lunedì 29 ottobre 2012

La sentenza

S

ono sereno, e non è cosa da poco, soprattutto alla luce del disastroso weekend appena trascorso. Sono anche fermamente convinto del fatto che ( purtroppo ) il tempo mi darà ragione. Ho sempre sostenuto che la qualità rappresenti un requisito indispensabile per un rapporto stabile e credibile. Ho altresì più volte affermato che, laddove la distanza (unita alla –inevitabile- non presenza ) costituisca tratto essenziale, il tempo è il banco, noi semplici giocatori. Credo sia del tutto inutile affannarsi o gettare l’anima oltre l’ostacolo per convincere noi e gli altri che tutto andrà come vorremmo. Non ritengo di sostenere questa tesi. E contrariamente a quanto si possa pensare, a dar manforte al mio pensiero non è l’esperienza; e dire che avrei molto di più dei tre semplici indizi che formano la prova. A sostenere il mio pensiero è la ragione. Vi sembra un delitto? Torna di moda il cervello, torna spesso nei miei ultimi scritti. Non posso fare a meno di parlarne in un periodo nel quale il cuore si è completamente seccato e le fonti da cui attingere l’acqua ridotte all’osso. Mi preme davvero ricordare che ho un grande rispetto per coloro che provano ancora sentimenti, che credono in una vita migliore, che provano a trasmettere la loro forza d’animo al prossimo. Li rispetto e forse li invidio anche un po’. Premesso questo non posso non guardarmi indietro e guardare al domani e prendere le inevitabili precauzioni. Mi capita dunque che giunto al famoso antipasto, io finisca con il congedare i miei ospiti. Un fare maleducato, che sa di presa per i fondelli. Come faccio a far capire che non è così? Come faccio a spiegare loro che non è tutta opera mia? Beh, non è facile perché è come se io in casa nascondessi qualcosa che loro non possono vedere. Quel qualcosa è la mia vita. Tocca ripetermi: quando lo schermo si spegne, io ritorno ad essere solo. Come faccio a spiegare, come faccio a far capire che non c’è niente di voluto nel mio modo di agire? Quale animo sensibile potrebbe capire cosa sento, calandosi completamente nei miei panni? Ho esaurito gli argomenti. Ho cercato, provato, strenuamente tentato di farlo capire. Mi manca una presenza. Mi manca la pacca sulle spalle, mi manca un bicchiere di vino, mi manca uno sguardo. Mi manca la certezza che il tempo non farà il suo gioco. E se sarò di nuovo qui a dare ragione a lui, il tempo, non voglio più sentirmi dire che sono un razionale egoista che pensa sempre a se stesso. E allora a Lui, l’ardua sentenza.

 
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sabato 27 ottobre 2012

Binario tronco

E

d è quando si spengono le luci sulla settimana di lavoro che si accende un buio accecante sulla mia vita. Era scritto nel destino (un destino buono) che i miei giorni non sarebbero stati giorni qualunque. E come ho già detto, la vita del pendolare, per quanto stressante, è pur sempre una vita a sé. Trovo che ci sia per chi lo sa cogliere, un velo trasparente di novità, nella ripetitività. Le mie giornate sono rumorose, direi a volte fracassone, sono maleducate, spesso malvagie. Ma una cosa di sicuro non manca al mio giorno , e questa cosa è l’uomo. Di ogni sorta, forma, razza, di ogni grado di cultura e civilizzazione. Umani dappertutto: sia fuori che dentro il lavoro. Ed uno che della gente ha già la nausea di suo non può che, giunto al weekend, averne totale ripudio. Quando le luci della settimana sono ancora accese penso spesso al desiderio di silenzio, al mio abatjour, alla mia stanza. Io non ho una vita sociale e, almeno ora ho una giustificazione. Non potrebbe essere diversamente con gli orari che faccio, con la stanchezza che accumulo, con la necessità di fare cose che non hai altro momento per fare. Il buio che desidero è tuttavia accecante ed il silenzio tremendamente rumoroso quando cominci a pensare che poteva andarti peggio ma, santi numi, a qualcosa di meglio ambiresti comunque. L’invidia non è un sentimento che mi appartiene dunque, non sento mai di voler essere chissà dove piuttosto che spaparanzato sul divano con un computer sulle gambe. Dipende molto dalle volte: ieri ad esempio ho imboccato il letto e mi sono raggomitolato come un bambino. Avevo bisogno di protezione e di addormentarmi pensando a qualcosa di positivo, a qualcosa che non fosse: “Ecco, sto perdendo il mio tempo, potrei essere altrove”. Ma dove credo di andare! Il silenzio assordante è quello della mia stanza piena di tante parole scritte e dette e in gran parte cancellate da quel maledetto modo di fare umano che è la superficialità. In questi momenti ragiono di fatalità e di libero arbitrio. Passiamo fasi lunghissime della nostra vita coscienti del fatto che, se davvero rimaniamo inerti nulla cambierà ma, in queste fasi tiriamo in ballo il fato e diciamo “Prima o poi capiterà qualcosa”. Una soluzione comoda per non alzarsi. E quando ci rendiamo conto che rischieremmo davvero di trascorrere una vita senza vita, diciamo: “Ma allora possiamo cambiare le cose!”. Ecco, tutti bei discorsi che muoiono come un binario tronco perché ( e lo ripeterò alla nausea ) là fuori non c’è nessuno. E’ bello parlare, riflettere, teorizzare. Ma se ti prende il crampo allo stomaco, ti fiondi nel letto e ti raggomitoli in posizione fetale beh, mi sa che tra il dire e il fare c’è di mezzo un oceano.

 
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giovedì 25 ottobre 2012

Il ragioniere

I

miei viaggi verso e da Torino rappresentano l’archetipo del concetto di abitudine. Gesti meccanici, ripetitivi, movimenti comandati. Le facce stanche, il suono delle porte che si chiudono. Metropolitana, treno, scale mobili e tornelli, qualcuno che si apposta per bruciare tutti sul tempo e accaparrarsi il posto migliore. E poi lo sguardo all’orologio, i palazzi ( sempre gli stessi ), i portici, gli stessi bar. Da quando anch’io partecipo al grande circo dei pendolari, ho fatto miei un incredibile numero di gesti magicamente e perfettamente scanditi dal tempo inesorabile; detta regole e non si sfugge. Quando la metro raggiunge la fermata XVIII dicembre, con scatto felino imbocco la scala mobile e con lo sguardo rivolto alla stessa fetta di cielo di sempre, mi appresto a compiere l’ultimo tratto di percorso verso il luogo di lavoro. Ho scelto di farlo a piedi, di attraversare i portici di Piazza Statuto e la via Garibaldi. In questo frangente di tempo (non più di dieci-quindici minuti) a volte mi capita anche di pensare. Come stamattina, ed ecco qui il mio post. Avrei voluto iniziarlo così: “ Non è poi vero che il mondo là fuori è il male in assoluto”. Non è vero e non è vero che come tale lo si debba combattere strenuamente fino a rimanere gli ultimi sopravvissuti. E’ invece piacevole constatare che una buona parte di persone che entra nella tua vita, dà un contributo più o meno consistente al rafforzamento o alla caduta delle tue più ferme convinzioni. Un’idea me la sono fatta e chi mi legge sa bene come la penso. Secondo la mia personale opinione il giusto compromesso tra disponibilità e rispetto per se stessi sta nel concetto di utilità; che pare brutto se posto in relazione ad un sentimento come dovrebbe essere ( e non è ) l’amicizia. Ma in fondo chiunque si incontri sul nostro cammino, inconsapevolmente ci dà una mano a capire. Il nostro pregresso è ciò che siamo ora e poco conta se siamo diventati un certo qual Enzo, o chi per esso. E come tali andiamo accettati. Se ci siamo fatti un’idea malvagia dell’uomo non è colpa nostra. Possiamo dunque accogliere, tenendo conto del fine precipuo di non cadere nell’errore. Aprirsi significa abbandonare un insegnamento e provare a trasgredire. C’è chi, come me, fa dell’esperienza un’insegnante tanto intransigente quanto giusta. Dunque, se appaio freddo è perché studio. Studio e cerco di misurare rischi e benefici. La vita non è un libro di computisteria, lo so. Ma chi mi è amico sa che per scardinarmi ci vuole pazienza. Sono onesto, metto le mani avanti. Forza Enzo, sei un grande. Nessuno ha il diritto di farti soffrire ancora.

 
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lunedì 22 ottobre 2012

Ultimo chilometro

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iconosco che negli ultimi tempi sto raschiando il fondo del barile. Ci vuole un po’ di coraggio, perché solo armandosi di zappa virtuale e scavando a più non posso riusciamo a specchiarci per bene nelle nostre paure. Se poi crediamo di aver fatto molto, armiamoci di un’altra dose di coraggio e proviamo a vincerle. Chi si ferma, è uomo. Chi prova ad andare avanti probabilmente punta in alto e si imbatte nel rischio di possibili, inevitabili, delusioni. So di essere uomo coraggioso fino a che si tratta di andare a fondo. E’ come se riuscissi a toccarmi il cuore, provocando un dolore che sopporto stoicamente. E ‘ come se inquadrassi da vicino l’anima e riuscissi ad individuare di ogni ferita, il percorso che l’ha provocata. Ma io mi fermo qui, perché non ho il coraggio di andare avanti. Non sono vigliacco, semplicemente sono un incompiuto. Per recuperare il coraggio di cui ho bisogno dovrei cominciare a credere in qualcuno, in qualcosa. Secondo alcuni dovrei invece cominciare a credere in me stesso. Da dove nasce, da cosa è provocata questa smania di zappare fino a sentire la terra dura sotto i piedi? Sapete bene che non sono particolarmente avvezzo ai rapporti umani non solo per una generale diffidenza, quanto per l’incapacità di curarmene e di dedicarci un po’ del mio tempo. Le persone con le quali riesco a mantenere rapporti decenti da qualche anno a questa parte sono anche quelle che, armate di santa pazienza, hanno deciso di accettarmi come sono. Difetti, e qualche pregio. E di queste persone non ho più paura perché il tempo mi è stato amico. Seppur dovendo attraversare il mare agitato delle mie insicurezze, ho trovato in loro un lido di quasi pace. Ben diverso è ciò che accade quando si prospetta l’inizio di un nuovo rapporto, quando qualcuno cerca di entrare nella mia vita. Che lo faccia in punta di piedi o spalancando la porta con la forza, non cambia nulla. Io ho paura. E non ho coraggio a sufficienza per vincerla. Non è la prima volta che mi capita nella vita, mi manca la forza di spirito che accompagna il ciclista a spingere sui pedali nell’ultimo chilometro. E mettiamoci anche quel meccanismo di autodifesa che è del tutto umano e comprensibile. A questo punto posso scegliere di essere un uomo qualunque. Per uno che parla sempre di perfezione, un po’ contraddittorio no? Oppure posso lasciare la porta aperta e non perdermi di vista. Oppure posso lasciarmi voler bene e provare anch’io a farlo. E mentre scrivo tutto questo lo stomaco si contrae, è il segnale di allerta. Non posso andare avanti così, almeno per ora.

 
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domenica 21 ottobre 2012

Un puntino

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a vera solitudine non è quella delle sere infinite, delle luci soffuse per attenuare il riverbero dello schermo. Non è neppure quella dei viaggi eterni alla ricerca di quello che non ho e non voglio avere. La solitudine non è fisica e non ha nulla a che vedere con il mondo che mi circonda. Nessuno sa e probabilmente potrà mai sapere cosa provo quando fermo il tempo. Si lui, il tempo; quello che quotidianamente mi spinge fino a travolgermi , come un’onda anomala risucchia la nave ormai abbandonata a se stessa. Nessuno lo sa perché nessuno è Enzo, nessuno lo può capire perché Enzo stesso non lo capisce. Le sensazioni e i sentimenti, a volte, durano attimi, frazioni di secondo , esprimendosi nella totale immobilità del corpo e della mente. Uno sguardo fisso nel vuoto, un gesto meccanico delle dita che schiacciano in sequenza gli stessi tasti. Non ci sono palliativi per un’anima malata. Non esistono rimedi per un cuore che da tempo ha smesso di appassionarsi. Eppure, incredibile a dirsi, io mi ritengo fortunato. Riempire questi fogli di paturnie, non lo nego, significa spesso avere molto tempo a disposizione: per pensarle e per scriverle. Lo stesso tempo che, secondo molti, potrebbe essere sfruttato in maniera migliore. Come dar loro torto. Come contraddire il pensiero di chi si limita a vedere e non a guardare, a sentire e non ascoltare. Loro che possono fare di più? Loro. Non è vero che sono stanco di tutto, altrimenti avrei già mollato tutto. A partire da questa farsa della necessità di qualcosa che non esiste, che non so nemmeno io cosa sia; avrei chiuso con il mondo parallelo, con la perenne ricerca di conferme per colmare un vuoto esistenziale. E allora, statene certi, avrei cominciato a vivere. Si, vivere. Questo mondo parallelo non ha colpe, ne lui tantomeno i suoi protagonisti. Questo mondo parallelo è imperfetto, è monco. Ecco cosa accade quando fermo il tempo, o meglio, quando il tempo ferma me e mi spinge a queste considerazioni. E’ come se tutto ritornasse ad avere un suo perché, una sua dimensione che sfugge ed è invisibile quando le giornate sono piene di lavoro. Quando i sentimenti si fermano e dettano gesti ripetitivi delle dita sui tasti, movimenti impercettibili degli occhi che guardano il soffitto, ecco allora che riscopro me stesso nella condizione di un misero puntino in mezzo ad altri ignobili puntini. Non cerco più conferme, non ho bisogno di questo. Ho bisogno di capire che ci sto a fare qui.

 
solitudine

sabato 20 ottobre 2012

Il beneficio del dubbio

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ono un razionale integralista dunque amo ciò che ha un senso logico. Pretendere l’impossibile equivale ad agognare la perfezione e là dove c’è perfezione non esiste l’uomo. Questo è certo, ma io sono un uomo ed ho paura di esserlo perché non accetto il fatto di essere fallibile. In modo particolare sono poco incline ad accettare le tipiche debolezze umane fatte di momenti di evasione sentimentale. Il mondo virtuale ha sciolto le briglie a milioni di persone come me, timide, introverse, che fanno fatica a manifestare i loro sentimenti. Lo ha fatto senza precauzione alcuna generando una massa indistinta di persone mascherate da portatore sano di affetto. Per uno come me, trovarmi a contatto con questo tipo di persone ha provocato un’accentuazione della diffidenza ( e dell’indifferenza ) verso il genere umano. Non voglio fare processi, non voglio nuovamente giudicare il mezzo, anche la realtà di tutti i giorni sappiamo quanto sia capace di deluderci. Il beneficio del dubbio però me lo dovete concedere. E, di fronte a chi ti dice “Ti voglio bene” rimango inizialmente piuttosto freddo, impassibile, e anche un tantino imbarazzato. Si torna al solito discorso delle parole pronunciate senza pensarne il significato, oppure siamo di fronte ad un vero sentimento? Non lo possiamo dire perché non è importante sentirselo dire, ma è fondamentale che ti venga dimostrato. E per questo ci vuole tempo. Probabilmente non ha un senso chiedersi o chiedere “perché” qualcuno si sbilanci in cotanta manifestazione d’affetto, pur conoscendoti a mala pena. Occorrerebbe conoscere il suo pregresso. Non è giusto che qualcuno paghi per tutti, essere capro espiatorio della mia personale vendetta non piacerebbe a nessuno e mi allontanerebbe da tutti. Tutto nasce dal fatto che non riesco ad accettare che mi si voglia bene per il solo fatto di essere me stesso. O almeno, per il solo fatto di essere Io, ora. Perché la macchina virtuale non potrà mai riuscire a cogliere le sfumature, i piccoli mutamenti che intervengono all’interno del nostro mondo e che ci fanno essere uno e tanti. Tutto è in parte frutto di un pregresso, di una situazione contingente, dell’essere lì in quel momento, entrambi. Ma manca un bel pezzo di noi. Internet è il luogo peggiore per chi è in cerca di spiegazioni, per chi è in cerca di sentimento, per chi non ha maschere. Sono sicuro che susciterò la rabbia o per meglio dire, lo stupore di chi sta provando a convincermi che posso essere una persona e non un blocco di ghiaccio; e che nonostante i miei continui “perché”, non potrò impedire agli altri di provare qualcosa. Non credo di essere cambiato, credo di vivere circondato da un mondo che si limita ad apparire. Mi sia concesso il beneficio del dubbio.

 
 
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martedì 16 ottobre 2012

Silenzio costruttivo

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ino ad alcuni mesi fa portavo sempre con me il pc durante i miei viaggi in direzione di Torino e ritorno. Ogni giorno riuscivo a trovare l’ispirazione per scrivere qualcosa, si trattasse del solito contorcimento mentale o degli aneddoti legati alla vita quotidiana. Ho in parte perso questa abitudine principalmente per l’eccessivo peso da portarmi nella borsa. Poca roba, direte voi. Avete anche ragione, se mi conosco bene ho sempre qualcosa da dire, e quel qualcosa è sempre finalizzato a farmi stare bene. Stamattina, come già ieri, ho infilato il pc nella valigetta e ho pensato per qualche minuto a cosa avrei potuto dedicare un post. Le possibilità sono due: scatta l’insano meccanismo di autodistruzione e comincio a cercare attraverso l’autoanalisi argomenti di dissertazione oppure, aspetto che sia il mondo esterno a darmi un suggerimento. Oggi si è verificata la seconda delle ipotesi. Chi pensa che la vita in ufficio sia monotona, (ancor più quella di un pubblico dipendente), sbaglia. Non è sempre così, provare per credere. A malincuore però mi tocca prendere spunto da alcuni eventi lavorativi per dissertare in materia di parole. La domanda che continuo a pormi è sempre la stessa: quanto contano le parole, quanto valore diamo alle frasi che pronunciamo; pensiamo a quello che diciamo, ci rendiamo conto che possiamo illudere o ferire qualcuno? Io sono diventato sostenitore dei silenzi costruttivi, di quelli che ti preservano da figuracce a posteriori o dal classico boomerang che ti colpisce in testa. Cosa serve dire certe cose in certe situazioni? Perché lo facciamo? Ne ho già parlato e mi ritrovo qui a riparlarne perché non posso non notare l’incapacità di molti a mantenere il silenzio costruttivo. Faccio un esempio: se io so di essermi comportato con qualcuno in modo un po’ incoerente, se so di avere esagerato nel prospettare qualcosa promettendo situazioni future magari difficili da configurarsi, come faccio ad evitare che mi arrivi un boomerang dritto tra capo e collo? Il prossimo passo, io penso, è il silenzio costruttivo. Mi è anche capitato che qualcuno avesse abbondantemente esagerato nell’uso di alcuni termini ( penso ad “amicizia” ). Me ne ero reso conto e avevo fatto presente che non sarebbe stato il caso di lasciarsi andare a valutazioni che si sarebbero potute dimostrare un flop. Niente da fare. Nonostante io abbia avuto riprove delle mie esatte previsioni, anziché mostrare un bel silenzio costruttivo, questi soggetti hanno ripreso a contattarmi. Perché dico io? Manca, a mio parere, l’esatta percezione dell’interlocutore come persona intelligente e dotata di sensibilità. Peggio ancora quando le prospettive generate attraverso le parole si rivelano completamente sbagliate ed il boomerang è già partito in direzione di chi lo ha lanciato. Sono esterrefatto. Senso di delusione cui si unisce una sorta di rassegnazione. Parliamo, spesso non sappiamo quello che diciamo e meno che mai abbiamo idea delle conseguenze. E i fatti? Dove li mettiamo i fatti? Esistono delle vittime predestinate; mi sento ricoperto da una montagna di parole senza senso cui rispondo con un silenzio costruttivo. Che ai più passa per accettazione rassegnata ma in realtà è totale disprezzo. Parlate meno, piuttosto scrivete, probabilmente vi aiuterà a riflettere.

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domenica 14 ottobre 2012

Conclusioni

I

o non ho una vita sociale e, fondamentalmente, non me ne frega nulla. Non lo dico tanto per dire, ho lottato contro i mulini a vento per anni, ora posso tranquillamente tirare un sospiro di sollievo ed accettare la mia condizione. Ieri ho provato a fare un po’ di chiarezza cercando di focalizzare l’attenzione sulle ragioni del mio ormai patologico male di vivere. Ho tirato fuori alcune tessere che si incastrano perfettamente fino a formare la mia attuale immagine. Autostima. Cominciamo da qui: mi crea non pochi problemi a livello lavorativo dove mi ritrovo ( troppo spesso ) in competizione con me stesso e con gli altri. L’intransigenza del maestro Enzo è arcinota. Diversa la musica dopo le quattro del pomeriggio. La vita al di fuori dell’ufficio non richiede dimostrazione di chissà quali capacità tecniche, c’è solo bisogno di saper vivere. Da tempo ormai, vivo la vita su due piani paralleli. Quando chiudo la porta dietro di me, sento improvvisamente il mio ego crescere a dismisura. Comincio a pensare alla mia solitudine, ai miei giorni fatti dai nulla e di noiose abitudini, rifletto su come sia possibile che interi weekend scorrano via senza il minimo sussulto e senza alcuna lamentela da parte mia. Mi sento superiore, ecco perché. Non mi è difficile analizzarmi e, come non ho paura ad evidenziare i limiti, mi vanto con orgoglio delle qualità. Sono una persona profonda, rido quando serve, faccio fatica a reggere situazioni forzatamente divertenti. E allora? Sono vecchio? Oppure pochi riescono a reggere il confronto? Mi sto adeguando ai tempi. Sappiamo che sentirsi diversi dalla massa allontana gli altri ma ancor più, ti allontana. Potrei fare le solite migliaia di giri di parole intorno all’argomento relazioni sociali, e giungerei sempre alle solite conclusioni. Non mi vanto della mia solitudine, non nascondo che sia terapeutica, ma credetemi, se non hai fisicamente qualcuno con cui parlare è dura. Non ho alcun bisogno di frasi rassicuranti che arrivano da lontano. Autostima, solitudine, razionalità portata agli estremi: sono questi gli ingredienti che fanno di me un uomo apprezzato, stimato, ma completamente solo. Sarei ipocrita se non rivolgessi un pensiero alla mia famiglia, ai miei genitori. Qualcuno sarebbe portato a pensare che averli ancora, mamma e papà, non mi autorizzi affatto a parlare di solitudine. Non è vero, e lo sapete. Ci si può sentire soli in mezzo a migliaia di persone. Continuo a sentirmi ripetere che devo guardare il bello che è in me, che sono una persona d’oro. Ecco, l’ho fatto. E adesso? Ditemelo voi.

sabato 13 ottobre 2012

Stato di necessità

D

a tempo mi sto impegnando affinché si presenti l’occasione giusta per dimostrare a me stesso che sono cambiato. Sforzi profusi inutilmente. Guai, in questi casi, dare la colpa al destino; ogni giorno che viviamo di fatto è un’occasione per metterci alla prova. Ma forse non ce ne accorgiamo; spesso infatti, il vivere quotidiano è percepito come noioso, ripetitivo, pedissequo. Ci vuole sempre l’evento, la situazione tipo, quel qualcosa che colpisce la noce del capocollo, a rivelare finalmente di che pasta siamo fatti. Io aspetto questo. Attenzione, non voglio fare l’uccello del malaugurio, nessun evento calamitoso o foriero di disgrazie; mi serve uno “stato di necessità”. Sono ancora imprigionato nella gabbia ormai arrugginita dei miei limiti caratteriali più penetranti: disponibilità, altruismo, senso di inadeguatezza, mancata percezione dell’Io come obiettivo finale delle proprie azioni. E sappiamo bene tutti che, pur non sussistendo alcuna regola precostituita inerente al “vivere bene”, ve ne sono molte che ognuno di noi dovrebbe imparare a memoria. Mi riferisco a tutti quei piccoli aspetti del nostro essere che, se opportunamente modellati, permettono di percepire ciò che ci circonda in modo sopportabile. Prendiamo il lavoro. Il lavoro si sopporta, appunto. Lo si deve fare. Anche i colleghi spesso si sopportano. Ha dunque senso dedicare anima e corpo affinché la serenità interiore trionfi all’interno delle quattro mura dell’ufficio? No di certo. Non ho bisogno di sentirmi bene sul lavoro. O forse si. Quel che per altri però è assolutamente istinto di sopravvivenza per me è ostinato desiderio di perfezione ovunque io sia, qualunque cosa faccia. Eccola lì, la ragione. Perfezionismo: nel lavoro, nella vita, sempre. Bisogna dare e raggiungere il massimo pena, la fustigazione morale ed un senso di colpa lancinante che non mi abbandonerà mai. Prendo tutto sul serio, non sorrido mai , eccetto quelle poche volte in cui riesco a stimare qualcuno a tal punto da apprezzarne il lato impegnato e quello comico. So di non essere più fatto per le relazioni, mi manca l’aria. Cosa sono diventato? E qual è l’occasione di cui parlavo all’inizio? Vorrei cominciare a decidere per me. E se non trovo quel che cerco allora continuerò nella mia attività preferita: cercare ciò che non voglio, questo mi riesce benissimo.

 
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lunedì 1 ottobre 2012

Obiettivi di Novembre

Capita frequentemente di perdere contatto con se stessi, si smarrisce il senso dell’orientamento perdendo di vista gli obiettivi primari. I nostri. L’aggettivo possessivo in questo caso andrebbe sottolineato con una doppia riga. E’ una lezione che facciamo fatica ad imparare perché questo pazzo mondo ci obbliga a porci in relazione con il prossimo. Ma chi è questo benedetto prossimo? Cosa vuole da noi? Cosa ci dà in cambio? Se prendiamo fregature oppure veniamo in qualche modo delusi, tiriamo in ballo il fatto di non aver pensato abbastanza alle nostre priorità, ai nostri obiettivi. Se poi decidiamo di ricominciare da noi, veniamo tacciati di egoismo. Me lo dite voi qual è la strada giusta da percorrere? In una fase della mia vita in cui finalmente posso dire di aver raggiunto il massimo livello di autostima, non intendo mandare tutto all’aria, riducendomi ad elemosinare la presenza di qualcuno. Una delle mie più grandi contraddizioni sta proprio nel cercare qualcosa facendolo però, nel posto sbagliato. Non voglio arrivare a dire che la distanza annienta i rapporti, ma fisiologicamente non li può mantenere vivi. L’ossigeno è, per me, ( lo sto ripetendo alla nausea ), la presenza. Cerco qualcosa nel posto sbagliato e finisco col chiedermi perché io lo faccia. Il weekend appena trascorso rappresenta l’archetipo dell’alienazione fisica e mentale di un uomo. Se sto usando il mezzo sbagliato me ne devo rendere conto e per farlo ho bisogno di avere chiari, quelli che sono i miei obiettivi. A volte finisco con l’odiare la sola visione di foto e immagini di persone che ridono, si divertono, esaltano in maniera fin troppo vistosa il loro essere felici ( ma lo saranno poi davvero?). Colpa dei social network che amplificano tutto, colpa di un personale sentimento di invidia che ancora non riesco ad abbandonare. Insomma qui è il caso di prendere un attimo coscienza dei propri mezzi e delle proprie possibilità. E io ne ho tanti, tantissimi. Perché mai dovrei provare a volare sapendo che le ali si scioglierebbero al primo raggio di sole. L’obiettivo è? Ecco, appunto, l’obiettivo, dov’è? O devo eternamente viaggiare alla giornata sperando che tutto cambi? Non voglio ferire nessuno, ma so che chi è dotato di buon senso sa cosa voglio dire: ringrazio di cuore chi mi vuole aiutare con le parole e gli incoraggiamenti. Vi voglio bene. Ma a me non basta. Chi ascolta i miei singoli battiti? Chi può star dietro alle miei occhi fissi sul soffitto di una domenica di Novembre? Nessuno. Nessuno può. Ma grazie, vi voglio bene lo stesso.

 

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