giovedì 27 dicembre 2012

Alla prossima

C

redo sarà il mio ultimo post dell’anno. Ho dato molto in questo Dicembre ma ne ho avuto ben donde; è dunque giunto il momento di chiudere il mio diario 2012. Non è stato bello questo ultimo mese: ho pianto, ho mandato all’aria alcuni progetti, mi sono sentito più solo che mai. Ho scritto tanto, mi ha aiutato a smaltire rabbia, solitudine, depressione, insofferenza. Grazie a questi fogli ho tirato fuori tutto come sempre, forse alcune volte ho persino aggravato la situazione andando a scavare oltremisura. Ma è l’istinto che mi porta qui. C’è chi telefona all’amico fidato, chi scambia due chiacchiere davanti ad una birra. Io parto in quarta, mi siedo e via, scrivo. Ho scelto di non fare auguri di Natale perché non lo sentivo nelle mie corde, lo stesso sarà per il nuovo anno che viene. In questo caso tutto nasce da una sana invidia che proverò mentre molti sorrideranno all’arrivo del nuovo anno mentre io, quatto quatto, me ne andrò a dormire. C’è sempre una prima volta per tutto. Ed è la mia “prima” in occasione del capodanno. Non lo nascondo e non lo nego: mi dispiace, vorrei essere altrove, vorrei avere un’altra testa, drogarmi d’istinto, ubriacarmi di vita. Non è così. Arrivo alla fine di quest’anno spompato emotivamente e di motivazioni. A dire il vero non me lo aspettavo, sapete? Ma me la sono cercata, me la sono voluta, la devo piantare, non ho diritto di lamentarmi. Lungo tutto questo anno ho criticato fortemente le amicizie virtuali, le ho tacciate di superficialità, di inutilità, di scarsa partecipazione nei momenti topici. Ho sempre dimenticato una cosa fondamentale: ad ogni amico virtuale corrisponde una vita reale. Io non sono un buon amico virtuale perché, ancor prima non sono un buon amico reale. Se vivi una vita degna di essere vissuta puoi permetterti di arricchire il tuo mondo con chi ti vuole bene da lontano. In caso contrario, pur essendo potenzialmente in grado di dare, tieni tutto per te. Quel che hai lo sprechi nel cercare di dare un senso alla vita reale. Penserò a molte persone quando varcheremo la soglia del nuovo anno. Penserò a chi riderà, a chi mi sono illuso potesse capirmi ma solo perché forse speravo vivesse la mia stessa condizione. E’ triste giungere a conclusioni di questo tipo: l’egoismo porta a desiderare che gli altri stiano esattamente come te. Sono cattivo. E’ il mio ultimo articolo. Auguro a questi fogli di potersi sempre riempire di cose belle. Un grazie di cuore a tutti i miei amici e lettori, siete insostituibili. Alla prossima, ci rivediamo nel 2013.

 
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mercoledì 26 dicembre 2012

“6 politico”

N

atale indenne, ora si punta al 2 Gennaio. Ci dormirò su e in men che non si dica sarà primavera. Uso l’ironia che torna sempre utile nei momenti bui oltre ad essere un ottimo antidoto per scacciare la rabbia preponderante quando la finzione viene portata all’esasperazione. Lo stato di calma apparente di questi giorni a casa ha persino portato una strana vena di romanticismo. Ho cominciato ad ascoltare canzoni melodiche. Triste no? Voi direte, sempre meglio che disperarsi o strapparsi i capelli che non ho. Si. Ricordo il pianto dirompente di non più di dieci giorni fa; mi resi conto che quelle lacrime avrebbero mitigato il mio astio per il Natale. Ora sembra tutto più semplice. Si tratta di superare lo scoglio del 31 Dicembre che per la prima volta, trascorrerò a casa come una qualsiasi serata dell’anno: la normale conclusione di un processo in parte voluto, in parte cercato. Vietato lamentarsi, opportuno cercare di isolare la mente ed il cuore dal resto del mondo almeno per qualche altro giorno ancora. Poi riprenderò la mia vita di sempre, i miei orari impazziti, le mie salite e discese, il mio inopinato tentativo di dare un senso alle poche ore di libertà, i miei fine settimana occhi in sù, a fissare il solito punto. Ci sono momenti in cui i nuvoloni grigi nel cervello lasciano intravedere uno sprazzo di sole. Distolgo l’attenzione dal quotidiano, da ciò che ho e non ho ora per immaginare possibili scenari di cambiamento. E mi prende il crampo allo stomaco perché realizzo che tutto o quasi potrebbe dipendere da me. Mi impegnerò a vivere in modo superficiale? Farò del mio meglio per considerare il prossimo come amico? “Signora, suo figlio è intelligente, ma non si applica”. Che bei ricordi. Non ero e non sono ambizioso. Il compitino bastava e avanzava allora, può bastare anche oggi. Perché a scuola c’era qualcuno che bene o male ti giudicava; oggi, il maestro sei tu e solo tu puoi darti un voto. Ho un rendimento altalenante, spesso e volentieri sbaglio e non imparo. Uso la penna rossa in continuazione, sottolineo con forza gli errori. Ma alla fine mi dò un bel 6. In occasione del prossimo compito in classe dovrei fare meno calcoli e studiare. Devo tornare sui libri, mamma mia è il mio incubo ricorrente! Ma non avevo appena finito di dire che mi lascerò trascinare dagli eventi? Devo probabilmente arrivare ad odiarmi, a bocciarmi. Me ne andrò da me stesso e vivrò.

 
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martedì 25 dicembre 2012

Scarabocchi

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a felicità come la tristezza, non sono altro che momenti di straordinaria intensità emotiva di cui ignoriamo ( nostro malgrado) tempi e luoghi. Lo chiamiamo fato. Ne sono un accanito sostenitore, supporto la tesi secondo la quale è opportuno lasciarsi guidare dal destino piuttosto che cercare di combatterlo ad armi impari. Sto viaggiando scomodamente all’interno della mia personale barchetta chiamata destino da più di quarantaquattro anni non azzardandomi (quasi mai) a cambiarne la direzione. Che motivo avrei avuto di farlo quando nel fiore della gioventù il fato disegnava per me, forme dalle linee perfette? Sono sempre stato masochista fin da ragazzo ma, a darmi il giusto supporto in quegli anni era l’istinto, la voglia di vivere. Con il passare del tempo, il passo è diventato lento e la schiena per quanto forte ed allenata in palestra, si è curvata sotto il fardello delle esperienze. La nostra percezione del mondo cambia in modo strano. Abbiamo l’impressione che quelle forme perfette di un tempo siano ora scarabocchi incomprensibili di cui dovremmo rifiutarci di dare un’interpretazione. Se ce ne fregassimo, vivremmo come la maggior parte di coloro che definiamo: “fortunati”. Non so se chiamarlo masochismo, innata ambizione, irrazionale desiderio di chiarezza ma, nel pieno dei miei quaranta io mi sforzo di interpretare lo scarabocchio e non ne esco. Basterebbe pensare che quei momenti di straordinaria intensità ( felici o tristi che siano ) sono semplici scosse di cui spesso non abbiamo nemmeno la completa percezione. Domani è un altro giorno. Perché crucciarsi? Ecco che poi un giorno, una sera particolare, ti accorgi di quella forza devastante. Quell’ attimo è lì con te, ti strattona, ti possiede. Capisci che non è lì per caso; è frutto del percorso che tu stesso avevi tracciato: improvvisamente però, il baratro. Cerchi di scacciare quell’istante, lo spingi, lo cacci via. Pensi a domani, prometti a te stesso di non fidarti più delle tue azioni, di lasciare che il destino riprenda a spingerti dove vuole. Non penso smetterò mai di interpretare gli scarabocchi. Soffrirò per questo, lascerò che per colpa della mia ostinazione io viva momenti di totale infelicità. Farò leva sull’idea che la vita è un soffio e che anche la felicità potrebbe strattonarmi da un momento all’altro. Credetemi, me ne accorgerò.

 
Scarabocchi

lunedì 24 dicembre 2012

Un giorno (quasi) normale

C

he voglia di scrivere anche alla vigilia di Natale; che voglia di pensare, soprattutto. Ma non si dice che proprio a Natale dobbiamo fermarci a riflettere? Dobbiamo concentrarci sui problemi del mondo? Ma cosa mai vorrà dire tutto questo? Ci pensiamo nel senso che per un attimo, ma non più di questo, smettiamo di curare le nostre priorità, i nostri tempi stretti e cosa facciamo? Ma vogliamo scendere ancora più in basso, nei sotterranei del cervello dove regna la retorica e dire che dovrebbe essere Natale tutto l’anno? Senza poi alcun timore di smentita posso affermare che nessuno di noi (o quasi) distoglierà lo sguardo dal proprio piccolo mondo fatto di tutto e di niente per il solo fatto di dover pensare ad altro che non lo riguarda. Guardate me. Io per certi versi sono l’archetipo della retorica spicciola. Dico cose scontate, trito e ritrito concetti vecchi come il mondo, mi ostino a voler cambiare me ed il mondo ma, sono il primo a razzolare molto male. E da buon coerente egoista, approfitto di questa vigilia per fare ciò che faccio tutto l’anno, ovvero pensare e, quando mi riesce, scrivere. Ho sempre dedicato ben poche delle mie riflessioni a ciò che mi circonda. I dintorni che d’un tratto hanno fatto la loro comparsa nel titolo del mio blog, sono e rimangono tali. Qualcosa che non mi può riguardare più di tanto, tanto è l’egoismo che mi pervade e la voglia di scavarmi fino a sentire la terra dura sotto la zappa. Ed è per questo che oggi mi sento coerente e lontano dall’ipocrisia della gente che dice, fa, augura, promette e tornerà a preoccuparsi di sé nel momento in cui finirà di pronunciare il solito “Tanti auguri”. Io lo faccio da sempre. Non mi preoccupo degli altri perché l’ho fatto in passato credendo erroneamente che fossero loro la causa di tutto. Il mondo, il male eterno. Oggi mi va di scrivere e di riflettere ancora su me stesso senza dover per forza giungere ad una conclusione degna dell’atmosfera Natalizia, senza dover assurdamente maturare un proposito per il nuovo anno. Scrivo e penso con la stessa intensità di un giorno qualsiasi, e sono felice di essere ancora e comunque il protagonista dei miei pensieri. Non voglio fare il bravo ragazzo che augura a tutti un mondo di felicità e di amore per questo giorno così speciale. Negli ultimi tempi ho la sensibilità di un congelatore. Non ce la faccio, non ci riesco proprio a dire cose che non sento. Lasciatemi pensare e scrivere di me, fate che io passi da egoista, ma non chiedetemi di essere ciò che non sono. Vorrei solo tornare a scartare i regali e ad apprezzare il Natale profano della mia infanzia. E mi sia concesso essere un vero bambino, piuttosto che il solito adulto ipocrita.

 
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domenica 23 dicembre 2012

Punto di non ritorno

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i sono indubbiamente punti di non ritorno nella vita di ognuno di noi. Da anni lamento la pochezza della mia vita sociale, l’aridità dei rapporti, l’incomunicabilità. Me ne cruccio ancora sebbene sono il primo a sapere che le cose difficilmente potranno cambiare. Dissento apertamente dai teorici luogocomunisti ( si può dire comunisti nel blog?) paladini del libero arbitrio. Siamo noi a doverci sbrigare, così dicono. Andiamo incontro agli altri, prendiamone la forma. Ancora di più, creiamo noi le situazioni giuste per dare un po’ di slancio a questa salma mummificata che è la vita. Ma chi lo ha detto mai ? Ieri, facendo un po’ di sano voyeurismo tra foto e profili di amici su faccialibro, ho avuto un attimo di cedimento strutturale. Gente giovane ( ma ci sta ) e meno giovane ( ci sta meno ), ancorata ad abitudini e a forme stralunate di divertimento, tipiche della mia gioventù. Invidia? Disprezzo? Cosa provare? Sono vecchio? Sto perdendo tempo. Ma quando tornerà questo tempo? Ma ti rendi conto che ti stai progressivamente staccando dal mondo? Tu e le tue teorie sull’alieno ti divoreranno. Ho pensato tutto questo. Sbagliavo? In un nanosecondo ho nuovamente cavalcato la ragione raggiungendo l’agognato amplesso: mi stavo sbagliando, io sto così e lo voglio, fortemente. Appurato che mi sto lentamente liberando del ruolo ingombrante del lamentatore cronico per vestire i panni dell’incazzato a prescindere; considerato che sono consapevole di andar cercando ciò che non esiste e che, qualora vi fosse, rifiuterei. Ecco, fatte queste importanti premesse, posso ritenere di aver raggiunto il mio personale punto di non ritorno: stare soli anche a Capodanno. Ma è un delitto, non si può stare soli a Capodanno! Chi sta solo a Capodanno, sta solo tutto l’anno! E qui scatta un sorriso beffardo a metà tra il godurioso e il compiaciuto. E adesso? E adesso un bel cavolo di niente. Innanzitutto, così facendo, darei prova di assoluta coerenza. Dimostrerei che a morire lentamente non sono io, bensì i valori e le relazioni in generale. Perché se ci credi, fai di tutto per mantenerli vivi. E non è solo colpa mia. Risolverei in modo semplice quello che ai più sembra un teorema inspiegabile, inaccettabile. Chi sono questi più? Ma coloro che vivono di apparenza, di regole superficiali: tu devi divertirti, devi stare bene, perché è così e basta. Ma vi prego. Starò perdendo tempo, tempo prezioso, monouso. Starò lamentandomi e incazzandomi senza una ragione plausibile. Forse avete anche ragione. Ma credo nella soluzione logica di ciò che è immutabile perché inconfutabile. Due più due, è sempre quattro.

 
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sabato 22 dicembre 2012

Il solito copione

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opo lo scampato pericolo della mia fine imminente, mi ritrovo qui alle prese con l’ennesima prova teatrale che il calendario impone da un po’ di anni a questa parte. Non sono un pivellino nell’arte della finzione, la maggior parte di voi lo sa. Ultimamente ho avuto qualche cedimento, lasciandomi andare a lampi di verità e di sincerità, ritornando poi orgogliosamente sui miei passi. Non ho più alcuna intenzione di manifestare le mie debolezze e le ragioni del mio malessere. Non ho più alcuna voglia di aprirmi come un libro e mostrare a tutti chi sono e perché. Queste feste di sicuro saranno un buon test, un allenamento importante per rientrare nei ranghi dell’attore provetto. Adesso basta di ripetere come un disco rotto sempre la stessa cosa. E mi sono anche stancato. Chissenefrega innanzitutto del Natale. Non mi interessa, e spero solo che questi giorni io li possa passare nella mia personale serenità che non è uguale a quella intesa dalla maggior parte degli umani. Non mi frega delle luci, dei finti auguri. Magari sarà una bellissima occasione per mangiare e bere un po’ di più. Ditemi che è poco. Vorrei solo diventare sordo e cieco per non ascoltare e vedere la retorica spicciola delle frasi di circostanza. Ma poi, perché me la prendo così tanto? Io auguri non ne faccio, non ne voglio ricevere, sto some sto e mi va molto bene. Ci sono cose che non cambiano mai, e non sono appuntamenti forzati a farle cambiare. I buoni propositi, le promesse, dobbiamo per forza lavorarci ora? Dobbiamo necessariamente fare bilanci e decidere di cambiare vita e persone, ora? A darmi fastidio è la mia parziale permeabilità al clima delle feste. Non ne sono totalmente immune per via del fatto di vivere ancora all’interno dell’originario nucleo familiare. Devo sopportare, tutto qui. Ora l’obiettivo è cercare di non dare adito a valutazioni fin troppo esagerate sul mio conto, e a non mettermi nella condizione di dover apparire come bisognoso di aiuto. Vorrei si facesse luce su questo. Non ho bisogno di nessuno, il mio malessere è legato solo ed esclusivamente al fatto di vivere in un mondo che non è il mio. E nessuno deve sentirsi in colpa. Sono totalmente aderente alla realtà, e la mia personale visione delle cose mi dice che non amo chi tende ad idealizzare in nome dei sentimenti, chi chiude gli occhi in nome dell’amore, chi spegne il cervello in nome del cuore. Ehi, sono sempre Enzo, il solito Enzo. Vivo perché devo vivere, vivo perché non sono un codardo, ma non c’è modo di farmi cambiare idea sul mondo. Non sforzatevi più di tanto. Sono testardo come un mulo. Alieno.

 
 
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mercoledì 19 dicembre 2012

Questo sono io

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a quante volte lo avrò ripetuto, quante volte ne ho rimarcato l’importanza. E’ un secolo che non mi faccio una bella chiacchierata dal vivo con qualcuno per parlare di ciò che voglio, per raccontare cosa mi passa per la testa, e per andare a fondo di questo caos cosmico che è la mia persona. Non ci faccio più caso, sembra che me ne sia dimenticato, ma non è così, dentro di me alberga un desiderio sempre grande. Ho necessità di parlare, di farlo con chi so, garantirebbe una qualità del dialogo piuttosto elevata, qualcuno che mi sta seguendo lentamente e ha un’ idea chiara di chi sono. Mi immagino lì a parlare di vita, egoisticamente della mia perché ho bisogno di qualcuno che mi ascolti. Oggi mi è capitato ancora. E tu che mi leggi lo sai, e magari domani me lo dirai, di persona. Oggi ho parlato del mio blog. Qualche giorno fa una cara amica aveva ipotizzato che questo diario potesse essere un mezzo attraverso il quale giustificarmi, oppure depistare, incitandomi ad uscire dal guscio dell’autoanalisi. Tengo a precisare che ( e lo dico con una punta di orgoglio ) questi fogli sono la più completa rappresentazione di me stesso, la più veritiera e fedele, per un semplice motivo: non sono mai riempiti a mente fredda. Non è possibile nemmeno lontanamente pensare che ciò che scrivo sia in qualche modo uno strumento per avallare me stesso. Ne è una riprova il fatto che, se provate a leggermi in ordine cronologico di articolo niente mai combacerà, niente mai troverete di logico o artefatto, nulla risulterà studiato a tavolino. Che ci guadagno a dare un’immagine sempre contorta, contraddittoria, umorale? Nulla. Scrivere è la mia via di fuga. Ma non sto fuggendo, sto semplicemente attestando situazioni di fatto; quel che probabilmente sfugge ai più ( loro malgrado ) sono le sottilissime evoluzioni di una personalità in continua trasformazione. Alti, bassi, medi, poi di nuovo bassi, poi alti. Non è facile starmi dietro e mi piace notare che ci vuole molto di più di un foglio per accorgersene. Basta essermi vicino, basta osservarmi nella mia infantile paura di sbagliare, nella mia imperitura insicurezza e fragilità. Ringrazio chi mi dà la possibilità di parlare di questo guardandoci negli occhi e anche chi, mi sprona a venire fuori dal pantano. Non saprei usare un’arma anche avessi la certezza dell’impunità. E questo diario è un’arma bellissima per dire chi sono. Punto.

 
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martedì 18 dicembre 2012

Le basi della matematica

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crivere è una droga e la vita è il mio pusher di fiducia. Incredibile a dirsi e a pensarlo ma anche un’esistenza vuota costituisce terreno fertile per i pensieri e le riflessioni più interessanti. Ed è proprio nella vita vuota di un solitario che le emozioni ed i sentimenti raggiungono livelli di eccellenza forse perché conservati allo stato originario. Non è forse nella perversa relazione umana che le anime più pure ed innocenti finiscono con il contaminarsi del germe del compromesso, della rinuncia, della sottomissione? Rabbrividisco nell’ascoltare anime in tempesta vittime di un personale compromesso con la propria dignità. A quelle più disperate che ascolto di frequente in pausa pranzo, vorrei tanto regalare quello che l’avvento dei quaranta mi ha gentilmente offerto: si chiama saggezza. A questi cuori sofferenti senza un apparente motivo e senza alcun merito vorrei dire che di tanto in tanto nella vita bisogna ricordare i fondamenti della matematica. Due più due, fa sempre quattro. Così, nel bel mezzo di una giornata anonima di un uomo anonimo e solo, si riscopre la sofferenza di chi non è solo ma è come se lo fosse, ancor più del problematico autore di questo blog. Perdonatemi il cinismo, ma di fronte a certe confessioni, io non provo alcun tipo di pena. E pongo un bel strato di calce tra l’ennesima fila di mattoni che sto costruendo a protezione del cuore. Mi chiedo ( senza timore di sbagliare risposta ) se quarant’anni suonati siano una condizione piuttosto che semplicemente un fatto anagrafico. Io ritengo che non ci si possa più permettere di soffrire per amore e di accettare consapevolmente le parole di chi non ci ama come fossero l’unica coperta disponibile in una fredda notte d’inverno. Quante volte mi sono lamentato della mia posizione yoga del Venerdì o del Sabato sera, quante volte ho maledetto il riverbero dello schermo. La mia compagnia. Oggi sono consapevole di avere più coperte a disposizione per ripararmi dal freddo della solitudine. E la più calda sono io, con le mie strampalate convinzioni, ma con l’appiglio inamovibile di un cervello. “Non puoi capire se non vivi o non stai vivendo una relazione”. Vero. O forse capisco benissimo ed è per questo che viaggio in solitario. E in questa vita vuota e solitaria trovo materiale per dire qualcosa. Oggi lo dico a te, ignara compagna di pausa pranzo, così carente in matematica.

 
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lunedì 17 dicembre 2012

Un unico abbraccio

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ono lontanissimi i tempi in cui questo blog era un ricettacolo di parole dure e messaggi subliminali nei confronti di questo o quell’amico di cui si erano perse le tracce senza motivo. Sembra ieri che, fossilizzato sul concetto e sul valore dell’amicizia, mi illudevo che gli altri fossero così simili a me da provare empaticamente tutto allo stesso modo. Follia. Ho meno tempo di allora per certi tipi di angosciose curve mentali; quei silenzi, quelle fugaci apparizioni e sparizioni…roba brutta, comunque. Pensavo solo a quello. Quanto contano ora gli amici per me? Cosa è cambiato? Forse nulla, sono sempre qui a disquisire di virtuale, di presenza fisica, di pacche sulle spalle. Un’esigenza che poggia sulla realtà di un uomo solo. Diciamo che i vecchi discorsi avevano qualcosa di reale perché ad amicizie vissute dal vivo attenevano. Oggi tutto concerne l’etere. Non sono un amico affidabile, l’ho detto e l’ho pure dimostrato. Ogni volta che qualcuno torna nella mia vita anche solo con un messaggio, con un “Che fine hai fatto? ”è come ricevessi un diretto allo stomaco. Perché scopro di essere io un egoista, io un latitante, io un predicatore da strapazzo. Le amicizie vanno coltivate e per farlo bisognerebbe avere una buona memoria. O per lo meno non averne tante da “curare”. E’ il solito discorso della qualità che ti permette di consentire a poche vite di entrare nella tua. Ho dei rimorsi e dei rimpianti. La mia paura di perdere qualcuno è spesso irrazionale. Se alcune delle persone cui avevo promesso amicizia, vivessero i rapporti alla mia maniera, ora sarebbero tutti diffidenti, tutti incazzati. Perché per ogni persona sparita dalla mia vita, ve n’è una sparita in quella degli altri. Ed io sono una di quelle. Non sono un amico nella misura in cui credo che gli altri ci debbano sempre essere, questa è una vera e propria presa di coscienza. Non è facile seguire passo dopo passo qualcuno nel suo percorso; non è questo che chiede l’amicizia. Ma è necessario abbassare le pretese smettendola di sentirsi l’unico degno di attenzione. L’ho sempre pensato, e lo penso tuttora. Mi dimenticherò presto di questo articolo, ma che dire, è solo per fare presente che una coscienza ce l’ho. Ed è ricorrente in me il desiderio di raccogliere tutti in un unico abbraccio. Questo abbraccio ( e questo articolo ) in modo particolare sono per te, Alessia C. Il tempo e la distanza non possono vincere. Ti sono vicino.

 
 
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domenica 16 dicembre 2012

Doppia faccia

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e ne va l’ennesimo weekend pieno di niente. E con lui la solita consistente (quanto inutile) dose di rabbia, solitudine, noia. Si sta avvicinando Natale, la prassi impone serenità, visi sorridenti, ottima predisposizione all’amore fraterno. Inutile dire che non ho intenzione di adeguarmi al canovaccio, anzi come d’abitudine mi impegnerò a rimanere me stesso lasciando ad altri il compito ingrato ed ipocrita ( ma per molti assai semplice ) di rispettare le regole. Non so cosa stia succedendo, ma negli ultimi tempi fatico molto a mascherare la mia depressione. Tutto facile al lavoro, ma con i miei genitori incontro difficoltà non previste. Ora la situazione si complica non poco in vista delle festività dal momento che in famiglia tutto deve seguire l’etichetta al solo scopo del quieto vivere. Lo posso fare, perché non posso evitarlo. Negli ultimi anni ho manifestato una certa dimestichezza nell’arte della finzione grazie soprattutto ad un diverso atteggiamento verso il prossimo; nonostante mi squarci le corde vocali per urlare al mondo le mie paturnie cerco possibilmente di evitare che sia il singolo a fare da capro espiatorio. Non sempre riesco. Mi interessa attirare l’attenzione poi però mi ritraggo lasciandomi andare raramente allo sfogo. Ne deriva un’immagine contraddittoria e lunatica, (sempre e comunque negativa) ma preservatrice di un apparente tranquillità. E’ difficile ammettere che sono rarissimi i momenti di totale sincerità perché so bene che il mio corpo, il cuore, la mente, passano attraverso infinitesimali mutazioni lungo l’arco di una giornata; per cui, ecco servita la menzogna: “Bene” è la risposta d’ordinanza alla quotidiana questione del “Come stai?”. Un altro aspetto da considerare è questo. Se da un lato fatico a mantenere basso il livello dei discorsi (non riesco proprio a sdrammatizzare), dall’altro non accetto e non ammetto che chi sta dall’altra parte si trovi costretto a qualche minuto di conversazione degno di un’ omelia funebre. Sono filantropo sebbene odi il mondo. In realtà detesto il genere umano nella sua totalità ma poi, se mi si para davanti il singolo non ce la faccio. Soccombo. Di sicuro fingo bene sul lavoro: “Ma come è possibile, sei un bel ragazzo (?), gioviale, pronto alla battuta, ironico, perché tutti questi problemi”?. Considerata una buona gestualità, e quella buffa espressione degli occhi, avrei avuto un posto da attore comico. Il risultato finale è che nessuno sa chi sono, a meno che non riesca a seguirmi quatto quatto, minuto dopo minuto nelle mie evoluzioni interiori. Sono un clown con un' anima Leopardiana, può andare?

 
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sabato 15 dicembre 2012

Un rubinetto rotto

I

cretini pensano che un uomo non possa e non debba piangere. Non ero sicuro di fare una cosa buona scrivendone qui perché un uomo che piange a dirotto per una buona ora ininterrotta vive una sofferenza tale da non poter nemmeno ipotizzare di essere “trascritta”. Il rubinetto perdeva ieri sera, di ritorno dal solito giorno di lavoro. Troppe le tensioni accumulate, i pensieri ingarbugliati nella testa, le mancate e mai svelate preoccupazioni. Non sempre il pianto nasce dal cuore. Difficile da credersi ma in fondo è proprio l’uomo razionale a rivelarsi il primo artefice del proprio pianto. Non mi riferisco all’uomo che usa la ragione perché scaltro, intelligente. Parlo di colui che si maschera da uomo di testa per paura di usare il cuore. Quello non ha scampo, prima o poi il suo cervello esploderà e sarà proprio nel pianto che troverà la migliore via di guarigione. Chi mi legge o mi conosce anche solo virtualmente può vagamente immaginare quali sono le mie grandi paure, i problemi che mi affliggono, quali le gabbie di cui sono prigioniero. E conosce anche i miei limiti, la mia diffidenza unita ad una ormai consapevole rassegnazione. Fogli miei, aiutatemi. Quante volte ho rimesso a questi scritti il ruolo di valvola di sfogo, fregandomene del fatto che potrei trovarle altrove le soluzioni. E ora che ho pianto, cosa succederà? Magari nulla. Aspettavo questo momento, sapevo che prima o poi mi sarei lasciato andare. Non mi basterebbe una notte intera per raccontare ad un amico cosa sto provando, cosa mi sta facendo paura, cosa vorrei. Potrei affrontare le cose una ad una, cercando di isolare come compartimenti stagni, le diverse facce dello stesso problema. Sono un uomo insoddisfatto, frustrato, represso, oppresso, schiavo del tempo degli orari, e di un lavoro che ultimamente odia sempre più. Non intendo affrontare quest’ultimo argomento perché so, finirebbe con l’innescare le solite considerazioni qualunquiste. “Sei già fortunato ad averlo, un lavoro”. Si, si chi lo ha mai negato. Ma mi sarà consentito lamentarmene e cercare di fare in modo che non diventi per questo, l’unica ragione di vita. Mi ero vantato di aver trovato proprio nel lavoro, in questi giorni, un motivo per riprendermi. Mento sempre a me stesso, lo faccio per mascherare una vita insoddisfacente piena di rabbia e repressione. Ora che mi riguardo piangere non mi vergogno affatto. Quando piangi ogni lacrima bagna e dà vita ad un cuore ormai rinsecchito, tenuto da parte molto tempo, forse troppo. Ma non c’è nulla di più vero, nulla di più così essenzialmente umano di un uomo che piange. Non avrei dovuto scriverne qui. Ma non me ne vergogno affatto.

 
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giovedì 13 dicembre 2012

Passaggio obbligato

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rrefrenabile. Potrei definire così la mia voglia di scrivere lungo questa settimana, a dimostrazione ( se ce ne fosse bisogno ) della voglia di comunicare. E siamo quasi a Venerdì, questa è la prima buona notizia. Non sto bene fisicamente, sono spossato e il freddo gelido mi penetra nel corpo e nella testa dal mattino fino a che non sprofondo sotto le coperte. Sarò sincero: non ho alcuna voglia di trascorrere il prossimo fine settimana in Trentino. Al di là dell’assenza di stimoli, il solo pensiero di starmene al freddo salendo e scendendo dai soliti treni, mi infastidisce. Ho solo bisogno di caldo e di assenza totale di pensieri. Sono stato comunque bravo. Dopo aver dato libero sfogo alle emozioni negative per tre giorni consecutivi, ho vissuto questa settimana all’insegna della razionalità. Ho cercato di fare leva sull’unica arma possibile ed efficace per controbilanciare una perdita consistente di lucidità. Ci sono riuscito. E’ il solito passaggio obbligato di cui mi è capitato di parlare spesso: tempesta emotiva, poi razionalizzazione. Tutto il bene che mi posso dare passa attraverso la sofferenza e la conseguente presa di coscienza della fugacità del tutto. Al fine di poter accettare e dare vita ad un rapporto o relazione umana ritengo sia assolutamente importante captarne immediatamente i limiti intrinseci ed accettarli. Non si può voler a tutti i costi idealizzare qualcosa che nasce imperfetto. Sono un estimatore di coloro i quali sanno vivere le emozioni ma non per questo le esasperano; ammiro ed invidio un po’ chi , pienamente cosciente dell’inesistenza della perfezione, non la cerca e la vede nel solo fatto di esistere e dare. Ahimè, sono lontano mille miglia da questa visione della vita e del mondo. Il mio personale vissuto è sempre pronto a ricordarmi che amare, dare una parte di sé a qualcuno significa comunque soffrire. E io non voglio. Lo si capisce o no? Negli ultimi mesi ho nuovamente provato sulla pelle cosa voglia dire provare ad aprire le porte del cuore. Non ce la faccio, scusate ma non ce la faccio proprio. Sono una persona che non conosce le mezze misure: non pretendo niente, oppure voglio tutto. Ora sono per la prima delle due ipotesi. Sono stato bravo, perché alla fine ho risparmiato sulle contrazioni dello stomaco e sui pensieri forti, quelli che ti portano a domandarti cosa vuoi e perché. Devo solo riprendermi fisicamente, poi tornerò ad essere il solito automa dal corpo tonico e dal cuore nuovo.

 
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mercoledì 12 dicembre 2012

Bei tempi andati

C

redo che chiunque di noi sia dotato di buona capacità introspettiva unita ad una sana curiosità, non abbia un grande bisogno di amici. Sarebbe sufficiente porsi qualche domanda in più su noi stessi, darsi le risposte ed il gioco è fatto. Riusciremmo a conoscerci a tal punto da non doverci più nemmeno confrontare. E allora sarebbe un mondo pieno di psicologi da strapazzo senza un briciolo di relazione sociale. Oggi si parlava di amicizie virtuali e lo si faceva piacevolmente con amici ( colleghi ) reali. E’ incredibile come nei luoghi e nei momenti più impensati si trovi modo di disquisire di quegli argomenti su cui io non smetterei mai di parlare. E si ricordavano alcuni bei tempi andati, ad esempio quelli della comunicazione epistolare. In modo particolare si è parlato di come la lettera avesse il merito ed il compito di lasciare impresso in chi la riceveva tutto quel contenuto emotivo che solo la carta e la penna avevano il merito di trasmettere. E parlando dei tempi andati si è ricordato di come i tempi lunghi ( quelli dell’attesa ) regalassero un’emozione che al giorno d’oggi, nessun super mezzo tecnologico può permettersi. Discorsi. Ma nel farli c’è già un senso e un fascino assai rari ai tempi di Enzo blogger. C’è quel pathos e quell’armonia così dimenticati, così tremendamente abbattuti dall’avvento degli schermi. Una delle più grandi difficoltà che vado incontrando (nel tentativo di dare sostanza alle amicizie virtuali) è quella di non riuscire a comunicare con gli occhi. Ognuno di noi è unico proprio perché ha il suo personalissimo strumento rivelatore delle emozioni: gli occhi appunto, oppur la voce, la gestualità. Mi capita ( e rido di me solo pensandolo ) di trovarmi a chiacchierare virtualmente; ho dita molto grandi e provare a farlo sul touch-screen di un cellulare è già di per sé un’impresa. Cosa succede secondo voi quando, nel bel mezzo di una chiacchierata, magari anche emotivamente carica, tu vorresti lanciare un’occhiata di sfida, oppure dire qualcosa sapendo che solo con lo sguardo oppure con il tono della voce l’altro/a capirebbe??? Ecco, in quei momenti mi sento impotente, in balia di qualcosa che non ha capo né coda, non ha colore, sapore, forma. Chissà se mi sono spiegato, se ho reso una minima idea di ciò che vorrei far capire. Discorsi. E chissà se utilizzando un foglio virtuale io riesco ancora a trasmettere qualcosa. Lo spero. Perché lo sento.
 

 
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martedì 11 dicembre 2012

Avrò cura di me

P

osso capire essere intransigenti, rigidi, ben poco indulgenti e severi. Ma non sarebbe il caso di cominciare ad amarlo un po’? Non si potrebbe fare qualcosa per costringermi a rispettarlo e a considerarlo comunque un essere degno di considerazione? Io davvero non so cosa porti ad odiarmi a tal punto, a chiedere a me stesso di piegarmi in continuazione e di aprire ogni possibile passaggio segreto che vada dritto al cuore con così tanta scioltezza. Io la devo smettere di fare il finto duro con gli altri, di vantarmi di aver conquistato con il tempo la capacità di rimanere insensibile agli umani e ai loro giochi strani chiamati sentimenti. Perché mento. Tutto qui. Altro che razionale e freddo, io sono in grado di portare in alto le emozioni fino al punto di viverle in tutta la loro densità, fino alla soglia del dolore più cieco. A quel punto torno ad indossare l’armatura. Parliamo del silenzio. Di quello costruttivo dissi qualche articolo fa. Giova sicuramente ridurre le parole al minimo, prendersi il tempo per capire, e soprattutto per dare poco materiale agli altri. Sono una persona del tutto prevedibile, nelle azioni, nelle reazioni agli stimoli e ai condizionamenti. Non sono in grado di lasciare spazio all’immaginazione. E dire che più persone mi fanno notare il fatto di essere bravo a dire le cose senza mai dirle; abile nel lasciare tutto in sospeso facendo intendere quello che uno vuole intendere. A questo punto io mi chiedo se sono convinto di essere Tizio ma gli altri vedono Sempronio . La sostanza è (al di là del complesso combinarsi di testa, cuore, autostima, carattere e altro) che io soffro sempre e comunque. E la sofferenza il più delle volte me la vado bene bene a cercare, perché, udite udite, io voglio questo. Giungo spesso a conclusioni di cui sono il primo ad avere timore ed il fatto che non ne faccia mistero sembra mi renda pure orgoglioso di ciò. Io non ho una ricetta magica che mi permetta di vivere nella più totale armonia ma, chiunque incroci il mio cammino, sta male, soffre, non riesce a capacitarsi. Quando qualcuno s’imbatte nel sottoscritto, poverino, non sa. Ignora. Ignora il fatto che, sta per imbattersi in una bella gatta da pelare e che prima o poi rinuncerà per sfinimento. E capirei. Quel che non capisco è: essendo già bravo di mio ad odiarmi, perché io voglio a tutti i costi lo facciano anche gli altri nei miei confronti? Sono pure perverso. Sono malato, ditelo. E se ipotizzassimo che in fondo anche questo è vivere? Anche questa è vita? Soffrire dentro è pur sempre ammalarsi di vita. Cerco la cura. La cerco e non la trovo.

 
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lunedì 10 dicembre 2012

Paradossi

F

inalmente, dopo un lungo weekend è arrivata la tanto agognata settimana di lavoro. Convivo ormai con i miei paradossi con la stessa naturalezza con cui vivo i miei occhi, il mio naso, la mia bocca. Sono parte di me, li porto ovunque. E’ una fortuna avere un lavoro stabile, giusto? Non credo siano pochi coloro i quali, avendolo un lavoro, vi buttano l’anima per compensare i momenti no della vita. Così io. A dirla tutta ( e mi è motivo di vanto) ritengo siano davvero una minima parte coloro che possono vantare una seppur piccola schiera di amici nel novero dei colleghi. Io sono uno di quelli. Quando affermo il concetto della presenza fisica voglio far notare questo aspetto: i tuoi occhi, il tono della tua voce, persino i tuoi gesti più insignificanti, non sono mai gli stessi quando c’è qualcosa che ti turba. E chi lo sa, se ne accorge immediatamente. E’ questo che adoro dell’amicizia. Ieri sera mi sono raggomitolato nel letto in posizione fetale incrociando le dita delle mani. E’ una sorta di preghiera che rivolgo a qualcuno non bene identificato ogni volta in cui sento di essere totalmente indifeso. Questa mattina di tutto avrei potuto lamentarmi fuorché fosse Lunedì. Appena poggiati i piedi a terra ho avvertito una piacevole sensazione di pace, la tempesta emotiva dei giorni precedenti sembrava un ricordo. So bene che non è così, ma questo per sottolineare il fatto di come il paradosso non sia poi tale. Confidarmi, seppur con la voce rotta, mi ha fatto bene. Sono ancora un grande bambino, la cui madre ha costruito intorno una enorme campana di vetro. Provate a mettere insieme la forza trascinante di una figura protettiva, per certi versi oppressiva e quella infinitesimale di un figlio condizionabile, del tutto incapace di prendere decisioni in piena autonomia. Chi ritenere responsabile del disastro di questi giorni? La mia è una famiglia dagli equilibri emotivi piuttosto fragili. Non siamo una manica di pazzi, trattasi semplicemente di persone sensibili. E negli ultimi anni, un po’ per necessità, un po’ per virtù mi sono costruito una corazza con lo scopo precipuo di tenere su la baracca non appena qualcosa la possa far crollare. Quando ho saputo che mi avevano rubato la bicicletta, non ho reagito. Non riesco più a prendermela, l’istinto mi porta a preservare corpo e mente. Dove sta il paradosso? Mio padre ha assorbito il mio vecchio ruolo. Lui ora è fragile più di quanto non lo fossi io qualche anno fa. E in lui rivedo il vecchio Enzo. Che fare? Per il momento ringrazio il lavoro e benedico il giorno in cui è arrivato.

 
Herscher

domenica 9 dicembre 2012

Ma che mondo e mondo!

A

d un certo punto mi sono reso conto che persino il titolo di questo diario non mi rendeva giustizia. “Il mondo di Enzo”. Attenzione, leggete bene. Ancora una volta, Enzo paga il dazio tipico dell’empatico:prima gli altri, poi lui lì, nell’angolino. Quando ero piccolo, guardando i primi films alla Tv mi chiedevo quale significato avesse quella scritta: “starring”. Eccolo, colui che interpreta il ruolo principale, dunque..il mondo. Ma che mondo e mondo! Nasce così, Enzo e dintorni. Va un po’ meglio no? Direi che sconfinare al ruolo di comparsa (o poco ci manca) ciò che rende la mia vita un mezzo inferno, è già un premio fin troppo grande. E dire che, se fossi solo capace di imparare le lezioni del male che il mondo rappresenta mi preoccuperei così marginalmente, da non doverlo neppure menzionare o considerare. Sto facendo piccoli passi in questa direzione, non potendo tuttavia evitare tempeste di rabbia, di pianti e di solitudine. Che dire dei miei dintorni. I miei genitori mi stanno sbarrando la strada. Che colpa ne ho se sono stato, mio malgrado, costretto a rimanere con loro per così tanto tempo? Ed ora che, potendo, voglio andarmene mi stanno sgambettando da dietro. Chiamatelo senso di protezione, inconscio bisogno di aiuto. Quando mamma e papà invecchiano non ti vogliono più lasciare andare. Tornano bambini e come i bambini fanno i capricci, ti fanno sentire in colpa, non ti permettono di dire di no. Io dico un NO grande come una casa e sto facendo fuoco e fiamme per costringerli a rendersi conto che la mia presenza qui per loro, sarà un inferno. Non posso fare altro. So per certo che la ragione in questo caso mi viene in aiuto, e che ragionando, tutto potrebbe risolversi. Niente da fare. Sono bambini, ormai. Non riesco a prendere il volo ma, come ho già detto, non voglio gridarlo. I miei dintorni sono sterminati deserti fatti di dune alte come montagne ed oasi dove l’acqua, o quel poco che ne resta, ha un sapore orribile. E’ sufficiente guardarmi indietro, fare piccoli zoom su momenti più o meno recenti della mia vita per capire che tutto è illusorio, persino il mio viaggio verso la perfezione. Quelle fasi di apparente serenità portavano dentro il germe dell’insoddisfazione e della delusione che da lì a poco sarebbe tornata. Perché chi vede oltre, non predice il futuro ma è conscio della pochezza della vita. Questo diario, questo viaggio rappresentano il senso della mia vita. Ciò che vado cercando non è più un obiettivo bensì qualcosa di cui parlare, sempre. Il senso della vita è qui. E non nei miei dintorni.

 
deserto

sabato 8 dicembre 2012

Cani e porci

S

ono al centro di una tempesta emotiva di enormi proporzioni. Non mi riconosco più, non so dove sto andando, chi sono e cosa voglio. Il filo sul quale sto camminando da tempo ormai sta per spezzarsi. Là sotto, il baratro. Sono oppresso, represso, e continuo a commettere gli stessi errori di sempre. Sono tornati i pensieri neri, le minacce di dare un colpo netto al filo. Chi si è trovato in questa situazione disperata non è in grado di capire cosa sia utile ma di sicuro dovrebbe sapere cosa è deleterio fare. Non bisogna ( ripeto NON BISOGNA ) gridare il proprio disagio e la propria sofferenza al mondo. Evitatelo, se potete. Cercate di non disperdere le energie residue e sappiate che quelle parole di aiuto rimbalzeranno, riecheggeranno ed il loro fragore vi devasterà i timpani e quel poco vi resta del cervello. L’anfratto nel quale siete finiti è un luogo buio ed isolato. Nessuno vi ascolterà. Ripiegate su voi stessi, provate a rialzarvi ricordandovi che solo voi potete farcela. Oltre il danno in questi casi, la beffa. Quando decidete di utilizzare la piazza per trasmettere un disagio esistenziale è come apriste la porta a cani e porci. E i porci ( non me ne vogliano, ma i cani mi piacciono di più ) in questi casi, danno il meglio di sé. Partendo dal presupposto che non sanno e non possono sapere quale sia la vostra realtà, quali i malesseri che vi affliggono quali, le sottili sfumature del proprio Io, si ergono a censori della vostra esistenza. Ma chi sono ? Ma chi si credono di essere? E’ paradossale il fatto che si tratta il più delle volte di persone la cui vita è altrettanto apatica, finta, disperata. Ma chi siete per giudicare? Chi siete per mancare di rispetto a chi non conoscete? Mi fa male ( e tanto ) dovermi attribuire una consistente parte di responsabilità. Che colpa ne hanno loro se sono io a concedere questa opportunità? In un mondo nel quale nessuno può fidarsi di nessuno, ancor più nel virtuale; in un mondo dove l’egoismo, l’egocentrismo fanno di ogni persona un mostro insensibile interessato a coltivare il proprio orticello. Ecco, come si può in un contesto del genere essere così stupidi da utilizzare la piazza per attirare l’attenzione? Questa volta non voglio bacchettarmi, non mi fustigherò per l’ennesimo errore. Voglio invece provare compassione, voglio farmi pena. Non sono più un uomo e ho perso la mia dignità. E ben venga perderla per mia mano, piuttosto che per l’assurda mania di protagonismo di qualcuno.

 
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giovedì 6 dicembre 2012

Il senso del freddo

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cco, questo momento incarna il senso dell’inverno. La voglia di coperte, di abat-jour, di un foglio su cui rassettare i pensieri. Il silenzio. E là fuori un freddo boia. Aborro questa stagione, soprattutto ora che impiego più tempo al mattino per vestirmi e per sbrinare l’auto. E cosa dire poi di quelle luci in lontananza che annunciano un treno quasi sempre freddo. Guardo le facce dei miei compagni di sventura, vorrebbero tutti la stessa cosa, si legge dal loro sguardo spento, dalle teste che barcollano. Io non ce la faccio proprio a fare altro: devo ascoltare musica perché così sono libero di mettere le mani in tasca. Un giornale, un libro, il pc, non me li posso permettere. Odio l’inverno. Lo amo, a volte. Stasera in modo particolare: la cena in famiglia senza fretta, senza la corsa contro il tempo per preparare le cose per la mattina dopo. Lo sguardo sempre all’orologio: “ ho ancora mezzora di tempo, poi so già che crollerò”. Niente di tutto questo, stasera. E solo perché domani mi sono concesso un giorno di vacanza. Ecco, amo l’inverno perché ho i piedi sotto le coperte, la luce è soffusa e posso fare ciò che più mi piace. Calore umano, ne ho sempre bisogno. Lo avete notato, sto scrivendo a ruota libera perché non avevo particolari argomenti da trattare o meglio, non sento quella spinta emotiva che solitamente mi catapulta sul pc anche nei momenti più strani. Ricordate la paura che ho manifestato qualche giorno fa? Il terrore di avere momenti di vuoto assoluto, di totale assenza di pensieri, dunque di motivi per.. Le paure vanno e vengono con la stessa maledetta frequenza degli arrivi e delle partenze. In mezzo c’è un viaggio che sembra apparentemente uguale, ogni giorno, ma nasconde tantissime insidie. Tempo fa ero un abile quanto preciso programmatore della vita, ero rassicurato dall’idea di poter vigilare sul mio futuro. Pensavo addirittura che, qualora fossi rimasto schiavo di questa tendenza, non avrei avuto una lunga vita. E ora che ho imparato a vivere alla giornata? Ho nostalgia di quegli anni. Io non sono così convinto del fatto che il “carpe diem” sia poi tutta questa bellezza. Cogliere l’attimo, se lo si intende nel senso del rischiare, dell’afferrare il tempo e le occasioni, potrebbe anche avere un senso. Ma io mi domando e dico, come fai a giocarti le tue carte, a buttarti, se il tempo lo afferri solo per sopravvivere? Non abbiamo il tempo di afferrare il tempo. Non ce n’è. Ogni giorno è tremendamente uguale all’altro. Pensiamo di prenderci gioco del tempo. Che inetti.

 
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lunedì 3 dicembre 2012

Strani voli

S

tanotte,dopo molto tempo, ho sognato di volare. Nel mio personalissimo mondo fatto di immagini notturne, l’aereo rappresenta più che mai la metafora della vita. La sensazione che provo quando mi siedo all’interno della bestia d’acciaio è davvero piacevole, quasi rilassante. Il desiderio di staccare i piedi da terra, dal mondo opprimente è forte, tanto da spingermi a rischiare. Una volta in volo però ( passo al sogno vero e proprio) guardo l’orologio e mi accorgo di qualcosa di strano. Mi pongo domande del tipo “Ma che ore saranno nel posto dove sono diretto”? “E quale sarebbe questo posto?” Comincia a montare il desiderio di abbandonare quel sedile; dando un’occhiata al finestrino, mi rendo conto che l’aereo non si è mai alzato in volo. A quel punto scendo. Ora, ditemi voi se queste immagini non ricalcano alla perfezione ciò che sto vivendo in questi ultimi tempi: la voglia di una vita nuova, di nuove relazioni, la paura di ciò che mi aspetta, la decisione di tornare sui miei passi, in nome della sicurezza. Tutto coincide. Tutto ha un senso. Da cosa nasce questo sogno così intenso e veritiero? Può sembrare inquietante ma al tempo stesso divertente; ieri sera ero intento a fissare il solito punto sullo schermo, il solito movimento ritmato delle dita sul mouse, basculando da una pagina all’altra. Le solite poi. Ad un certo punto mi sono reso conto che la mia testa era vuota: non avevo pensieri, non avevo lamentele da fare, non avevo strani contorcimenti interiori a turbarmi. Non avevo nulla da comunicare al mondo virtuale. Come se, tra le altre cose, ve ne fosse la necessità. Una situazione anomala, atipica, quasi sconcertante. Le conclusioni : “Ma ciò a cui sto puntando, quello per cui sto combattendo, è questo? “ Il vuoto mentale?”. E poi, “Chi ha imparato ad amarmi e a volermi bene non correrebbe il rischio di trovarsi spiazzato?” Se davvero è stata la fragilità, l’umoralità, l’ipersensibilità a rendermi un uomo, cosa succederebbe se con il tempo diventassi improvvisamente uno dei tanti? E di questo ho paura. E’ inquietante il pensiero di non avere pensieri; più divertente il fatto che io mi ponga il problema. Spesso ho difficoltà a relazionarmi con chi cerca semplicemente un confronto leggero, motivando che la vita è già piena di problemi dunque, le amicizie devono aiutare a “stemperare”. Sono capace di ridere e scherzare, anch’io ho momenti di assenza totale di pensiero. Ma riflettendoci, farò il possibile per continuare ad essere IO, con le mie paturnie. Tutto torna; l’aereo, l’orologio, la terra, la paura dell’ignoto. Il voler cambiare a tutti i costi per non cambiare nulla. E gli altri? Gli altri siamo noi, non dimenticarlo, Enzo.

 
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domenica 2 dicembre 2012

Assenza giustificata

N

on so se è un buon segno o meno, ma è una settimana esatta che non scrivo sul blog. Non è facile tenerlo aggiornato, ma solo per una questione pratica: un quindici pollici da portare in valigetta non è il massimo della comodità. Come ho già avuto occasione di dire però, ciò non rappresentava un problema durante i primi viaggi a Torino. E’ sopraggiunta un po’ di pigrizia, diciamola tutta. Potrebbero tuttavia passare settimane senza che io scriva mezza riga di me e della mia vita ma probabilmente, non avrei comunque niente da dire. E’ inevitabile; scrivere quotidianamente sul proprio diario comporta il rischio di essere ripetitivi e piuttosto noiosi. Ma a chi dovrebbe fregare di questo? Scrivo per me, il fine è questo. Sto buttando tutto me stesso sul lavoro. Il mio atteggiamento è positivo, propositivo, collaborativo; ho addirittura momenti nei quali sono orgoglioso dei progressi e capisco di poter andare avanti da solo. I dubbi, le paure di un mese e mezzo fa, cominciano a trasformarsi nella solita risatina di compiacimento. E’ un dato di fatto che sono insicuro e che, quando il nuovo avanza verso di me, tendo a ritrarmi. Sul lavoro non ho problemi, il rischio va affrontato, la faccia deve essere messa, la firma pure. Mi piace capire cosa faccio, quanto posso dare, mi pongo un sacco di domande. La chiamerei “deformazione esistenziale”: una vera e propria trasposizione del mio modus vivendi, all’interno dell’ufficio. E da questo punto di vista, l’essere metodico, razionale, ma anche analitico e indagatore, mi aiuta moltissimo. E per quel che riguarda il mio mondo interiore? Non è cambiato nulla o quasi, salvo un piccolo passo avanti verso l’accettazione dell’altro come persona e non come strumento utile al proprio personale bisogno. Mi devo allontanare ( e a gambe levate ) dal pensiero per cui se la mia vita è arida, la colpa è di chi c’è, ma è lontano. Assurdità. Sarebbe invece il caso di porsi un bel po’ di perché sui motivi di tale aridità. La storia è lunga, la conosco e al momento barcollo tra un certo vittimismo ( la mia condizione è dovuta ad eventi del passato ) e la voglia di reagire ( in fondo chi è ora sulla mia strada non ha colpa alcuna ). Sono stanco di parlare di presenza fisica, di tempo, di distanza. Mia madre continua ad essere la mia confidente preferita. E’ lei la mia presenza, sono incredibilmente fortunato ad averla, magari ancora adesso non me ne rendo conto. Si riparte. A volte vorrei fare, invece di parlare, di teorizzare, di cercare a tutti costi la comprensione. Fare. Ma per quanto mi ami, è dura, da soli.

 
foglio bianco

domenica 25 novembre 2012

Mondanità privata

C

onosco un metodo efficace per evitare i legami e le sofferenze che essi provocano: basta smettere di vivere. Ma io vivo, anche se la maggior parte di coloro che mi leggono storcerà il naso. E’ un vivere il mio? Si fa fatica a stare nel proprio mondo interiore, a convivere con le proprie ansie, i rigurgiti della coscienza, le piccole o grandi sfumature del dolore che il cuore disegna. Sono un amante della “mondanità privata”. Una sorta di ossimoro, ma questa definizione mi calza a pennello: è bello rendersi conto del fatto che non sono in tanti ad avere la possibilità e la capacità di vivere due mondi separati scegliendo di essere protagonisti dell’uno o dell’altro, a proprio piacimento. Di certo avere a che fare con le bizze del proprio Io è assai più logorante che sopportare 8 ore di lavoro e la restante parte della giornata a fare le cose più scontate e ripetitive. Però, volete mettere quanto è meglio crogiolarsi e frantumarsi il cervello nel capire chi siamo, dove andiamo e cosa vogliamo? Non riesco a trasmettere la necessaria ironia in quel che scrivo perché qualcuno di voi si sarà chiesto se sto scherzando o faccio sul serio. Quanti Enzo esistono a questo mondo? Quante persone forse, vorrebbero essere al mio posto? Ma forse nessuna, e togliamo il forse. Perché non c’è di che guadagnare. Mi sono sempre vantato di aver avuto a disposizione due vite da vivere; anche quando l’età giocava a mio favore, il mondo dei contorcimenti spesso prendeva il sopravvento sulla pura e semplice materia. Due porte sempre aperte, cuore e anima. Perché il cuore è il nostro ponte verso gli altri, l’anima invece è il rifugio nel quale rinchiudiamo noi stessi e ci specchiamo nella necessità di capire. Il mio cuore è quasi nuovo, lucido, peccato non lo si possa ammirare. E’ l’anima ad avere il fiatone e a rendermi superficialmente un uomo antico, pieno di pensieri, di strane paure. Vivere è pur sempre bello, anche quando si decide di lasciare da parte i perché, la voglia di capire, la paura di perdere qualcuno. Sono un uomo affetto da una fragilità emotiva ai più sconosciuta. Ma perdonatemi se la mia giornata è fatta di maschere, di sorrisi non tanto forzati quanto terapeutici. Non è così semplice esporre al mercato del mondo roba vecchia ed usata più volte; al mercato del mondo vince l’apparenza, il bello. Ma aspettate, ho appena detto che il mio cuore è quasi integro, pulito….E’ nuovo! E allora perché non metterlo in piazza? Se ci provassi, forse anche la paura di trovare qualcuno e allo stesso tempo di perderlo, svanirebbe. E anche l’anima avrebbe di che gioire. Porte aperte al cuore dunque? Chi merita, sarà il benvenuto. Tengo a sottolinearlo, chi merita.

 
sosta a camaldoli ceiw

sabato 24 novembre 2012

Ci vorrebbe il cuore

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he poi, alla fine, mi accontento di poco; capita quando ho la sensazione di sfiorare la perfezione e sul volto si dipinge un bellissimo, quanto raro, sorriso di soddisfazione. Mi basta una giornata di lavoro frenetica, ma alquanto produttiva, a togliermi il sonno sul regionale delle 17.20 lasciando liberi i pensieri, al di là del finestrino. Dov’è la perfezione che vado cercando? Non esiste, non esiste!! Oppure è lì, così vicina, quasi tangibile. Oggi ho dato il massimo, ero sicuro di me, mi sentivo forte. Eccola la perfezione. Che poi ai più tutto questo sfugge, appartiene alla normalità, perché il lavoro è parte dell’ordinario e non è certo lì che dobbiamo dimostrare a noi stessi quanto valiamo. Tuttavia, siete al corrente della mia arida vita, del mio deserto di momenti in cui mettere sul piatto tutto ciò che di buono ho a disposizione. E’ chiaro, evidente, provato che tutte le mie paure svaniscono non appena svesto i panni dell’alieno mancato e realizzo chi sono. Oddio, sono un uomo normale. Ecco, questo è il punto. L’appartenenza al mondo degli imperfetti è una quotidiana presa di coscienza dell’inutilità di una battaglia intrapresa da tempo e che mi sta logorando. Sostengo fortemente la tesi per cui chi di noi ha una percezione massima della superficialità, diventa schiavo della perfezione. La cerchi ovunque ma ti fermi ad un passo dal traguardo perché Lei, sta al di là di un muro invalicabile. Provare a scavalcarlo ci fa cadere a terra tante volte fino a perdere i sensi. L’orgoglio mi spinge a dire che non rinuncerò a cercarla, perché mi sento e voglio essere diverso dagli altri. Perché non posso accontentarmi di pensare che siamo tutti nella stessa barca. Ci sono momenti in cui penso a tutto ciò che di materiale offre la vita. Cavoli, ci è stata concessa solo un’opportunità, vogliamo sprecarla stando qui a dissertare di sensazioni, e dei soliti contorcimenti? Si, la vita è anche fatta di piacere, di evasione, per qualcuno di trasgressione. Questo lo so. Il fatto di essermi progressivamente curvato su me stesso non mi ha fatto dimenticare ciò che è estraneo ai sentimenti, ai pensieri, alla morale. Ci penso, eccome se ci penso. Ma cosa posso fare, il mio cervello è una macchina che non smette mai di lavorare, a volte s’inceppa, ma nessuno riesce a liberarla. Ci vorrebbe il cuore. Mi basta sapere di essere amato e voluto bene? Mi basta? Forse, se cominciassi io a farlo potrebbe cambiare qualcosa. Beh, non ci penso e mi lascio andare a questo Sabato, apparentemente inutile come tutti i giorni non vissuti come vorresti. Ma, sorridendo di me stesso continuo a ripetermi: “Ma cosa voglio?”.

 
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lunedì 19 novembre 2012

Obiettivi di Novembre

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apita frequentemente di perdere contatto con se stessi, si smarrisce il senso dell’orientamento perdendo di vista gli obiettivi primari. I nostri. L’aggettivo possessivo in questo caso andrebbe sottolineato con una doppia riga. E’ una lezione che facciamo fatica ad imparare perché questo pazzo mondo ci obbliga a porci in relazione con il prossimo. Ma chi è questo benedetto prossimo? Cosa vuole da noi? Cosa ci dà in cambio? Se prendiamo fregature oppure veniamo in qualche modo delusi, tiriamo in ballo il fatto di non aver pensato abbastanza alle nostre priorità, ai nostri obiettivi. Se poi decidiamo di ricominciare da noi, veniamo tacciati di egoismo. Me lo dite voi qual è la strada giusta da percorrere? In una fase della mia vita in cui finalmente posso dire di aver raggiunto il massimo livello di autostima, non intendo mandare tutto all’aria, riducendomi ad elemosinare la presenza di qualcuno. Una delle mie più grandi contraddizioni sta proprio nel cercare qualcosa facendolo però, nel posto sbagliato. Non voglio arrivare a dire che la distanza annienta i rapporti, ma fisiologicamente non li può mantenere vivi. L’ossigeno è, per me, ( lo sto ripetendo alla nausea ), la presenza. Cerco qualcosa nel posto sbagliato e finisco col chiedermi perché io lo faccia. Il weekend appena trascorso rappresenta l’archetipo dell’alienazione fisica e mentale di un uomo. Se sto usando il mezzo sbagliato me ne devo rendere conto e per farlo ho bisogno di avere chiari, quelli che sono i miei obiettivi. A volte finisco con l’odiare la sola visione di foto e immagini di persone che ridono, si divertono, esaltano in maniera fin troppo vistosa il loro essere felici ( ma lo saranno poi davvero?). Colpa dei social network che amplificano tutto, colpa di un personale sentimento di invidia che ancora non riesco ad abbandonare. Insomma qui è il caso di prendere un attimo coscienza dei propri mezzi e delle proprie possibilità. E io ne ho tanti, tantissimi. Perché mai dovrei provare a volare sapendo che le ali si scioglierebbero al primo raggio di sole. L’obiettivo è? Ecco, appunto, l’obiettivo, dov’è? O devo eternamente viaggiare alla giornata sperando che tutto cambi? Non voglio ferire nessuno, ma so che chi è dotato di buon senso sa cosa voglio dire: ringrazio di cuore chi mi vuole aiutare con le parole e gli incoraggiamenti. Vi voglio bene. Ma a me non basta. Chi ascolta i miei singoli battiti? Chi può star dietro alle miei occhi fissi sul soffitto di una domenica di Novembre? Nessuno. Nessuno può. Ma grazie, vi voglio bene lo stesso.


 

domenica 18 novembre 2012

La spada di Damocle

S

tamattina mi sono svegliato con il crampo allo stomaco. Sta suonando il campanello di allarme che innesca una consolidata sequenza di reazioni. E’ il segnale di noia incipiente e voglia di raggomitolarsi su se stessi. E’ il momento della solitudine terapeutica. Non mi importa di correre il rischio di apparire umorale, inaffidabile, egoista; questo è il mio momento ed è la soluzione quasi sempre necessaria a capire. Non so in realtà a chi io debba rendere conto di questo, spesso mi giustifico anche per le cose meno importanti. E’ un mio difetto di natura. La speranza è l’ultima a morire, non ho intenzione di abbandonare totalmente il campo di battaglia, ma non posso come dicevo ieri, vivere di rendita per altri lunghi mesi. E così ho deciso di ritornare al mio rifugio segreto, quello fatto di silenzio e isolamento. Ho tristemente scoperto di avere pregiudizi, di essere poco incline a cambiare opinione su qualcuno. E’ del tutto sbagliato fidarsi del primo impatto; si mostra tuttavia una spiccata intelligenza nel concedere al prossimo la possibilità di rifarsi e io non sempre lo faccio. Ma quando capita, fatico enormemente a dimenticare, a cancellarla, quella famosa “prima impressione”. Sono del tutto onesto e amo il rischio per cui non ho paura nel dire quel che penso. Qualcuno l’ha chiamata “spada di Damocle”. Io non sono perfetto, anzi. Sono pieno di difetti, contraddizioni interne, predico bene e razzolo malissimo. E sono troppo incline al giudizio. Ma sto pagando per questo, con la mia solitudine. Non credo mi smentirete se affermo che da tempo non mi lamento più del mio stato di uomo solo, anzi, converrete con me che ho piena conoscenza di quelle che sono le mie priorità al momento. Mi riferisco ad una vita meno stressante, che mi permetta semplicemente di lavorare con il cervello evitando di fare la figura dell’anziano smemorato. Il lavoro sta tornando in cima alla lista delle cose da sistemare, ho necessità di tornare a prendere fiducia in me stesso e trarre un briciolo di autostima dai nuovi compiti che mi sono stati assegnati. Al di là di questo non penso più di dovermi porre finalità che coinvolgano sentimenti ed emozioni. Ci ho provato, ma sono troppo rigido, troppo inquadrato, troppo condizionabile. Torno al mio rifugio segreto, ho tanto bisogno di sgombrare la mente da voci, parole, immagini, contrasti, che mi stanno confondendo le idee. Chiedo scusa. Qualcuno me ne vorrà. Non sto scappando da me stesso, ho solo bisogno di ritrovarmi di nuovo.

 
spada di damocle

sabato 17 novembre 2012

Aspettando Godot

I

l Sabato Milanese mi ha permesso di vivere abbondantemente di rendita per l’intera settimana, a livello emotivo e di impatto con l’ufficio. Lunedì mattina, mentre oltrepassavo i tornelli che mi portano alla metro ho avvertito un senso di soddisfazione inusuale ed atipico. Pensavo a tutte quelle volte in cui ho appoggiato l’abbonamento ed i tornelli si sono spalancati sull’ennesima settimana lavorativa: “Ecco, cosa ho combinato in questi due giorni?”, sempre lì a chiedermi. Nulla, di default, la risposta. La situazione lavorativa è alquanto strana nel senso che da neanche un mese mi sono accomodato in back-office e sto cominciando a fare i conti con le prime e prevedibili problematiche. Prima fra tutte, dover ricominciare daccapo ad imparare, a ragionare, e a chiedere. Odio consultarmi in continuazione, dovrei prendere appunti ma la materia e le casistiche sono talmente variegate da non prevedere risposte adeguate utilizzabili sempre. Avrei tanta voglia di lavorare cercando di capire cosa sto facendo e perché. Parrebbe una richiesta non particolarmente esosa, peccato si debba fare i conti con il caos generale. Ad un certo punto ho maturato l’idea ( direi piuttosto la convinzione ) che sarà meglio sbagliare e farlo da solo. Ora devo solo riuscire a gestire l’ansia, quasi sempre provocata dal senso di disordine materiale che regna sulla scrivania e che è frutto di lavoro arretrato. Ritorna il tema del tempo e della voglia di prenderselo tutto, quello che serve, per portare avanti il compito come sono capace. Se non andrà bene, pazienza. Non mi sono dimenticato della premessa iniziale: sicuramente mi rendo conto che vivere piacevoli momenti in compagnia di persone care aiuta a vivere meglio. Il Sabato Milanese mi ha permesso di mettere in cassaforte la convinzione che tutto è possibile, che gli squarci nel buio esistono, che devono essere magari anche voluti. Scrivo a distanza di una settimana: il cielo è nuvoloso, fa anche freddo, sono in posizione yoga sul piumone e l’abat-jour ad attenuare il riverbero. Sono tornato all’antico, ma sento che qualcosa può e deve ancora cambiare. Ritengo soprattutto di aver acquisito un’ottima capacità di tenere separati vita e lavoro; questo è già un bel traguardo. Non resta che riprovare a dare fiducia a chi al momento riempie la mia sterile vita sociale attraverso una presenza seppur virtuale. Riparto dalla ormai acquisita consapevolezza di chi sono, pregi e difetti compresi; quanto al “cosa voglio”, beh sto sempre aspettando Godot, probabilmente.

 
godot

domenica 11 novembre 2012

Di giallo e di blu

U

n tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più. Chiedo scusa per aver scomodato Battisti ma non trovavo l’incipit adatto a questo post. Di acqua ne ho vista e presa tanta ieri, e non era blu. Avete presente il classico pomeriggio Milanese di metà Novembre? Tutto è tremendamente grigio, una sorta di cartolina in bianco e nero dove si fa fatica a distinguere i soggetti in primo piano e lo sfondo. Uno scenario malinconico, quasi triste. Nessuna traccia di blu, almeno all’apparenza. Beh, alla faccia del tempo inclemente ( e non solo quello meteorologico ) e della distanza ( il mare della Sardegna è lontano da qui ) io ieri mi sono fatto un bel tuffo. E’ come quando ti crogioli al sole durante una giornata in spiaggia ed ad un certo punto senti il bisogno impellente di rinfrescarti. Ne esci rigenerato. Ho dissertato e tuttora disserto del tempo ostile e delle distanze fisiche che spesso riducono la mia vita ad un misero foglio bianco sul quale le azioni ed i gesti si ripetono meccanicamente; diciamo come un ripetente a cui è stato ordinato di scrivere cento volte ciò che fa fatica ad apprendere. Questi fogli sono tutti uguali, tutti perfettamente ripetitivi dello stesso concetto: se solo avessi vicine le persone a cui tengo, forse loro riuscirebbero a capire chi è Enzo. E credo si stupirebbero di non vederlo così serioso, rigoroso, intransigente con se stesso. Scoprirebbero che quegli occhi tristi e quelle labbra mai allungate in cenno di un sorriso in realtà hanno ben altro da dire. Oddio, non sono finto! Sono io, ma solo quello che prevalentemente vengo portato ad essere. Ieri sono stato doppiamente felice: innanzitutto perché ho incontrato per la prima volta dopo quasi 7 anni, una persona alla quale ero legato da amicizia epistolare; a compiacermi ulteriormente il fatto di apprendere che non sono affatto come mi si poteva immaginare, che so anche sorridere e che sono stato una piacevole sorpresa. Sono orgoglioso di questo e sono davvero felice di sapere che ciò che penso corrisponde alla realtà. E’ che, come sempre, noi siamo anche le persone con cui ci relazioniamo che spesso hanno il merito di tirare fuori ciò che teniamo nascosto dentro; quasi sempre poi, la nostra parte migliore. Sono felice di aver fatto questo tuffo e di averlo fatto all’interno di una cartolina dai toni grigi. Improvvisamente tutto ha preso colore, quello blu del mare, e quello giallo del sole. Grazie allora a te, amica mia, per il sole che mi hai portato, per il mare dove mi sono bagnato. Dei sorrisi, degli sguardi. Tempo, distanza, parole scritte, per una volta li ho nascosti nel cassetto delle cose inutili.

 
girasole

giovedì 8 novembre 2012

Sfoghi

Q

uesta settimana non mi è affatto piaciuta. Non mi piace quando il tempo mi trascina dove vuole e mi butta via come uno straccetto usato. Sono davvero cambiati i tempi. L’entusiasmo dei primi mesi si è andato gradatamente dissolvendo e con esso quella forza fisica e mentale che mi rendeva attivo e propositivo. Mi riferisco in modo particolare al mio ruolo di pendolare, a quello che, da questa vita terribile passata sui treni, può essere ricavato come vantaggio. Un libro, il pc, gli articoli scritti dalla prima declassata, una rivista, il mio corso di inglese. Dove sono finiti? Quando “infilo” il regionale mattutino ho solo il desiderio di addormentarmi; quando invece monto sul 17.20 se chiudo gli occhi, la testa comincia a pendolare vorticosamente. Sono stanco. E lo vedo sul lavoro. Il pendolare regala due ore di straordinario in entrata ed in uscita, ovviamente non pagato, anzi. Il pendolare non è efficiente sul lavoro. Diciamocelo, faccio errori da principiante e non me lo perdono. Sono un perfezionista, non posso e non voglio sbagliare. E se lo faccio non posso nemmeno tirare in ballo la stanchezza perché nessuno è in grado di capire o meglio, a nessuno frega nulla. Sono giovane, o relativamente tale. Quando faccio il mio lavoro vorrei sapere ciò che faccio, ciò che non devo fare, e magari anche essere aiutato. Questo non mi viene negato, anzi. Ma io sono stanco. Non ho la testa. Questa vita mi toglie non solo concentrazione e capacità intellettive, ma com’è noto, mi toglie vita. Tempo succhia vita. Arrivo alla fine di settimane come questa, decisamente demotivato e con tanta voglia di mollare tutto. Lo so bene che non lo farei mai, ma mi va di dirlo, anche solo per sfogarmi, anche solo per urlare a qualcuno che Enzo si è rotto le balle di fare questa vita che non è nulla, né carne né pesce. Poi tutto rientrerà rigorosamente nei ranghi, tutto tornerà alla più completa normalità. E continuerò a far finta che va tutto bene perché non hai nemmeno più il diritto di lamentarti di una vita becera. Perché il qualunquismo ti dice che hai un lavoro e non te ne puoi lamentare. E che sei in salute e non ti puoi crucciare. Ma questo puntino, questo piccolo puntino egoista, ha voglia di urlare che si è stufato. Così, tanto per dire qualcosa. Sono risucchiato dal tempo, non ho più voglia, sono un automa a tutti gli effetti. Non avrei scritto nulla fino a chissà quando. Del resto, a chi avrei potuto urlare il mio malessere evitando di sentirmi dire le solite frasi di circostanza? A nessuno, se non a questo foglio bianco.

 
urlohomer

domenica 4 novembre 2012

Spazi stretti

M

i sono volutamente tenuto lontano dal blog e da Internet in questi giorni del lungo ponte. L’ho fatto per due motivi: autoconvincermi di avere altro da fare che non fosse qualcosa di virtuale ed evitare di passare troppo tempo allo specchio. Niente però a che vedere con un improvviso attacco di narcisismo. Mi duole dirlo ma scrivere di se stessi è un’arma a doppio taglio; ingrandisce, fino a vederne i pixel, la propria immagine. Si perde contatto con il quadro generale lasciando spazio a pregi e difetti che risultano inevitabilmente in primo piano. Non dovrebbe essere così perché scrivere è bello, anzi bellissimo. Sono stato bene ed è ciò che conta; quel che più desidero ora è che non si tratti del solito stato di calma apparente cui solitamente sono seguite inevitabili ricadute. Avevo un certo timore di questi giorni da trascorrere nell’accidia più totale. Ma come sempre accade, quando ti metti di impegno riesci anche a tirare fuori qualcosa di buono dalle situazioni più impensabili. Ho avuto modo di pensare e ripensare al mio intorpidimento dei sensi e delle emozioni e a come alcuni amici mi abbiano più volte sollecitato e stimolato ad uscirne, pensando al buono che ne deriverebbe. Testardo ed orgoglioso ho sempre fatto orecchie da mercante. Ieri mi è capitato di scrivere una frase sul solito social network, che riporto qui: “Momenti, frangenti, attimi in cui distruggo le sbarre ed esco, fino a ritrovare una nuova fantastica sensazione. Voler bene, lasciarsi amare, fregandosene di tempo e distanza. Li prendo entrambi per mano e li porto là dove voglio io.” Penso si tratti di un sentimento estemporaneo che mi è piaciuto fissare attraverso le parole. Ma vorrei dal profondo del mio cuore che non fosse così. Per proseguire sulla strada che mi è stata indicata ho bisogno di fare tutto ciò che è possibile per farmi voler bene. Dunque, devo farlo io. Devo credere nelle persone, devo credere soprattutto in quelle che dimostrano di non fermarsi all’apparenza e vogliono scavare a fondo. Non c’è niente di più facile di vivere se, le barriere di cui mi sono circondato sono le stesse che io posso abbattere con un soffio. Tempo, distanza, qualità. Il primo manca, la seconda è in quantità esorbitante, la terza è possibile. Dovrei fare un bel repulisti e soprattutto smetterla di ostinarmi a cercare. Non si può pretendere di riempire la propria esistenza di persone che si sa, finirebbero con il rimanere semplici passaggi a vuoto. Non è così difficile, più vicine le voglio meno spazio devo creare, stretti stretti si sta meglio.

 
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