mercoledì 27 marzo 2013

Odori e rumori

E

qui ti accorgi di qualcosa che sta cambiando ma, attenzione, potrebbe trattarsi di una semplice illusione. E’ la vita a dirti chi sei e dove stai andando. Te lo dice ogni volta in cui tu credi di averla capita, di conoscere ogni minuscola sfaccettatura del suo essere tale e puntualmente ti rendi conto che non è così. Probabilmente anche la vita più merdosa e noiosa come quella del sottoscritto può dire qualcosa. Oggi ad esempio mi ha ripetuto fino alla nausea che Enzo è forte, tanto forte. Enzo ha un cervello a prova di bomba, una resistenza fisica e mentale, una tolleranza, uno spirito di sopportazione inarrivabili. La vita noiosa e merdosa oggi mi ha detto che devo smetterla con le paturnie sull’autostima perché sono capace di arrivare dove altri cretini, ignoranti e presuntuosi, credono di essere già arrivati. Poveracci, sono spazzatura. Vedete che scherzi fa la vita? Lei non cambia, è sempre la stessa identica e monotona tuttavia agisce con tale insistenza su di noi, da renderci incredibilmente forti. Oggi ho tirato fuori il meglio di me quanto a sopportazione. Oggi odiavo la gente. Ho pensato ad un certo punto di intitolare questo Mercoledì : la giornata della puzza e del rumore. Non avevo mai incontrato così tanta gente poco avvezza all’uso dell’acqua e sapone. Ne incontro tantissima ogni giorno, mi sfiata addosso, mi mostra le squallide terga debordanti, russa scattando e colpendomi le braccia. Forse per quello odio l’umano. Perché non ne sopporto nemmeno più l’odore. Desidero uno spazio vitale e di movimento tale che la gente non possa starmi a meno di un metro dal corpo. Divertente! E del rumore? Passi quello dell’ambiente di lavoro. Ma faccio una fatica tremenda a sopportare i cellulari che suonano, i cafoni che urlano alle 7 del mattino. Poi arrivo a casa, mi siedo sul cesso senza nemmeno accendere la luce: ho bisogno di due cose più che espletare il bisogno. Queste cose sono : buio, e una mano a stringere gli occhi nel gesto di liberare la tensione. E’ da qualche giorno che arrivando a casa, saluto mia madre, scambio persino qualche parola prima della doccia. E poi, a cena, provo anche a raccontare qualcosa della mia giornata. So che loro non capiscono o meglio, non possono immaginare. Ma ho smesso di buttare la valigetta sul letto, di blaterare a bassa voce improperi. La vita non cambia, è sempre un’orrida sequenza di gesti, parole, rumore e…puzza. Io ascolto quello che ha da dirmi ( a volte lo fa ) e vado avanti.

 
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martedì 26 marzo 2013

Nel limbo

I

nutile girarci intorno, sono un uomo spensierato. Non immaginatemi però a fare capriole, ridere a crepapelle, senza più alcun neurone cattivo a soffocarmi il cervello. Sono lontano dai pensieri oppure sono loro lontani da me. In questo secondo caso mi preoccuperei. Ma devo accettare la situazione, limitandomi ad andare al lavoro, tornare a casa cenare e dormire: niente di nuovo se non, appunto, l’assenza dei soliti picchi emotivi che io stesso, la vita, le persone, mi provocano. In questi stati di pseudo benessere cambia indubbiamente la percezione degli altri, scompare quasi del tutto l’analisi interiore, si vive in una sorta di limbo. Dunque, sto per andare in paradiso oppure mi appresto a precipitare all’inferno. Cosa ne sto ricavando? Nulla se non qualche fitta allo stomaco in meno. E le maschere, che fine hanno fatto? Le indosso con meno consapevolezza, resto un bravo attore, un po’ meno nella parte, ma con il copione ben saldo nelle mani. La mente libera consente di far passare pensieri non per questo positivi, ottimistici o di grande speranza. Diciamo che sembro uno di quegli operai addetti a scegliere i prodotti migliori che passano sul nastro trasportatore separandoli da quelli difettosi. Ad esempio, parliamo di amicizie. L’inverno appena trascorso (?) è stato decisamente impegnativo sul piano emotivo e assai dispendioso in termini di energie mentali. Una buona parte di responsabilità è mia, del resto possiamo solo complicarci la vita quando l’approccio verso il prossimo è in primis, rude e diffidente. Non nascondo che nel momento di maggiore vigore negativo ho odiato molto, passavo in rassegna molte facce, e quasi tutte avevano l’aspetto degli assenti ingiustificati, dei traditori. Ho desiderato essere solo, l’ho fatto talvolta con grande orgoglio altre volte con disperazione. Qualcuno storcerà il naso se dirò che per me, ora tutti fanno parte dello stesso mondo. Quello delle persone, mica degli stronzi. Nessuno è stronzo, nessuno è assente, presente, amico, virtuale o reale. Nessuno è qualcuno. Perché, a prescindere dalle mie fasi di rabbia o serenità, sento il bisogno di tutti e di nessuno. Non ho mai nascosto di essere uno di quegli amici che io rimprovero di non esistere nei momenti di bisogno. Sono come tutti gli altri. Ciò è quel che penso ora, in uno stato di strana tranquillità. Non sono più alieno? Non desidero più fuggire da qui? Non vedo più il nemico? Mi si è fumato il cervello? Sono solo nel limbo, sto aspettando la prossima ascensore e chissà dove mi porterà.

 
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lunedì 25 marzo 2013

Di Lunedì

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otrei anche non scrivere nulla. Il Lunedì è un giorno strano. Parto stranamente motivato tanto che qualcuno in ufficio stamattina : “ Enzo, come mai tutta questa voglia di lavorare il Lunedì?” . Eh, non è facile rispondere se non ammettendo che la voglia esiste davvero ma al solo scopo di esorcizzare. Le solite, infinite facce della stessa medaglia. Anche il lavoro può rivelarsi una medicina, anzi lo è sicuramente. Durante le otto ore canoniche i pensieri rimbalzano come una pallina nel flipper ma non fanno male, scivolando mestamente nel buco. Di questi giorni voglio sottolineare ancora la buona predisposizione verso il prossimo, una certa serenità d’animo che mi spinge ad elargire persino consigli. Io che sono l’ultimo a poterlo e doverlo fare. Sembrerò egoista ma nelle fasi che seguono a quelle di grande rabbia mi sento quasi filantropo; non dico di amare il mondo, questo no. Semplicemente provo ad accettarlo. Ne guadagno sensibilmente in termini di coerenza, riuscendo a non apparire il solito umorale, oggi leone domani agnello. Vorrei, gradirei con tutto il cuore apparire una persona come si deve. Mi faccio una risata perché fino a qualche giorno fa quasi mi vantavo della mia pazzia, della mia ostinata lotta contro il male. Possibile che ora sia diventato un uomo normale, dannatamente umano? Semplicemente di questi ultimi tempi ( e l’ho già fatto notare ) mi sto fossilizzando sul tema della vita senza però guardare egoisticamente la mia. Osservo i miei genitori, faccio molti pensieri, calcoli, sento che il tempo stringe sempre e che devi sempre prendere tempo. Maledetto, maledetto tempo. A volte ti passano davanti gli anni sprecati, le occasioni mancate, e in questo momento vorrei tanto riprenderlo, riavvolgere il nastro ed essere quel figlio che poteva essere migliore. Pazienza, nessun rimpianto. Ora voglio prendere il tempo per la gola, vorrei che perdesse i sensi in modo da regalarmi il lusso di godermi le persone care il più possibile. Non capita quasi mai che si abbia tempo per riflettere su queste cose. E so che purtroppo basterà un niente per tornare ad essere il solito. Ma guardarli i miei, studiarli, e viverli regala un senso di pace. L’esatto opposto di ciò che accade quando faccio questo lavoro su di me. Va bene così Enzo, lascia che sia.

 
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domenica 24 marzo 2013

Morbidezza

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onsiderati anamnesi e quadro clinico attuale, è tutto sotto controllo. Non passerò nemmeno più per pazzo azzardando una possibile funzione terapeutica delle giornate grigie e piovose fuori stagione. Almeno in questa fase post-rabbia esse sembrano regalarmi un senso di morbidezza caratteriale, del tutto inusuale quanto inaspettata. Ieri ho letto e riletto il mio articolo dopo averlo pubblicato e l’ho trovato appunto…”morbido”. In effetti non ha torto chi sostiene che ciò che sei è ciò che appari, di conseguenza che tu sia sincero oppure indossi una maschera, gli altri recepiscono ciò che vedono. Non attrai l’interesse di qualcuno ( ammesso tu voglia farlo ) facendo il mare mosso. Stattene calmo e morbido, male che vada starai bene solo tu, e gli altri continueranno a non accorgersene come sempre. E’ sintomatico di una reale seppur piccola evoluzione il fatto di non aver avuto bisogno della nuova luce di primavera per migliorare il mio essere e sentire. C’è buio fuori, c’è pioggia. Dunque è merito mio e solo mio se, almeno per ora, navigo in acque calme. Ho pensato molto agli altri, in modo particolare alla mia famiglia. Gli anni passano, le mamme invecchiano, il tempo ci prende maledettamente per il culo. Per quanto ci impegniamo, il carpe diem sembra sempre qualcosa di irrealizzabile. Se volessimo davvero cogliere il giorno ci dovremmo adoperare per renderlo piacevole; ci vuole troppo tempo però, molto più di un giorno. Tutto sfugge al nostro controllo nel corso delle nostre ventiquattro ore di bonus quotidiano. Non possiamo pensare a tutto e a tutti, ci sfugge sempre e comunque qualcosa. E non possiamo di certo programmare l’affetto per i nostri cari a seconda del tempo a disposizione. E’ tutta una presa per i fondelli. Pazienza. Mio padre parla poco, pochissimo, tiene tutto dentro. Dopo tantissimo tempo oggi è uscito così “ Ecco, io sto bene quando vedo te che stai bene”. Che bella cosa. Ciò vuol dire che non sto indossando la maschera della sopportazione, della rassegnazione; ciò significa che a lui è arrivato il messaggio di un Enzo sereno. Mi sono premurato nel rispondergli che non è proprio così, e che lui lo sa. Ora, se non indosso la maschera, se sono io davvero, il fatto è che trasmetto questo. Mi devo preoccupare?

 
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sabato 23 marzo 2013

Sarà destino

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iciamo che nella mia vita ci sto bene fino a che non guardo l’erba del vicino. Trattengo l’invidia perché mi fa male, ma l’occhio dall’altra parte ce lo metto eccome. Poi ritorno sui miei passi e penso che ognuno di noi percorre ( ed ha percorso ) una strada che gli era stata preparata. Non posso non essere fatalista, anzi devo, perché il solo accettare l’idea del libero arbitrio scatenerebbe una quantità industriale di sensi di colpa. Ma l’atteggiamento fin troppo difensivo e compassato di questi ultimi giorni è frutto di una (spero non temporanea ) accettazione del fato. Che non vuol dire rassegnazione ma consapevolezza di aver fatto quanto possibile. Almeno fino al punto in cui la strada è stata (e sarà) un lungo, lunghissimo rettilineo. Stamattina pensavo al futuro, non so se immediato o prossimo. Non erano pensieri belli, di quelli che ti fanno luccicare gli occhi dalla felicità e dire che la vita poi, è bella. Erano i soliti pensieri, quelli che hanno le radici nella terra più profonda, che sono maledettamente veri perché tragicamente possibili. E ti chiedi se avrai mai la forza di superare tutto, anche l’irreparabile. Basta, era solo un pensiero. Ritorno a guardare le vite altrui non certo per consolarmi perché non amo chi vive della teoria per cui qualcuno al mondo sta sempre peggio di noi. E non amo neppure chi, senza nemmeno conoscerti vuol farti credere che la vita è bella e basta prenderla con il sorriso sulle labbra. Sto dunque navigando nel mare del “non chiedere per non aspettare” e del “non dare per non pretendere”. Un equilibrio che mi libera delle scorie del recentissimo passato incazzato e anche un po’ codardo. Non so se sono realmente io, se si tratta della solita maschera. Ho avuto molta voglia di piangere durante quest’ultima settimana. Mi sono chiesto che differenza passi tra caso e fortuna. E se si possa ragionevolmente affermare che, un evento obiettivamente favorevole ( non direi fortunato ) possa arrecare più danno che vantaggio. Irrazionale no? Eppure io sono convinto che a volte la scelta non la devi fare tu, ma la fa qualcuno ben più potente di te. E tu da misero uomo quale sei, pensi : “Sono stato fortunato!”. Peccato, quella strada da lì a poco, ti farà cambiare idea. Attenzione, trattasi di teoria dell’Enzo che, come si sa, è sostenitore del buon vecchio destino.

 
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giovedì 21 marzo 2013

Ora di punta

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a voglia di piangere non è altro che un pensiero in bilico sul precipizio mentre tutti gli altri cercano di mettersi al sicuro spingendosi e schiacciandosi a vicenda. Il mio cervello è un autobus nell’ora di punta, sempre affollato e perennemente in ritardo sui tempi di marcia. L’autista fa semplicemente il suo dovere, conducendo il mezzo a destinazione, fregandosene del carico. Così io, inteso come corpo. L’ammasso di carne e ossa chiamato Enzo è l’instancabile guidatore, mai domo sebbene costretto a vedere il suo autobus stracolmo di pensieri. Probabilmente, di tanto in tanto darà un’occhiata allo specchietto retrovisore e si accorgerà che qualcuno dei passeggeri potrebbe anche rischiare di essere sputato fuori per la calca. Immaginate un autobus di quelli che si vedono in alcune fotografie: sembra di ricordarmi siano Indiani, Pakistani o giù di là. Persone penzolanti al di fuori di questi improbabili mezzi di trasporto carichi, schiacciate come sardine. Qualcuno rischia sempre. Oggi l’autobus era invivibile, pure io mi sono messo d’impegno cercando di crearmi un improbabile centimetro quadrato di spazio vitale. Spingevano tutti, fino a quando qualcuno, sul fondo, vicino alla porta, ha messo un piede in fallo. Era il tramonto, la fine di una giornata come tante altre ma, più di altre bastarda nel suo movimento tentacolare intorno a corpo e mente. Una lettura può far bene, mi sono detto. Tuffiamoci nel giallo, almeno fino a quando la stanchezza non prenderà il sopravvento. Lo sguardo all’orologio, il treno che si ferma. Maledette precedenze. In quel momento, immobile davanti alla porta automatica in fondo alla carrozza, ho capito che c’era un passeggero dell’autobus che stava per cadere. Lo immaginavo, penzoloni, ad un passo dall’essere scaraventato a terra. Avevo voglia di piangere. Poi, con un colpo di reni è ritornato su, ritrovando il suo posto, nel pieno rispetto degli altri. La calca che si forma nelle ore di punta ha l’odore acre dell’umanità, quella che cerca un suo posto nel mondo, accontentandosi poi del sedile di un autobus. Ed io? C’è un posto anche per me? Continuo a guidare un autobus rumoroso i cui passeggeri ben poco si curano di un autista ormai rassegnato. Penso che qualcuno dovrà sacrificarsi. E con lui, ad uno ad uno, tutti gli altri. E in quell’autobus vuoto, ritroverò un pianto liberatorio.

 
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mercoledì 20 marzo 2013

Una tavola blu

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poi penso a quelle giornate d’estate senza un alito di vento ed al mare calmo da sembrare una tavola. Potresti camminarci sopra senza per questo offendere chi, secoli e secoli fa, lo aveva già fatto riscuotendo un successo invidiabile. Passatemi la blasfemia, l’ironia, la voglia di sdrammatizzare sempre e comunque. Cammino a testa bassa, fissando i piedi che ad un ritmo forsennato, seguono la solita traccia verso XVIII Dicembre. Probabilmente rischio ogni santo giorno di sbattere la testa contro un palo o di scontrarmi contro i soliti passanti lenti, impacciati. Ma come fanno? Ma non hanno niente da fare? Ma perché se la prendono così comoda? Mi rendo conto di essere una macchina, vittima e zerbino di un tempo che si è impossessato carnalmente di me, non prima di essersi preso il cervello. Tutto sulla mia strada sembra rappresentare un ostacolo al raggiungimento di qualcosa. Ma che cosa, Dio santo? Cosa? Corro, perché devo prendere la metro. E penso. Ieri ero uno stupido parabrezza, oggi il mare. Fatta di strada, no? Oggi sono il mare, quello calmo ma calmo davvero; quello che, guardi il cielo e vedi che è blu. Ma di quel blu che non c’è pericolo possa d’improvviso caricarsi di grigio. Oggi ero il mare che non teme di alzarsi e devastare tutto con la rabbia repressa delle onde stanche di aspettare. Mi piace e mi fa paura. Perché è raro poter dire di stare bene senza il terrore di essere smentiti di lì a poco. Lo dico io, credetemi. A me capita, anzi è del tutto normale per il masochista, credere che il proprio stato di benessere sia in realtà un momento di stanca del male cosmico che tanto, tornerà. Mi fa paura pensare che sto diventando un bella distesa blu e che non avrò bisogno di qualcuno per risultare piacevole da guardare, da vivere. Proprio come il mare in una giornata d’estate senza vento. E allora va bene così, Enzo. Ho tirato i remi in barca, ho deposto l’ascia di guerra perché ho capito che non è facendo il mare mosso che qualcuno cavalcherà la mia vita. Ma non illudetevi di questa tavola piatta. Piuttosto gioite del fatto che mi attraversano la mente pensieri positivi, che riesco a credere all’impossibile. Pensate che in una giornata d’estate senza un alito di vento vorrei essere il mare e camminarci pure sopra. Cavalcare la vita significa anche solo percorrerla. E detto da me, sa di miracoloso.

 
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martedì 19 marzo 2013

Raschia che ti passa

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uongiorno piccolo ed inutile uomo, sei pronto per la tua ennesima ed inutile giornata? Forza, prendi lo zaino ed infilaci dentro le solite cose che tu sai: maschera, tolleranza e aggiungerei un pizzico di stupore. Troverai sempre qualcuno capace di far vacillare ogni tua certezza; a questo punto, non dimenticare l’antidoto. L’autostima fa miracoli, lo sai. Le mie giornate iniziano così, la voce fuori campo mi sveglia quasi sempre mezz'ora prima del previsto nel caso mi scordassi di iniziare a pensare, nel caso poi mi ritrovassi a lamentarmi a fine giornata. Non dire che non ti avevo avvisato, direbbe la voce fuori campo. Anche l’elegante stazione barometrica sulla mensola della libreria faceva mostra della sua bella maschera di apparenza. La luce lampeggiante arancione nel buio della stanza pareva evocare teneri e compassati risvegli. “Ice alert”. Cristo, ancora ghiaccio! Sapete, non faccio mai caso ai miei gesti mattutini tanto sono ripetitivi e destinati ad un immediato dimenticatoio non appena oltrepassata la porta di casa. Sarebbe curioso sapere se poggio prima il piede destro, oppure il sinistro ad esempio. La stazione barometrica non sbagliava. Ho ritrovato la mia vecchia auto coperta da uno strato di ghiaccio spesso come mai avevo visto durante l’inverno. Ho tirato fuori una vecchia paletta dal cassettino del cruscotto e ho cominciato a raschiare. Non veniva via. Ho immaginato di essere un bel parabrezza e che qualcuno provasse con tutte le sue forze a ripulirmi da quello spessore, senza poi grandi risultati. Certo che pensare od il solo immaginare metafore della vita quando il tuo treno partirà da lì a poco è sintomatico di sana follia. Mettendomi dunque nei panni del parabrezza potrei capire le imprecazioni di coloro che da tempo stanno usando palette ben più grandi per scardinare la lastra che mi copre il cuore. Non ci sono treni da prendere, c’è una vita che va avanti, che non sai quanto tempo hai; forse ne hai tanto oppure niente. Chi va di paletta non vuole perdere tempo. Ma io non sono un parabrezza. Riscoprire nei gesti quotidiani anche i più banali significati della vita non sarà come dare un senso ad essa, ma aiuta a riflettere sul significato che io, ho deciso di darle. E non mi allontana dal mondo così tanto, visto che una gran parte di esso perde il suo tempo a credere nelle cose più inutili. Ora la voce fuori campo mi chiama, devo andare.

 
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lunedì 18 marzo 2013

Ricicliamo!

P

enso di essere morto migliaia di volte proprio come te, amico mio blog. Siamo duri a farci abbattere dalle nostre stesse parole, dal casino che facciamo quando cerchiamo di capire chi siamo. Abbiamo bisogno di buttare nel cesso non solo le farneticanti parole che ci arrivano da fuori, ma le nostre stesse frasi con cui vogliamo zittire il mondo. Nostro malgrado siamo complici del male. Bisogna provare nella vita cosa vuol dire vivere il silenzio. Al giorno d’oggi non è facile, per il semplice fatto che non riesci a stare solo neanche volendolo. Ma io non volevo essere cercato? Oh mamma, no! Non ho mai detto questo, vero blog? Quando ci mettiamo d’impegno lo facciamo semplicemente per dire cosa pensiamo. Tutto chiaro no? Riemergo per un attimo dal mio mondo per rassicurare me stesso che sto bene, sto avendo tantissime risposte. E tutte portano dritte verso la strada della completa solitudine. Ma sono stato davvero un povero idiota, oltre che presuntuoso. Attirare l’attenzione è un gioco squallido, meschino, un infantile modo per dire che esisti. Si, è vero, ci sono e respiro. Lo sapete che ci sono momenti in cui sto maledettamente male? E che in quei momenti penso spesso a gesti sconsiderati? E sapete che a volte quando sono solo, vi odio tutti? E che invece, quando mi sveglio bene, mi siete tutti indifferenti? A qualcuno interessa tutto ciò? Beh, a prescindere dal fatto che interessi o meno, ho davvero intenzione di trasformare questa mescolanza di rabbia, rancore, senso di spregio, in qualcosa di riciclabile a nuovo utilizzo. Proprio come i rifiuti. I sentimenti non esistono, nemmeno le emozioni. Sono oggetti di plastica senza anima ma comodi in apparenza e davvero funzionali. Ho sempre preferito la strada dell’onestà. Ho sempre pensato che per vivere o dimostrare un sentimento lo si debba sentire in modo autentico. Se non si è capaci, tanto vale decidere. Possiamo utilizzare la plastica e poi gettarla, tanto ricaveremo un nuovo oggetto. Mica male no? Le amicizie sono utili allo scopo se no che amicizie sono? Le viviamo meglio e la smettiamo di lavarci la bocca con paroloni ipocriti. Oppure, deponiamo l’ascia di guerra, e abbandoniamo l’idea Machiavellica. Dunque, usiamo il vetro no? E ‘ trasparente. E in modo trasparente, diremo ciò che pensiamo, diremo che non siamo in grado di essere amici di nessuno, che la solitudine è il nostro pane. Un mare di onestà, dove io ora sguazzo.

 
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giovedì 14 marzo 2013

In santa pace

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robabilmente trascorrerò il resto della mia vita a dire, fare, pensare sempre le stesse cose. Scriverle però, sta diventando ormai un peso insopportabile. Se sono ancora qui non è certo per urlare più forte, per chiedere aiuto, per fare la vittima di turno. Se sono qui è colpa di quel rigurgito di rabbia che ancora monta dallo stomaco e fatica a morire. Ma questo blog ha i giorni contati. Quando quel poco di istinto che mi rimane finirà sotto le grinfie della ragione, non ci sarà più nulla da dire, da fare, da scrivere. Non sopporto più le persone, mi odio quando vengo qui a ripeterlo. Se volessi mettere le mani avanti, indosserei il vestito da ipocrita e direi che non è poi colpa vostra. E invece lo è eccome. E’ colpa vostra quando siete virtuali, lo è anche quando siete reali. La vostra colpa è essere umani, dunque imperfetti. Ma chi mi credo di essere? Sono un uomo perfetto per caso? Certo, il più perfetto che esista, colui che ha deciso di vivere i prossimi anni della sua vita rifuggendo e rifiutando ogni contatto umano. Se non pensate che ciò voglia dire perfezione, allora sentitevi in dovere di mandarmi a fanculo. Fino a quando avrò la fortuna di vedere e parlare con i miei ormai anziani genitori mi convincerò che in fondo sono loro a potermi capire, sebbene costretti a sopportarmi. E fino a quando ci saranno loro, io potrò anche punirmi di non essere cresciuto. Ma si, datemi pure del bamboccione. Se pensate che essere perfetti significa invece avere la maledetta capacità di conoscersi così bene da rifiutare di farlo con altri allora vi complimenterete con me. Ho ancora un piccolo passo da compiere, ed è quello verso la completa accettazione di me stesso. I miei vaffanculo sono rigurgiti di rabbia. Si dice che fino a quando ci si lamenta, ci si arrabbia, persino si odia allora si vive. No, ci ho ripensato. Vivere è giungere a piena conoscenza di ciò che ci circonda e scegliere la strada giusta per continuare il cammino. Nessuno mi ha imposto come obiettivo finale quello di conoscere le persone, chi lo ha detto? Sono solo costretto a doverle vivere e a dispensare brutte parole per ognuna di esse. Chi legge questo articolo e pensa di non avermi fatto nulla di così grave per essere odiato a tal punto, si metta il cuore in pace. Non è colpa sua. Ma neanche mia. Ma non appena questo blog morirà, esultate. Sarò finalmente libero, in santa pace.

 
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martedì 12 marzo 2013

Trentacinque righe

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’ una malattia, una vera e propria dipendenza patologica. Il controsenso dei controsensi è scrivere quotidianamente di una vita in cui nulla accade. Vorrei perdere la capacità di guardarmi dentro , come già dicevo ieri. Ambisco ad essere bravo a livello descrittivo, per dare vita a questi fogli smorti e raccontare cosa mi accade intorno. Cavoli, sto scrivendo a manetta, praticamente tutte le sere, ben sapendo di non avere niente da raccontare. Ma come riesco? Al momento è l’istinto a portarmi qui. Penso : “Io provo a sedermi, apro il foglio e se mi viene l’incipit, è fatta”. Ammetto che qualche mese fa ero più sensibile a ciò che mi girava attorno, a cominciare dal lavoro. Non ne parlo più tanto, è ormai parte del tutto e del niente. E dire che conduco una vita che, nel bene o nel male, ha un tratto distintivo da fare invidia ad alcuni. Una vita che mi permette di sviluppare le capacità di osservazione, di studio, di analisi. Degli altri, però. Incontro centinaia e centinaia di facce ma poi, parlo solo di me. Ammazza se sono noioso. Ce l’ho fatta ad allontanare tutti o quasi, ora sono davvero solo. Il pensiero ricorrente di questi giorni è proprio questo: ho fatto terra bruciata a furia di ragione. Ne devo andare fiero? Non so se esista un fondo più fondo, se devo raschiare ancora il barile. Mi sento solo corpo. Le settimane sono lunghissime. La mattina gli occhi sono aperti circa mezz’ora prima della sveglia: hanno inizio le danze. Il treno, la metro, e poi la passeggiata finale. Ecco perché non scrivo di ciò che accade intorno, ora l’ho capito! Guardo, non osservo. Voci, gambe, facce,tutto mi scorre davanti mentre fingo di osservare ed in realtà sto già da un’altra parte. Miei cari amici e lettori, capite ora quando dico che a me non è concesso essere sereno? Trentacinque righe ogni sera. Mi viene da ridere. Ora ho bisogno di una rassicurazione: qualcuno, vi prego, mi dica che non serve che io scriva ogni sera trentacinque righe di nulla. Che farei bene ad occupare il mio tempo in altro modo. Che potrei si, pensare. Ma tenere tutto dentro, perché il mondo è quello là fuori e con il mio mondo interiore non ci faccio un cavolo di niente. E’ sera, ecco servite le mie trentacinque righe: cui prodest? Vado a dormire più tranquillo? Macché. Signori e signore, quest’uomo non ce la fa, non ce la può fare perché ha capito che dipende da lui. Mio Dio, domani sarò di nuovo qui.

 
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lunedì 11 marzo 2013

Linea di confine

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i certo, negli ultimi tempi, c’è solo la mia incertezza. Persino la linea di confine tra virtuale e reale si sta progressivamente assottigliando e non potrebbe essere altrimenti. Neppure io ho l’esatta percezione di chi sono: virtuale o reale? Le maschere sono utili, non ne dubito, ma se non unisci buona memoria ed allenamento il gioco ti si ritorce contro, proprio come quando si raccontano le bugie. Partendo da questo presupposto, dovrei finalmente aver chiuso un altro capitolo, quello relativo all’eterna lotta tra ciò che si tocca e ciò che si può solo pensare. Chi ha vinto? E che ne so. Finalmente la smetterò di ragionare a compartimenti stagni, a lamentarmi della presenza-assenza, tanto tutto è ormai tremendamente mescolato. Forse nel momento in cui capirò di essere reale, avrò modo e ragione di lamentarmi. Voi sapete benissimo che una sostanziosa parte di ciò che scrivo e che dico non è frutto di un ragionamento. Non riesco nemmeno più a scrivere le mie bozze in treno. Devo andare a ruota libera, dunque tutto lascia sempre il tempo che trova. Magari domani mi troverete qui a lamentarmi del virtuale. Quello dell’amicizia è un discorso polveroso come me, senza capo né coda. Potrei lasciarmi tentare da “casi virtuali” che danno merda a quelli “reali”. Vero, verissimo che spesso nella vita di tutti i giorni non si riesce a trovare la stessa empatia che a volte riserva il mondo parallelo. Potrei anche lasciarmi andare al discorso ( apparentemente più razionale) secondo cui, alla fine di tutto, un abbraccio, la famosa pacca sulle spalle, sono momenti irripetibili sebbene fulminei e fugaci. Oggi voglio solo lasciarmi andare a ciò che provo in questo esatto momento e non è facile perché sono già, come dire, “in differita”. Ma non è stato un lunedì come tutti gli altri.Perché da oggi sentirò la mancanza di alcuni momenti che non avevano niente dell’ordinario, o di scontato; mi mancheranno perché quando li vivi sembrano inchiodati al tempo, infiniti. Quel saluto, quel ricordare cose belle e brutte. E finire sempre tutto con un sorriso. Ecco, quando penso a questo, penso alle parole amicizia e realtà.Voglio ringraziare attraverso queste righe chi , in questi due anni è stata una mia bella “realtà”. E tu sai quanto sono bravo ad imbarazzarmi e ad abbassare gli occhi. Vigliaccamente uso questi fogli, ma tu ben capirai. Grazie di cuore.

 
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domenica 10 marzo 2013

Tutto scorre (là fuori)

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orrei parlare del tempo, delle mezze stagioni che non esistono più, di questa nebbia che offusca i pensieri. Non ce la faccio ad andare oltre, ad osservare i dintorni, descriverli, trovarci un motivo valido per dire : “Oggi sono sereno”. Non mi accorgo della realtà, della vita, della natura. In fondo gli alberi fioriscono, i campi mano a mano diventeranno di un verde brillante, le mattine più sopportabili. La vita là fuori se ne fa un baffo del sottoscritto. Può fregare qualcosa di me agli uccellini che cominceranno a scandire il mio passaggio sotto il viale della stazione? Frega qualcosa di me al sole che tornerà come sempre ad illuminare la campagna fuori dal finestrino? Ma non riesco, è più forte di me. Mi conosco bene: già da piccolino, più mi si diceva di fare qualcosa, più mi ribellavo. La mia mamma voleva farmi imparare a sciare; ma io non amavo quel maestrino che cercava di tenermi in equilibrio sulla neve. Non a caso detesto il freddo e i panorami bianchi. Il problema è che sto passando tutto in secondo piano; il mio ordine mentale prevede lo studio a tavolino delle emozioni. Roba da matti, ma è così. Ho bisogno di stare bene con me stesso per poter godere appieno delle persone, delle cose, dei momenti, della vita intera. Il destino è segnato, sto imparando ad accettarlo e mi calza a pennello. Mi muovo e con me il mio futuro, un unico pacchetto che rotola liberamente verso un punto indefinito. Ho addirittura pensato che se cominciassi a dire e a scrivere stronzate di vario tipo ( ma forse lo sto già facendo) riuscirei a non farmi ricadere addosso il peso dei pensieri. In fondo si tratta di un circolo vizioso. Io penso dunque scrivo dunque penso. Contraddizioni, ma al tempo stesso espressioni di una mente contorta, pensante che non riesce a comunicare; non è il disagio che voglio urlare ed inculcare nella gente. Io vorrei la gente capisse che non mi è concesso di stare bene. Non storcete il naso, non tirate fuori luoghi comuni. Posso dire che il mio status è indipendente dalla mia volontà? E che magari ci provo ma c’è un maledetto ingranaggio che blocca tutto? Sono quella lancetta che si ostina a voler scandire i secondi quando l’orologio ha esaurito le batterie. Apro gli occhi dai, se non riesco a sbattere nella vita è importante evitare di farlo contro un palo.

 
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sabato 9 marzo 2013

L’appuntamento

P

oteva mancare il post depresso del Sabato? Attenzione però, qualcosa è cambiato davvero. Mentre faccio andare le dita sui tasti ci sto ridendo su, non sono mica triste, pensate forse che possa ancora provare emozioni e sensazioni? Il post depresso del Sabato è un appuntamento al quale cerco sempre di non mancare perché è pur sempre un modo ( il mio modo ) per ricordarmi che ancora respiro, nonostante tutto. Faccio tutto da me. Il post depresso del Sabato ferma il tempo e lo congela quel tanto che basta a raccontare le stesse solite cose. Chissà perché ma mi sono messo in testa che il Sabato debba essere il giorno del masochismo per eccellenza; mi voglio fare male ( che poi male non sento più ), voglio ricordarmi che sono solo e che un appuntamento comunque ce l’ho, come tutti là fuori. Non riesco a fare un sunto quotidiano della mia vita, come dicevo ieri. Rischierei di rafforzare ulteriormente la mia convinzione secondo cui, l’abitudine, l’accettazione rassegnata della ripetitività dei giorni, porta gradatamente alla morte interiore. E diciamo solo interiore. Il post depresso del Sabato mi permette di dire le peggio cose, tanto poi da domani, e per tutta la settimana, sembrerò quasi normale, uno dei tanti. Sali sul treno, scendi dal treno, bolla, lavora, risali sul treno, riscendi, mangia, dormi. Più normale di così? Cosa vuoi di più dalla vita, pensano gli umani. Ma volete mettere la fortuna di avere un giorno tutto per me nel quale deprimermi liberamente, pensare a tutto ciò che non ho, che vorrei ma che in fondo non voglio? Un giorno nel quale possa ritenermi legittimamente più matto del solito, più lagnoso del solito, più rompicoglioni del solito. Come faccio però a far capire che nonostante tutto sto bene? O meglio, che grazie ancora alla mia testa pensante ho la forza per non scendere ai livelli di qualche anno fa, a pronunciare frasi e a fare promesse che credo sia inopportuno riportare qui. Sebbene non mi siano simpatici ( ed uso un eufemismo) vorrei tante volte provare il gusto di essere umano, almeno per un giorno. Infilarmi in quelle teste vuote, piene di neuroni bruciati, che trovano ogni giorno una motivazione per vivere. Ma come fanno, Dio mio, come fanno? Perché a me non è concesso? Ora che ho smesso di lamentarmi, chiudo il post depresso del Sabato. Sento un gran rumore intorno.

 
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venerdì 8 marzo 2013

L’enigmista

S

crivere ultimamente sta diventando faticoso. Passi l’ardore unito all’innata necessità di sfogarsi, devo tuttavia prendere atto dell’infinitesimale mutamento del mio apparato interiore; quando vedi una persona tutti i giorni non ti accorgi che invecchia. Lo stesso accade con la mia anima; guardarla, studiarla quotidianamente ti regala una percezione non del tutto realistica della sua evoluzione. Negli ultimi mesi ho curvato la schiena, sottoponendo gli occhi ad uno straordinario lavoro non retribuito: guardare al di là dell’umanamente visibile non è cosa da poco. Nel frattempo sono diventato il miglior amico di me stesso. Le maschere hanno fatto (e tuttora fanno) il loro dovere, sostituendomi egregiamente all’occorrenza, prendendosi gioco di molti, se non di tutti. Ho imboccato quasi per caso la strada del riposo; il cervello mi sta chiedendo di dargli tregua, di consentirgli un fisiologico periodo di assestamento dopo le levatacce invernali. Il masochista del resto sono io, mica lui. Lungo la strada del riposo non c’è tempo e modo di incontrare sensi di colpa. Non posso credere e non voglio immaginare che l’avvento di questa inusuale sensazione di leggerezza debba essere letta come un segnale di resa. Non ho alzato bandiera bianca, questo è sicuro. Sono un ingranaggio che lavora con precisione quasi svizzera ma che sente la necessità di una revisione. Avevo bisogno di fare un sunto della situazione, una sorta di stato di avanzamento dei lavori. Lo dovevo a me stesso, se non altro per onorare la mia natura di essere pignolo e maniaco dell’ordine mentale e materiale. Non sarà certo la nuova luce di Primavera a fregarmi, nemmeno i venti tiepidi, i colori accecanti dopo mesi di grigio. Da tempo ho abbandonato l’illusione del rinnovamento, la convinzione che una sferzata di vento potrebbe d’improvviso spazzare via la polvere che mi ricopre. La solitudine è polvere che porta polvere. La solitudine sono io con le mie rinunce a priori, la mia ostinazione. La solitudine sono gli altri, sospesi come lo sono io, impercettibili, sfuggenti, quasi astratti. Il resto è vita. I suoi giochi complicati, i rebus irrisolvibili, le parole indecifrabili fanno di me un enigmista la cui tentazione è sbirciare la pagina delle soluzioni. Dicono che è già tutto scritto. A me però, non piace vincere facile. Non si era capito?

 
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giovedì 7 marzo 2013

Il sacco

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iciamola tutta. Analizzare se stessi è un gioco perverso e crea dipendenza. La fila era lunga, lunghissima e bene o male al momento della distribuzione ognuno avrebbe dovuto accettare ciò che passava il convento. Quando sono arrivato davanti a lui, ho aperto il sacco e ho lasciato che ci lasciasse cadere dentro ciò che aveva riservato per me. Ho fatto spallucce e me ne sono andato. La regola era: “Non potrai sapere cosa porti nel sacco fino a quando non avrai ragione a sufficienza per apprezzarlo”. Penso sia andata proprio così, sapete? Perché sono passati quarantaquattro anni e sei mesi da quella lunga fila ed ho finalmente scoperto cosa contenesse il sacco. Quintali di masochismo, un’infinitesimale dose di autostima ed un cervello ingombrante. Ora che sono un uomo cresciuto e ho ragione a sufficienza, dovrei cercare di cogliere il lato positivo di tutto ciò. Devo capire in buona sostanza perché, viaggiare al centro di me stesso, pur provocandomi dolore contribuisca al mio miglioramento. Evidentemente lui, già ben sapeva quale sarebbe stato il mio percorso e che prima o poi avrei finito per parlare di me, solo di me e soprattutto, solo con me. Ecco perché ho la netta impressione di sbagliarmi quando mi capita di non sentire il bisogno di scrivere, di parlare di me, di verificare lo stato del motore. Ciò nonostante ho ipotizzato che possa essere dovuto a recenti occasioni di dialogo “de visu” grazie alle quali ho avvertito molto meno il bisogno di esternare attraverso la scrittura. Ma come vedete sono nuovamente qui, a scrivere del perché non ce la faccio a non scrivere. Parlare del sottoscritto mi provoca un piacere quasi orgasmico. Grazie a questi fogli ho il privilegio di non passare per un cattivo ascoltatore, quale in realtà sono. Io e il mio sacco. Era un tempo nel quale avevo un ottimo orecchio per le piaghe altrui: pur sapendo di non aver l’animo sereno per farlo, lasciavo fossero gli altri a farmi male con la loro sofferenza, i loro malesseri, le loro turbe. Il mio sacco parlava chiaro: toccava a me. Poi la solitudine ed ecco di nuovo pronto il sacco. Ora parlo io, e lo devo fare con me stesso. Non si scappa. Trovare una ragione plausibile per apprezzare le parole altrui e, oggi le mie non è facile. Ma credo sia il modo migliore per liberarci delle maschere e respirare un po’ di vita, la nostra, come noi la intendiamo e non come gli altri vogliono farcela intendere. Mi tengo il masochismo, mi tengo la scrittura, mi tengo stretto anche quel briciolo di autostima. Il cervello lo butterei nel cesso.

 
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martedì 5 marzo 2013

Alle sei

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lle sei di stamattina la mia giornata aveva già preso una piega intimistica e riflessiva, più del solito intendo. Un mio vecchio amico di infanzia mi aveva appena parlato del suo anziano padre, di come i medici lo avessero avvisato di “tenersi pronto” all’eventualità. Una fitta allo stomaco poi, mio malgrado, prendevo la strada della stazione. Il solito treno, il solito viaggio. Ordinarietà. Complice il finestrino piuttosto sporco e la nebbia Marzolina che velava il panorama, sono partite le riflessioni. Tutto scontato, tutto retorico, le solite considerazioni del caso. Dapprima ho riavvolto il nastro della mia vita fino ad un paio di anni fa cercando di risentire la stessa fitta allo stomaco di allora quando diagnosticarono il cancro a mio padre; per sentire più dolore ho provato a ricordare cosa mi passò per la mente in quei frangenti. Non potevo sapere se e quando certe emozioni, sarebbero svanite. A quel punto ho nuovamente impostato l’avanzamento veloce e sono tornato alla nebbia Marzolina. Cosa ho imparato in questi due anni? Ho scordato quello che provavo? Non ricordo le paure di allora? Perché ho continuato a farmi seghe mentali per la mia condizione? Ho pensato che la ragione può essere duplice: abbiamo una cattiva memoria oppure si tratta semplicemente di istinto, istinto di sopravvivenza. Non voglio credere o meglio, mi tocca credere a più versioni, e soprattutto a quella secondo cui il dolore, più dell’amore, dovrebbe come si dice ”fortificare”. Perché non c’è esperienza umana più umana della sofferenza, del pianto, della forzata accettazione dell’ineluttabilità. Cos’è l’amore al confronto? Nulla. Tutti o quasi possono vantarsi di amare, di averlo fatto e di volerlo ancora fare. Tutti o quasi possono altrettanto bearsi di essere amati. Tutti devono soffrire e non c’è motivo di vanto nella sofferenza. C’è una bella differenza, non credete? In quel “devono” c’è tutta la miseria umana acuita dall’impotenza. Ma cosa c’è di ancor più misero ed umano del dimenticare? Ecco, io che cerco quotidianamente una spiegazione ad ogni gesto, parola, azione ed omissione, ho un’altra risposta mancata. Perché la fugacità si misura anche nella incapacità di fare tesoro dell’esperienza del dolore. Ed io non faccio eccezione. La nebbia Marzolina lascerà il posto ai colori, basta aspettare. Questo è certo. Ed io, in questa assonnata mattina di Marzo probabilmente mi sono chiesto il perché del mondo. Lasciatemi fare, ormai sono infetto.

 
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lunedì 4 marzo 2013

Ritorni

C

irca cento ore di riposo sono cosa non da poco, tanto che mi stavo seriamente abituando all’idea di non lavorare più. Che anche questa è cosa non da poco. Cento ore di libertà ma libertà da cosa? Di cosa sono prigioniero? Ma del mio cervello, ovviamente. Ammetto tuttavia che il timore che la morsa della macchina infernale si acuisse (come sempre in questi casi), si è rivelato quasi infondato. Dico “quasi” perché sarebbe impensabile pensarmi a non pensare con tutto questo tempo libero a disposizione. Diciamo che ci sono stati momenti peggiori; il crampo allo stomaco ed il profondo desiderio che arrivasse la notte a cancellare tutto sono tornati; di quelli non posso fare a meno perché la coscienza ricorda sempre chi sei e cosa sei. Ho sentito meno, dunque, la voglia di tuffarmi nel mondo virtuale alla ricerca del solito appiglio, della solita chiacchierata a colmare una piccolissima parte del vuoto. Mi sento pure strano quando sono così, sembra quasi io sia tornato ad avere una vita, ma non è la verità. Semplicemente provo a ridimensionare il problema e la mia richiesta di aiuto, di conseguenza, diventa flebile. Questo lungo fine settimana potrei chiamarlo il weekend dei ritorni. Menomale che da tempo ho smesso di crucciarmi delle amicizie mordi e fuggi anche se, sarebbe meglio dire che ho smesso di crucciarmi delle amicizie. Punto e basta. Sono tornati dal recente passato un paio di persone che avevo ormai dimenticato. Bugia. Non dimentico, segno tutto, ricordo perfettamente parole, promesse, falsità. Sono riapparse per incanto confermando la mia idea di sempre: nel mondo virtuale tutto è sospeso: parole, persone, sentimenti. Ad un tratto una sferzata di vento potrebbe spingerli paurosamente in alto disperdendoli nell’universo oppure, farli cadere a terra regalando sorprese inaspettate, donando loro una dimensione umana, tangibile. E chi ritorna trova sempre Enzo lì, senza il coraggio di dire cosa pensa al riguardo, senza battere ciglio, indifeso e penetrabile. Lo ritrova lì, fermo al solito palo mentre tutti viaggiano e corrono. Ritorni che non generano più sorpresa, che non sanno di affetto per il sottoscritto, che hanno invece il sapore della normalità, nel mondo parallelo. Cento ore di riposo che non hanno detto nulla se non chi continuo ad essere, quanto pesante sia il fardello del passato e altrettanto impalpabile la presenza del futuro.

 
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domenica 3 marzo 2013

Vulcano

N

on ho la più pallida idea di quante persone mi leggano, a quante interessi ciò che scrivo, che idea si siano fatte di me. Non ha importanza, ciò che scrivo non ha lo scopo di piacere, di giustificare me stesso o di insegnare qualcosa a qualcuno. Ciò che scrivo è ciò che vorrei dire a voce, magari ad un amico fidato in una sera d’inverno davanti ad un bicchiere di vino. Chi però ha avuto la costanza di leggermi ed il grande coraggio di sforzarsi di capirmi nell’arco di questi ultimi due anni probabilmente un’idea se l’è fatta. Coloro i quali ci hanno almeno provato, per il solo fatto di non essere in qualche modo tenuti a farlo, godono di tutta la mia stima. Il blog è diventato la corsia preferenziale di accesso alla mia anima perché, quelli che passano prima da qui probabilmente conoscono il peggio di Enzo; se nonostante tutto poi, continuano a farlo meritano un elogio. Sono Enzo ma sono stato Enzo anche nel passato. Un Enzo di cui sotto alcuni punti di vista ho nostalgia e di cui oggi spesso invoco il ritorno nei momenti topici della mia turbolenta esistenza. C’era una volta Enzo vendicativo, rancoroso, dalla memoria a lungo termine migliore di quella di un elefante. C’era una volta un Enzo ingrugnito come oggi ma pratico, decisionista, arrabbiato con la voce grossa. Colui che non usava messaggi subliminali, non la mandava mica a dire, colui che non offriva più di una possibilità al prossimo. Con il senno di poi a cosa è servito essere così? A nulla di nulla. Cosa rimpiango? Beh, innanzitutto il fatto che in un certo qual modo mi sentivo vivo, in lotta non tanto con me stesso ma con gli altri. Io ed il mondo nemici ma in costante interazione; lui mi dava da vivere seppur con rabbia, seppur accendendo il fuoco delle cattive parole. Non mi sento rassegnato, vorrei tanto vivere ma temo che al giorno d’oggi le parole urlate non servano più. Serve accettazione ed io questa parola non la voglio nemmeno sentire. Mi sono ripiegato su me stesso, sono invecchiato. No per carità, non dite che sono più saggio; oggi la vita ti offre un’alternativa. Puoi lottare, ma se lo vuoi fare devi rimanere aderente a te stesso dunque rischiare, gridare, incazzarti, portare rancore, vendicarti. Oppure accettare, passare per saggio, razionale, pacificatore e rimanere insoddisfatto. Sono la seconda che ho detto, e non mi piace. Vorrei riacciuffare il vecchio Enzo e tornare a sputare lava come un vulcano che, dopo tanto torna a lavorare. Vorrei.

 
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sabato 2 marzo 2013

Cielo di Marzo

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ggi mi sento come questo cielo di inizio Marzo, indecifrabile e per certi versi ingannevole. Non sai se stiamo avvicinandoci alla Primavera oppure è l’Autunno che bussa alla porta. Un po’ né carne né pesce, mettiamola così. Questa mattina ci stavo dando dentro in palestra, sudavo, ansimavo spingendo i pesi più in alto possibile poi osservavo fuori dalle grandi vetrate il fiume scorrere lentissimo ed il cielo lì a guardarlo senza alcun accenno di reazione. Il cielo ero io, il fiume la mia vita. Ed io a ribellarmi alla stanzialità, a questi ritmi imposti; via, alza ancora i pesi Enzo, suda, ansima. Mi sento un po’ così, come il cielo di oggi, immobile, enigmatico, vigliacco. Giornate che si sviluppano secondo un canone abbastanza consolidato, con picchi di apparente esistenza e vuoti immensi nei quali sprofondo quando mi trovo costretto al silenzio. Il lavoro sul corpo mi gratifica, non lo nascondo. E dire che non sono un materialista, uno che bada alle apparenze. Chi diceva “mens sana in corpore sano” forse non aveva tutti i torti. Ma sembra che l’effetto sia davvero breve in termini di durata: dopo due ore di attività fisica il cervello mette le ali per un paio d’ore abbondanti. In quel frangente ho la stessa sensazione di chi vive in serenità, soddisfatto. Ma si può ridurre la felicità ovvero la semplice tranquillità ad un paio d’ore di passione, per giunta avendo rapporti ravvicinati con una macchina? Eppure se ci rifletto a provocare lo stesso godimento è la bicicletta, oppure uno scatto fotografico. Le passioni che trascendono la presenza dell’altro e che mi vivono dentro provocando sussulti di vita. Il silenzio ovattato che torna poi a riempire questa stanza è una benedizione, quando penso al frastuono delle tornate di lavoro, di viaggio, quotidiane. Ma è sempre questione di punti di vista. A volte, come oggi, ritrovare amici che pensavi perduti può regalarti un sorriso. Avverti però la netta differenza tra i modi di vivere la vita di ognuno e nella mente di un analitico come il sottoscritto quel sorriso si trasforma ben presto nell’ennesima consapevolezza; quelle paranoie sull’assenza? Quelle parole di sfiducia sulla presenza? Non hanno più senso. Cosa ha ormai senso? Cosa si annida nella mente di una persona così complessa, che sente solo il bisogno di scrivere per usare le parole, per provare a dare loro quel senso che la vita non riesce ad avere e nella quale io non riesco a fare ordine. A giorni il cielo uscirà allo scoperto facendo luce su quel fiume che ora pare lento, incolore. Quell’azzurro riuscirà mai a liberarlo del suo vivere malato?

 
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venerdì 1 marzo 2013

La mia croce

S

i dirà che non si finisce mai di imparare. Vuoi per un fatto puramente anagrafico, vuoi per carattere io, ho già finito. Quasi mezzo secolo di vita (di cui effettiva, solo la metà) è sufficiente, voi che ne dite? Non posso pensare che un uomo destinato ad un’esistenza nella media in termini di durata, debba portarsi dietro la croce dell’inesperienza fino alla morte. E poi forse non è soltanto una questione di età ma proprio di esperienza. A vent’anni puoi avere già capito tutto. Ma se a cinquanta non hai capito niente, passi per coglione. Ovviamente devo escludere dalla mia indagine tutti coloro i quali ( e sono una parte consistente ) della vita non hanno saputo che farsene avendo deciso di viverla quotidianamente, chiudendo in un cassetto il cervello, e lasciando che il destino li portasse dove vuole. Il segaiolo mentale, l’analizzatore, colui che ha cuore anche se non si vede, giunto a metà del cammino, ha già capito tutto. Il segreto della sua sofferenza sta lì. La domanda che si pone solitamente è : “E adesso?” “E adesso non ho più niente da dire? “ “Adesso vivi, sentenzierebbe la solita voce fuori campo”. E invece no, ciò che io ora voglio non è vivere ma divertirmi con le parole, voglio giocare con la teoria sulla base di quello che la vita mi ha insegnato. Sarò anche retorico se dico che (fortunatamente o sfortunatamente) ho sempre proiettato me stesso sugli altri. La ricerca del simile a tutti i costi è stata la mia fortuna e al tempo stesso, la mia rovina. In amicizia, pure in amore. Quante volte ho cercato lei in tutte le altre perché in lei avevo trovato esattamente me stesso. E poi gli amici. Si dirà che l’amicizia è un sentimento puro, eletto, nulla a che vedere con l’amore e gli sporchi giochi di interesse che vi sottendono. Ma la selezione naturale che mi ha condotto alla solitudine nasce dalla ricerca del simile non solo a livello cerebrale, spesso anche in termini di esperienza, di vissuto. Nasce l’egoismo, il desiderare a tutti i costi un “mal comune mezzo gaudio” che faccia di un rapporto, il rapporto. Strampalate teorie di un quarantaquattrenne la cui più grande preoccupazione ora è: non avere più niente da dire. La ragione dei miei scritti è tutta qui. Mi viene da ridere quando non ho nemmeno l’incipit per un articolo, oppure un centinaio di caratteri per dire ciò che penso. La mia croce è questa. La porto con orgoglio, perché ho già finito di imparare e mi tocca trovare un altro lavoro.

 
La croce

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