo e crudo. Più che di un medico, ho bisogno di un incantesimo.



martedì 29 ottobre 2013

Slanci impossibili

E

’ stato bello il viaggio. Minuti, ore, giorni, mesi forse anni ma, alla fine posso sostenere di essere arrivato ad una conclusione: mi conosco. Temo sia del tutto inutile proseguire, credo che nulla o nessuno sarà in grado di provocare in me azioni e reazioni che ancora non conosco. E a questo punto smetto di fare autocritica. Non era ciò che desideravo? Avere tutto sotto controllo, a cominciare da me. Non c’è più gusto, la mia vita ed il mondo sono di una monotonia inenarrabile; una catena di montaggio l’agire umano, per cui anche gli stimoli vanno a farsi benedire. La piena conoscenza di sé è una conquista se, una volta accettati limiti e difetti, si riesce a non lamentarsene più convivendo con la propria essenza. Mi fa soffrire ma non posso evitarlo, questo è lo slogan cui sono giunto dopo anni e anni di paziente analisi. Non ho mai preso una decisione che mi facesse sentire felice, non ho mai avuto il coraggio di sbattere la porta in faccia a chi mi ha reso triste; non ho mai parlato o agito ma solo pensato, teorizzato. E oggi, a quarantacinque anni suonati, piango di me quando mi ritrovo strizzato come una spugna sul lavoro e poi, una volta a casa a tirare giù rospi per la mia solitudine, per le occasioni mancate. Sono certezze, non posso farci niente. Servono scatti improvvisi, inaspettati, slanci così grandi da superare i muri dell’abitudine, del “tutto sommato, mi sta bene”. Non me la sento. Da quando ho iniziato la mia esperienza Torinese la mia vita è profondamente cambiata. Io sono cambiato. Non provo più alcun sentimento e non si tratta, come credevo (o speravo) di una situazione passeggera. E’ una certezza. Non faccio più entrare nessuno nella mia vita, non sopporto chi si ostina a volerlo fare in modo prevedibile, cercando certezze e rassicurazioni nella persona (io) più sbagliata e meno adatta al caso. Non voglio dare e non pretendo più attenzioni. A che scopo? In nome di cosa dovrei scoprire l’amore o l’affetto? Illusioni, abbagli, miraggi. Nulla di tangibile. Il viaggio è stato persino piacevole giacché niente più del nostro complicato cervello e della nostra tortuosa interiorità, suscita interesse. Forse il viaggio è giunto al termine. Non c’è stimolo nell’altrui conoscenza, nulla che riesca più a stupirmi. Non me la sento.



domenica 27 ottobre 2013

Rabbia

S

i chiama rabbia. Quando ce l’hai dentro, come un cancro divora la parte sana e buona di te, trasformandoti in una bestia affamata sempre alla ricerca di una preda da divorare. E la preda è il mondo. Non so quando si è insinuata in me, come e perché ma è fuor di dubbio che non è mai andata via. Ho paura a cercarne i motivi e so che, trovandoli, me ne vergognerei. Nulla è da ricercare nelle delusioni del passato, nella maledetta voglia di perfezione che porta a pretendere dal mondo indiscutibili certezze. Tutto trova spiegazione nella speciale sensibilità di chi percepisce ogni singola particella dell’altrui essenza, ne elabora condotte e parole per giungere sempre alla stessa conclusione: io sono diverso, io ci sto male. E ad ogni percezione, ad ogni malefica conoscenza, ecco accumularsi la solita dose di rabbia, pronta sempre ad esplodere alla prima buona occasione. Ed è quando sfoghi tutto con le parole, che la senti uscire come lava dal vulcano che scende impetuosa fino a travolgere del suo calore distruttivo, ogni lato della montagna. Senza fare caso a nulla. La rabbia è latente, mai se ne va. E mai giungerò ad una completa guarigione; stare bene (per il sottoscritto) significa avere sempre qualcosa di cui parlare, di cui lamentarsi, qualcosa che poi, non potrà mai chiamarsi perfetto. Mi piacciono gli articoli dai quali traspare un certo equilibrio emotivo; li rileggo e sembra realmente trovarsi di fronte ad un Enzo quasi in pace con se stesso, rassegnato ma tutto sommato, vivo. Sono testimonianza di come lo sforzo di trattenere la rabbia là sotto raggiunge un risultato. Non potrò mai liberarmene e dovrei,o almeno potrei, rischiare di passare per pazzo. Come? Parlare, magari urlare, dire ciò che penso. E poi cancellare, cancellare. Sto male, non posso evitarlo. Non posso evitare il contatto umano, non posso lasciare la rabbia nello sgabuzzino e far finta di nulla. C’è. Cosa può fare Enzo per vivere in pace con il mondo? Oggi ho lasciato che la rabbia uscisse, che come lava bruciasse tutto intorno. Ho sentito il desiderio di andare via da qui, da un posto che non è più il mio; ma poi so che non potrei lasciare la rabbia qui. Lei è viva, vive con me, dentro di me. Provo a raccoglierne un po’ per dire quello che penso ed avere il coraggio di passare per pazzo.



sabato 26 ottobre 2013

In disparte

M

i metto in disparte, appartandomi con quel silenzio costruttivo che è ancora di salvezza durante le tempeste emotive. E così non presto il fianco all’approssimazione delle valutazioni dei più, sempre sconosciuti o quasi. Oltremodo non cado nell'errore fatale di guardare cosa c'è nel giardino del vicino, lasciandomi andare a considerazioni sul verde brillante della sua erba. Di tanto in tanto tiro fuori la testa, parlo a singhiozzo, dico cose che hanno un significato relativo ma so bene che la piazza è il giusto territorio per chi vuol condividere l'effimero. Sono ancora malato di virtuale almeno per quanto concerne la ritualità dei gesti che ha introdotto all'interno del nostro quotidiano. Sbircio ciò che mi interessa, lascio cadere le braghe quando vedo cose di cui inorridisco, affermazioni che sono la negazione di un concetto espresso solo fino a qualche mese fa. Da un certo punto di vista, mi è utile; ho passato e sto passando la mia vita ad analizzarmi e ad osservare gli altri quasi sempre allo scopo di capire se sono il solo a sentirmi un deficiente incapace di intavolare un minimo contatto umano. No, non sono l'unico. Ma c’è chi sta perdendo credibilità oppure ho solo sbagliato io a concedergliela. Non farò nomi e cognomi tuttavia nessuno sembra essersene accorto. Sto in disparte a coccolarmi delle mie giornate super impegnate che, comparate alla vita di alcuni, sono il top della mondanità. Si, lo devo ammettere e non perché mi è stato consigliato di guardare il bicchiere mezzo pieno. Io almeno sono un uomo libero. Altri, si illudono di esserlo. Finta per finta, la mia vita è indubbiamente migliore. Che paura mi può fare l'eterno ripetersi di giornate tutte uguali quando forse ( ma non è nemmeno certo ) dovrei essere io a cambiare tutto? Ma questo blog da tempo non è più un calderone ove immergere paturnie e lamentele; trattasi semplicemente di un diario vero e proprio dove racconto il quotidiano. Non è colpa mia se, solo chi ha il coraggio di fermarsi a conoscere l'uomo, non può fare altro che parlarne male, che descriverlo nei suoi connotati negativi, nella sua predisposizione alla menzogna. Sto in disparte, osservo e non favello. Tanto so che non attiro l'attenzione di nessuno ma, e ne godo, non mi gioco la rispettabilità di uomo.

  


mercoledì 23 ottobre 2013

Cosa resta del giorno

M

ettiamo le cose in chiaro: non posso permettermi di sottovalutare l’importanza di questi ritorni a casa sotto la pioggia. Essi conservano la magia (unica) dell’abbraccio che solo i fortunati come me possono e devono apprezzare. La magia si chiama soprattutto famiglia, calore. E chiariamo, già che ci sono, un’altra cosa: in tempi di crisi, risparmiare sulle parole dà una mano all’economia del quieto vivere. Io non alimento, non butto benzina sul fuoco, mi limito ad usare questi fogli per descrivere la dura realtà. Odio il quieto vivere, eccezion fatta per il lavoro. Se solo volessi però, potrei andare sulla piazza, fare nomi e cognomi e ci sarebbe da divertirsi. Ma quanto poi? Giusto il tempo (forse) di essere…..Come si dice oggi? Ah…Cancellato. No, non godrei abbastanza. Le parole pesano, sono carichi difficili da sopportare se ad ognuna di esse si attribuisce l’unico valore possibile: la verità. Ma quanto vale la pena liberarsi del carico se poi il peso diminuisce mano a mano che quanto diciamo, passa attraverso menti e orecchie indegne. Il calore umano è vitale, anche per le macchine da guerra come il sottoscritto; ma, occorre precisare, il sentimento frena quando si oltrepassa il muro del legame di sangue. Al di là di quello, le parole per me non hanno più né peso, né valore e, nella maggioranza dei casi costituiscono una maledetta musica stonata che solo un colpo ben dato in fronte potrebbe spegnere. Mio malgrado, sono costretto a sentire ( non ad ascoltare) suoni indistinti lungo tutto il giorno. Direte che si deve sopportare e va bene; ma quel giorno è pur sempre la mia vita, cosa ne devo fare? Lo devo buttare? E quel giorno è simile a tanti altri uguali a lui e allora? Devo buttare anche tutti gli altri? Dunque, quanto mi rimarrebbe da vivere in modo qualitativamente accettabile? Nulla. E allora, ben venga il calore familiare, ancor più ben accetta è la gestione parsimoniosa delle parole, ma poi? Rimane giusto un po’ di spazio per la solita rabbia, per le urla (ora sopite) nel vuoto dell’indifferenza. Resta anche un po’ di stupore per la mia ingenuità e quell’egocentrismo che mi porta a credere di essere unico al mondo. Allora vada per l’egocentrico illuso, padrone assoluto del suo universo circondato dal nulla, ma sempre e comunque un uomo vero.



lunedì 21 ottobre 2013

Pane al pane, vino al vino

L

a parola giusta è: “distacco”. Ne devo ancora fare di strada prima di arrivare a sentire indifferenza, il più nobile dei non sentimenti. Io ci sto provando ed è un punto a mio favore, non c’è alcun dubbio. Qualcuno lo troverà assurdo, forse infantile: non è cosa di tutti i giorni intraprendere un percorso di disintossicazione da social networks o piazze virtuali (come meglio vi garba chiamarli); so benissimo di non essere l’unico ad aver cercato rimedio ai propri vuoti esistenziali, alle proprie carenze affettive ed altro nel posto più sbagliato. Ora però mi sono stancato, ho fame di guardare la mia vita (seppur vuota) ma non per questo condannarmi, nell’eterno paragone. Perché, chi sta lì come me e mira al protagonismo virtuale ha sbagliato tutto. Io qui mi posso permettere di dire ciò che voglio sapendo che la codardia impedirà a chi legge di riconoscersi. Questo post vuole essere “pane al pane, vino al vino”. Ad esempio: c’è una cosa di cui faccio sempre molta fatica a liberarmi, ed è l’aver dato in pasto una bella fetta del mio intimo più intimo a persone che ora, se ne sbattono altamente i coglioni. Succede anche nella vita reale, so bene come va. Il maledetto virtuale però inibisce l’onestà intellettuale e, concedetemelo, persino la rabbia motivata da sani scopi. Ed è solo osservando il tutto con progressivo distacco che riesco a mitigare progressivamente quel po’ di astio che mi rimane e che vorrei invece destinare ad obiettivi concreti. Ho sbagliato io, mica loro, so bene anche questo. E già sorrido quando penso che chi leggerà questo articolo, avvertirà una strana sensazione, poi la riporrà immediatamente nelle sue cantine interiori. E’ lo schifo di un piatto in cui ho mangiato ed in cui ora, comincio a sputare dentro. Amo il silenzio di questa mia stanza virtuale, non mi ha mai tradito e puntualmente vengo a ricercarla per raccogliere le idee e mettere ordine tra i pensieri. Non devo piacere a nessuno, non devo farlo per piacere a me stesso. Ma il mio giudizio si ferma qui, continuate a fare finta di nulla. Mi spiace solo avervi dato anche solo per poco tempo qualcosa che non meritavate. Pane al pane, vino al vino.



sabato 19 ottobre 2013

Non sono in svendita

C

'è tanta voglia di privato. Desidero tornare ad averne uno per riporlo in luogo sicuro, lontano da occhi indiscreti e da giudizi affrettati. Non ci vuole molto per riprovare l’ebbrezza di sentirsi uomo riservato, per certi aspetti indecifrabile, in grado magari di generare la curiosità altrui. Che sarebbe di conseguenza, genuina e reale. Ho tanta voglia di imparare dal passato quando, per nostra fortuna, avere una vita privata significava possederla: era unica, inconfondibile, non condivisibile, e vaffanculo al mal comune mezzo gaudio. Vorrei tornare là. Per chi come me si è messo in piazza in modo del tutto indiscriminato, vendendosi a cani e porci, il lavoro di ritorno è complesso, ma non impossibile. Basta spegnere la luce, continuare ad esserci ma al tempo stesso, risultare invisibile, impenetrabile, non più giudicabile. E’ sufficiente smetterla di farsi prendere dall'istinto di dire qualcosa, sapendo (il peccato è lì) che arriverà alle orecchie di qualcuno a caso, che manco sa chi sei. Se generi il problema, lo devi risolvere. Anche questo blog produce guai perché lui è me e viceversa. Ma qui sono un Io più lento, meditabondo, coricato su un letto di pensieri che mi cullano dolcemente. E qui non urlo per arrivare a qualcuno, ma parlo sottovoce. Lancio ignorando chi colpisco e da quel che posso notare, pochi o nessuno si sentono in dovere di dirmi qualcosa. Mi piace. L'integralismo di fondo che permea il mio carattere e la mia predisposizione verso cose e persone è devastante, ma la vittima sono io. Io mi concedo tutto e poi tutto mi nego. Perché non ha senso nemmeno mettere in piazza se stessi e le proprie ancore di salvezza. Il cancro che uccide le personalità più sensibili si chiama condivisione: ma il messaggio che passa è quello del “che bello, siamo tutti insieme e tu invece sei un asociale”. La realtà non cambia nel mondo che si tocca. Qui, conservare il privato significa indossare stupende maschere di convenienza. Mi riesce. Il silenzio su noi stessi non deve avere uno scopo se non quello di ritrovare il rispetto per ciò che siamo e che non è giusto debba essere svenduto nel primo mercato che capita. Ho tanto voglia di privato. Vivrò lo stesso, forse meglio. Iniziamo da qui.

  

 

giovedì 17 ottobre 2013

La prima perturbazione

S

ono solito scrivere ciò che mi detta l'anima. Temo tuttavia di aver trascurato il cuore ed è lui che, arrivati a questo punto, parla. Almeno lo immagino, dal momento che sono giunto al culmine della prima fase (ce ne saranno altre) di turbolenza; potrei scomodare la meteorologia dicendo che sta passando la prima perturbazione. Si, mi piace così. Parla il cuore (perché temo di non poter girare intorno al problema con argomenti razionali) e lo fa ribadendo la condizione difficile in cui mi trovo. Ma non ho altra via di uscita che queste parole, questi fogli. E quando parla il cuore tutto intorno è silenzio. A volte mi chiedo se agli uomini come me sia stato riservato un destino speciale; e non alludo a quello finale bensì a ciò che si è condannati a sopportare durante la nostra esistenza. Ma chi sono gli uomini come me? Quelli che ostinatamente cercano qualcosa che non troveranno mai, perché non sanno neppur loro cos'è. Sono quelli che il mondo è il nemico e loro gli incompresi; sono quelli caduti nella grande trappola del nuovo mondo virtuale e che lì ostentano la loro presenza ottenendo rinforzi di plastica. Gli uomini come me sono quelli che alla fine, cadono sotto il peso della solitudine che essi stessi invocano come ultima frontiera di salvezza. Sono quelli delle contraddizioni, dell'istinto. Del pianto nascosto. Parla il cuore, ora che la perturbazione se ne sta andando e tutto tornerà come prima. Ultimamente non sopporto la condivisione degli stati d'animo estemporanei sulla piazza virtuale; odio quando lo faccio, ma in realtà odio esserci. E poi, sapete: al lavoro mi dicono che sono pessimista ma non possono non notare che indosso all'occorrenza una bellissima maschera sorridente. Mi spiace per loro, non possono guardare, ma solo vedere. Sento molto forte il distacco tra ciò che sono e ciò che appaio ma è del tutto normale al culmine della prima perturbazione. Non posso fare altro che attendere fino a quando tornerò a sopportare senza lamentarmi, senza il bisogno di esternare. Non aspetto nulla, non mi aspetto nulla. Come sempre, volevo solo dire come stanno le cose. Diamo al cuore quel che è del cuore.

 
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martedì 15 ottobre 2013

Tutte le strade portano a me

H

o fatto fatica a trovare l’incipit giusto per questo articolo sebbene fossi decisamente stimolato a dire qualcosa stasera. Avrei voluto parlare della piattezza quotidiana di questi giorni, ma non ci sarebbe stato nulla di nuovo. Oppure delle mie peregrinazioni da pendolare, del lavoro. Nulla di nuovo, niente. Lo sappiamo bene, tutto quello che di nuovo mi concerne, è tutto là nella sfera privata, intima, così intima da non vedersi a occhio nudo. E se la mia vita non ha un filo logico né relazioni, chi e che cosa può penetrare tanto nel profondo da renderla vivibile e sopportabile? Ovvio, io e solo io. Impegnato ad arrovellarmi, a capire, talvolta incapace di venire a capo della complicata natura umana che mi circonda. Oggi ho acquisito una nuova consapevolezza: non sono in grado di reggere le conversazioni di un certo spessore. Non mi piace la conclusione cui sono giunto ma, almeno per quanto concerne le piazze virtuali, mi rendo conto di avere grandi limiti di sopportazione e tolleranza. Ma sono davvero così presuntuoso? Mi credo realmente così saccente? Perché sento fremere le dita ogni volta in cui mi accorgo di non essere capito? Odio la comunicazione virtuale ma ci sono dentro fino al collo. Reggo a fatica le sparate a zero che non sono schermate dalla conoscenza dell’interlocutore lasciandomi basito. Come posso trovarmi ancora qui a parlarne, quando avrei dovuto tagliare di netto da tempo immemore? E’ raro che mi capiti nella vita reale una situazione simile, solo perché non conosco persone in grado di reggere il peso di una conversazione impegnata. In ogni caso, non ce la farei. Sto scuotendo la testa, faccio smorfie strane mentre scrivo tutto questo. Ma vogliamo parlare della presunzione di chi non sa ma non accetta l’umile consiglio di qualcuno esperto? Attenzione, parlo di lavoro. Siamo immersi in un oceano di ignoranza ed arroganza ma non è giusto che ci debbano nuotare tutti, indiscriminatamente. Torniamo alla solita litania: vivere è un’impresa non da poco, ma se proprio devo starti vicino, ascoltarti, leggerti, allora voglio dire la mia; tanto, per quanto mi riguarda io sono io, continuo ad essere io e rimarrò orgogliosamente solo.

 
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sabato 12 ottobre 2013

Di Sabato, di rosso.

P

er qualcuno è la normalità, magari qualcosa di noioso o soporifero. Per altri, come il sottoscritto, si tratterebbe di un'emozione ritrovata, di cui avverto intensamente la mancanza. Gesti che in passato marchiavo come abitudinari, di cui (e non sarebbe stato Enzo) non facevo che lamentarmi. Cambiano i tempi, cambiano le persone, cambiano le esigenze. Ed ora, un tavolo apparecchiato per due ed una bottiglia di rosso, farebbero di questa serata, una serata speciale. Enzo nel frattempo è invecchiato di almeno quindici anni, uno spazio temporale enorme, sufficiente ( in teoria ) a contenere milioni di esperienze. E a cambiare tutto. E se dicessi che non è così? Che è solo teoria? Che Enzo si, è cambiato, diventando un infido selezionatore, un incontentabile cronico, un maledetto rompicoglioni; ma non certo per il cumulo di vita raccolto. Negli ultimi dieci anni io non ho vissuto affatto. Ho annaspato tra le onde delle mie insicurezze, ho respirato a fatica l'aria pesante di un ambiente familiare che, a torto e con il senno di poi, ho considerato opprimente. Ho cercato realmente di vivere lasciandomi però trascinare dalla “sicurezza” del momento anziché tuffarmi nel mare dell'ignoto. Non avevo ( e non ho ) le palle per scegliere, per decidere, per mettere Enzo davanti a tutto. Tutta questa premessa è quanto basta per aver perso il filo del discorso: sono logorroico, chiedo venia. Dicevo, qui e ora vorrei una tavola apparecchiata, un rosso corposo e qualcuno di fronte a me con tutta la pazienza del mondo per ascoltarmi; e a cui far solo sentire che esisto. Mio Dio, ancora con questa richiesta, ancora con il melenso desiderio di condivisione, ancora con questa nenia sull'amicizia. Tutto fuori luogo vero? Tutto fuori tempo? Io vado avanti con le rughe e non posso pretendere che i valori rimangano al mio passo. Vero? E allora fantastico, e penso di essere realmente fuori luogo e fuori tempo massimo; ed è inquadrandomi al di là della cornice di questo mondo così preso da se stesso, tanto oberato nel suo specchiarsi per non riconoscersi mai, così maestro nel predicare razzolando male, che mi ritrovo. Ecco, stasera vorrei ubriacarmi di rosso, per dire le mie verità, tutte o nessuna, chi lo sa. Della serie: momenti che mi mancano e che mancheranno sempre più fino a quando queste dita scriveranno su questi fogli. Ed è Sabato sera.


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