giovedì 21 marzo 2013

Ora di punta

L

a voglia di piangere non è altro che un pensiero in bilico sul precipizio mentre tutti gli altri cercano di mettersi al sicuro spingendosi e schiacciandosi a vicenda. Il mio cervello è un autobus nell’ora di punta, sempre affollato e perennemente in ritardo sui tempi di marcia. L’autista fa semplicemente il suo dovere, conducendo il mezzo a destinazione, fregandosene del carico. Così io, inteso come corpo. L’ammasso di carne e ossa chiamato Enzo è l’instancabile guidatore, mai domo sebbene costretto a vedere il suo autobus stracolmo di pensieri. Probabilmente, di tanto in tanto darà un’occhiata allo specchietto retrovisore e si accorgerà che qualcuno dei passeggeri potrebbe anche rischiare di essere sputato fuori per la calca. Immaginate un autobus di quelli che si vedono in alcune fotografie: sembra di ricordarmi siano Indiani, Pakistani o giù di là. Persone penzolanti al di fuori di questi improbabili mezzi di trasporto carichi, schiacciate come sardine. Qualcuno rischia sempre. Oggi l’autobus era invivibile, pure io mi sono messo d’impegno cercando di crearmi un improbabile centimetro quadrato di spazio vitale. Spingevano tutti, fino a quando qualcuno, sul fondo, vicino alla porta, ha messo un piede in fallo. Era il tramonto, la fine di una giornata come tante altre ma, più di altre bastarda nel suo movimento tentacolare intorno a corpo e mente. Una lettura può far bene, mi sono detto. Tuffiamoci nel giallo, almeno fino a quando la stanchezza non prenderà il sopravvento. Lo sguardo all’orologio, il treno che si ferma. Maledette precedenze. In quel momento, immobile davanti alla porta automatica in fondo alla carrozza, ho capito che c’era un passeggero dell’autobus che stava per cadere. Lo immaginavo, penzoloni, ad un passo dall’essere scaraventato a terra. Avevo voglia di piangere. Poi, con un colpo di reni è ritornato su, ritrovando il suo posto, nel pieno rispetto degli altri. La calca che si forma nelle ore di punta ha l’odore acre dell’umanità, quella che cerca un suo posto nel mondo, accontentandosi poi del sedile di un autobus. Ed io? C’è un posto anche per me? Continuo a guidare un autobus rumoroso i cui passeggeri ben poco si curano di un autista ormai rassegnato. Penso che qualcuno dovrà sacrificarsi. E con lui, ad uno ad uno, tutti gli altri. E in quell’autobus vuoto, ritroverò un pianto liberatorio.

 
169-1998ss


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