giovedì 23 maggio 2013

Una mano lava l’altra

N

on posso ignorare il fatto che è il lavoro ad essere in cima ai miei pensieri. Non potrebbe essere diversamente dal momento che occupa dodici ore al giorno della mia vita . Sono una macchina da guerra perché per me lavorare significa innanzitutto, esorcizzare. Arrivo in ufficio con il sorriso sulle labbra, esco con lo stesso identico fare scanzonato. Mai maschera fu più azzeccata per sopravvivere alla triste quotidianità delle otto ore da trascorrere con perfetti estranei. Sono una macchina da guerra perché nel lavoro dò tutto me stesso in termini di impegno e disponibilità; conosciamo bene ciò che tutto questo comporta a livello psicologico, ma è materia ormai vecchia. Sono una macchina da guerra quando nonostante tutto mi ritrovo a scrivere qualcosa di me e di queste giornate in fotocopia. In fondo, è l’unico vero momento di libertà e sincerità espressiva. Si potrebbe dire che è tutta energia sprecata, che il lavoro non vale tanta dedizione fisica e mentale; si dirà invece che per quanto mi riguarda, aver trovato un lavoro è significato aver rinunciato a vivere. Il processo di accettazione è in fieri. Non mi resta che pensare, che fare giri immensi ed acrobazie usando le parole scritte. Se non corressi il rischio di passare per matto, parlerei pure da solo, quando ne ho bisogno. Oggi faceva caldo. Che poi la cosa ti fa incazzare sapendo che domani saranno di nuovo nuvole. Non sono riuscito a salire sul treno e ho preso posto sulla panchina del binario baciata dal sole. Ho chiuso un po’ gli occhi: pensavo che ho fatto la mia parte in questi ultimi due mesi. Ho ristabilito un certo equilibrio interiore e ho fatto qualche progresso nel proporre un’immagine di me accettabile, non dal punto di vista estetico, questo è ovvio. Tutto naturale. Mi piace parlare di spontaneità dei gesti, delle azioni, delle reazioni agli stimoli. Mi piace perché mi sono finalmente liberato non delle maschere, ma dei periodi di calma apparente, quelli che preannunciavano le eruzioni distruttive. Ora mi sento piacevolmente pervaso da un senso di serena rassegnazione. Me ne accorgo quando, al termine di una telefonata sarei tentato di dire cose che, non dico. Sarei tentato dal cercare ancora e sempre un appiglio, una conferma, uno scoglio al quale aggrapparmi. No, l’appiglio sono io, l’ancora sono io; ovunque andrò, che si tratti di un viaggio oppure semplicemente delle solite escursioni interiori. Guardare con i miei occhi e non con quelli degli altri. Il passo è fondamentale.

 
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