giovedì 31 gennaio 2013

In bianco e nero

G

ennaio se ne sta andando con la sua overdose di pensieri contorti, con la mia ostinata, tenace ( a tratti folle) opera di ricerca e ricostruzione dell’Io. Più fogli riempio più sale la temperatura del mio malessere. Il blog è il termometro del mio lavoro interiore che, non sia mai, sarebbe riduttivo limitare a queste righe. C’è ben altro, voi lo sapete. C’è solitudine, c’è una stanza, un abatjour, un forte riverbero. Lì la temperatura sale e sale sempre più. La penna però qui scivola sinuosamente quasi a spalmare l’apatia ed il senso di oppressione rendendoli accettabili, persino a volte apprezzabili. C’è tutto un mondo intorno di cui come sempre ignoro l’esistenza, così penosamente chino su me stesso. C’era un mondo a Gennaio, ce ne sarà un altro a Febbraio e via andare. Mi ronza intorno come una mosca fastidiosa che tento di scacciare nervosamente, ma è sempre lì. E quando mi si poggia sopra, lancio un bel colpo di mano. Io e il mondo. Mamma mia, quante ne ho scritte ne scrivo e ne scriverò. C’è chi non smette di dichiararmi affetto, di voler essere presente e questo nonostante la mia ostentata freddezza, la paura di nuove parole, di nuove emozioni che tentano di penetrare nel bunker. E’ da folli, mi hanno detto. E’ irrazionale, è una perdita di tempo. Tempo, ti odio. Non sopporto l’alito pesante dei tuoi respiri affannosi su di me, ti respingo violentemente quando con forza tenti di stringermi fino a togliermi forza e lucidità. Ti amo quando mi lasci un briciolo di fiato per dire la mia, qui. Ti voglio bene se provi a farmi ragionare e mi dai la possibilità di guardarmi dentro e di capire gli altri. Ma sei sempre tempo che fugge e come posso accusarti? Anch’io fuggo. Monocorde, ibrido, incolore. E’ il mio giorno. Ormai osservo il mondo a testa in giù perché così mi è concessa una prospettiva in grado di compensare le differenze. Solo così posso accettare la diversità, l’alienazione. Siete voi, i capovolti. Ora ecco la luce. No, cosa avete capito, non quella in fondo al tunnel. Non so dire se sono all’inizio, a metà o al termine del percorso; quando si lavora di scavo si ha sempre la sensazione che ci sia un fondo più profondo. E che alla fine si torni sempre al punto di partenza. La luce è quella di Febbraio e di ore apparentemente più lunghe. Saranno sguardi dal finestrino, saranno colline e campagna che man mano si colorano. Il mondo si colora, io resto un uomo in bianco e nero.

 
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martedì 29 gennaio 2013

Vertigine

C

os’è la realtà? E cosa la fantasia? Ci troviamo di fronte a due forme distorte, umanizzate di verità. Veri e propri appigli terreni di sopravvivenza che nulla hanno a che vedere con la ricerca di un senso alla nostra esistenza. Rimanendo aderenti alla quotidianità piuttosto che cercando di spiccare il volo verso un ideale mondo migliore noi respiriamo, eseguiamo il compitino, rimaniamo umani. Percorrere la strada dell’analisi interiore è come attraversare un ponte immaginario tra realtà e fantasia; ed è proprio là, sospesi nel vuoto esistenziale che arriviamo a stretto contatto con la verità più intima. La nostra. E’ umanamente possibile credere di incontrare altre verità sul ponte? Si può ipotizzare qui, sulla terra? Mi sto perfettamente rendendo conto che la mia sensazione di volare sospeso tra mondo reale e sognato non è poi così innaturale ed illogica. Ricercando me stesso, spesso isolo completamente la mia mente fino a non pensare nulla. Fisso un punto nel vuoto e mi sento leggero. Fortuna che capita spesso quando sono nella piena solitudine della mia stanza ma non escludo possa essere accaduto altre volte, magari mentre sono circondato da altre persone. E qualora fosse, mi è stato dato del pazzo. Credo a questo punto di poter spiegare la mia progressiva e costante diffidenza verso il prossimo; che poi non è tale se ci si pensa bene. Si tratta non di premeditata volontà di allontanamento ma semplicemente di distrazione. Ecco, sono distratto. Da cosa? Lo devo ripetere ancora? Dal mio percorso, ovvio. Immaginate di guidare in una fredda serata invernale con la nebbia che impedisce di vedere dove si sta andando ma non permette distrazioni rispetto a dove si guarda. Ogni distrazione potrebbe essere fatale. Ho dato la colpa al tempo, ho accusato ingiustamente qualcuno di far mancare la propria presenza, ho creato, disfatto, affermato, contraddetto. Sono distratto, cavoli. Questo benedetto ponte traballa, è instabile, dondola. Io barcollo, ma mai e poi mai potrei abbassare lo sguardo. Sarebbe come rendersi conto di quanto in alto sono salito, di quanto coraggio sto mettendo in quello che faccio. Mi farei prendere dal panico e cadrei. Ricercare se stessi, significa salire, oltre la vertigine. L’incontro con altre verità sul ponte ha un sapore mistico, quasi alieno. Verità che si toccano senza mai toccarsi, sensazioni che si fondono al solo pensiero. Empatia. I terrestri a volte la chiamano amicizia. Siamo distratti da noi stessi, non dal mondo. Meglio così. Non fateci caso, è tutto incomprensibile, ma non pretendo di farmi capire.

 
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domenica 27 gennaio 2013

Una coppia perfetta

I

o e il mio male di vivere stiamo insieme da tanti anni, da molto prima che il mondo diventasse un semplice monitor. Siamo sempre stati una coppia ben affiatata, rari i veri momenti di crisi e quei pochi davvero brevi e costruiti ad arte. Il mio male di vivere si perde nella notte dei tempi ed è forse normale che in questo mondo elettronico non mi giungano nuove, parole che nel tempo hanno perso fascino e potere. Speranza, ad esempio. Non credo sia facile (e nemmeno possibile) raccogliere i cocci del proprio vissuto per farne una sorta di cronistoria; operazione imprescindibile per far capire qualcosa di noi a qualcuno che non sa. Il mondo elettronico non sa, non può certo immaginare dunque, il riavvolgimento del nastro spesso si rivela arduo e in parte doloroso. Mi chiedo perché poi io debba giustificare i miei comportamenti attuali. Io ed il mio male di vivere abbiamo attraversato mari, monti, tempeste emotive ma siamo ancora vivi e siamo qui. Ed è qui che stiamo facendo della nostra unione, un vincolo indissolubile. C’è stato, per la verità, un momento della mia vita in cui sperare non faceva rima con illudersi. Ero convinto che se fosse accaduto qualcosa di davvero trascendente la realtà, io ed il mio male di vivere ci saremmo lasciati per sempre. Avrei finalmente ripreso possesso della mia identità, sarei diventato un uomo libero, avrei nuovamente ricominciato a camminare con fare impettito ed orgoglioso. Ciò che sembrava impossibile è accaduto. Ma è stato a quel punto che lui, il male di vivere è tornato a trovarmi ricordandomi che la mia era solo un’illusione, che lui era ed è con me da sempre, e mai se ne andrà. Se una coppia è ben consolidata fa di tutto per rimanere unita, cerca di formare un unico corpo, un'unica mente. Ora che è parte di me, staccarmene sarebbe come tradire me stesso. Questo è il punto. Non so se sto lottando contro i mulini a vento, se non sto lottando affatto, se voglio questo o se non lo voglio. Ma nel mio piccolissimo mondo fatto di paure, io non faccio entrare più nessuno. L’altro sono io ed è per questo che anche il più timido rapporto accresce le ansie, i timori. Corro, corro velocissimo. Speranza è una parola che prospetta scenari nei quali l’uomo ha ben poche possibilità di scelta. Forse dovrebbe piacermi dal momento che mi sto lasciando trascinare dal destino. L’importante è che io non ci metta del mio. Mi sentirei ancora più in colpa.

 
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sabato 26 gennaio 2013

Presenti assenti

G

iusto per rimanere coerente con il mio essere contraddittorio, io aborro la parola rassegnazione ma, al tempo stesso non ho alcuna voglia di lottare. Io non vedo la luce in fondo al tunnel, non lo accetto ma mi va bene così. La solitudine conclamata (sia essa voluta o gentilmente regalataci dal destino) apre squarci immensi all’interno delle nostre corazze, delle nostre maschere; le fa crollare lasciandoci quasi completamente nudi, in pasto ai soliti noti in cerca di un’occasione per dire qualcosa di buono. Sono lontano dalle loro parole, le sento ma non le ascolto. Li stimo ma Dio mio, non posso minimamente pensare che le parole risolvano tutto. Ma voi avete una vaga idea di come un uomo triste diventa tale? Da un giorno all’altro? Si sveglia al mattino e decide di fare un bel capriccio standosene in silenzio oppure dando in escandescenza affermando e negando a più non posso? Un uomo triste ha un passato che non ha voglia di spiegare perché sa che è passato e non serve ad un emerito cazzo tirarlo fuori. Aiuta a capire chi cerca di capire ma non aiuta me. La solitudine apre la porta a due clienti poco graditi: menefreghismo e commiserazione. Il primo ci fa incazzare ma, se si è abituati a questo tipo di trattamento in virtù di esperienze passate, non ci si fa più caso. La seconda è decisamente un’ospite invadente e ignorante. Partendo dal presupposto che il virtuale per me è tale e porta con sé il marcio dell’assenza, come si può pensare che la mancanza di qualcuno ( che appartiene a quel mondo) possa rendermi triste? Ma da quando? Ma perché le persone che credono di volermi aiutare peccano di un tale egocentrismo? Cioè se io ti faccio vedere che sto male non è perché tu non ci sei oppure stai facendo cose di cui sono invidioso. Non ci si rende conto che io penso a me stesso e non ho tempo per mandare all’aria il tempo piangendo a causa dell’invidia. Non c’è modo di farlo capire. Io non ho bisogno di presenti assenti. Ho bisogno di vivere la mia solitudine e se mai, di capire. La compassione fa parte del gioco. Se continui a tenere aperto il libro i tuoi lettori più accaniti saranno persone probabilmente in cerca di qualcuno da consolare per convenzione. Devo urlarlo ancora? Se grido il mio disagio non lo faccio per attirare l’attenzione ma solo perché non riesco a tenerlo dentro. Ciò che accade nella mia testa lo so solo io. Chi pretende di capire credendosi la ragione del mio status non ha capito un cazzo. Ma almeno mi porti rispetto.

 
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giovedì 24 gennaio 2013

Passeggiata

O

ggi non è stato facile. Io non so più come dirlo, come spiegarlo, non so se sia opportuno stare qui a ribadirlo. Quotidianamente ho la prova provata del mio destino già segnato e mai voluto veramente. Io amo stare nella più beata solitudine. Ma parlo arabo? Pochi di noi amano il proprio lavoro, spesso e volentieri la gestione della convivenza forzata con i colleghi si rivela piuttosto ardua. Io sto bene con loro, a parte le solite beghe quotidiane. Poca roba. Semplicemente non amo convivere, non amo condividere, a prescindere. Chi mi vede barcamenarmi, lamentarmi, sospirare, ridere, scherzare, fare battute, parlare a raffica per otto ore al giorno probabilmente si è fatto un’idea diversa. Sono maschere ragazzi, sono maschere. Lo scopo è essenzialmente quello di esorcizzare una vita lavorativa alienante, devastante sotto il profilo dello stress. E poi c’è il quieto vivere. Posso mica caricarmi anche dell’inutile fardello degli scontri in ufficio? Non sia mai! Maschere. Da bravo attore spesso mi diletto nella forzatura della parte, cercando di creare un’immagine nell’immagine, fino all’esasperazione del ruolo. Divento protagonista e attore principale. E ci sono pro e contro. Finisco con lo stare al centro dell’attenzione, mi imbarazzo. Detesto la parte di me che si mette in piazza senza un prezzo: fragile, disponibile, accondiscendente. Non ce la faccio più a forzare. Continuo ad indossare la maschera ma sinceramente non voglio che il gioco finisca per colpirmi alle spalle come un boomerang. Ragazzi non riuscirò mai a condividere uno spazio con qualcuno. Oggi ho sentito tante, troppe voci intorno a me, non le sopporto. Mi sono più volte chiesto se sia colpa mia, di quel maledetto finto modo di fare che questa vita di merda mi impone. Quando ho varcato la porta dell’ufficio, sembrava io avessi fatto a pugni con me stesso. Ho sentito sovrapporsi parole, risate mentre io cercavo di volare, di assentarmi. Io sono Enzo, e non voglio cedere a nessun compromesso. Voglio silenzio, voglio essere orgoglioso di me, voglio la mia libertà di pensiero. Ma che lamentoso e lamentoso! Ma piantatela di dire che sono permaloso, che sono un debole. A prescindere dalla parte imposta per otto ore, quello che io sono nessuno lo sa. O pochi sanno. Ma è davvero straordinaria la capacità degli umani : riescono a convincerti sempre più del tuo destino, della tua condizione. La passeggiata per Torino mi ha fatto bene. Io e nessun altro. Sono un uomo libero!

 
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mercoledì 23 gennaio 2013

Uno, nessuno e centomila

E

poi io sarei contraddittorio. Non mi sono mai nascosto dietro un dito, qui lo dico e lo ribadisco: sono il re della contraddizione. Pensandoci bene però, affermare una cosa per poi subito negarla, attirare l’attenzione salvo poi scappare sono sintomatologie tipiche di chi vive un disagio esistenziale. L’apparire al meno un po’ strano agli occhi degli altri, ci sta. Si è in eterna contraddizione con il mondo ma prima ancora con se stessi. Le parole scritte, gli appelli nelle grandi piazze virtuali, i messaggi subliminali rappresentano estremi ( quanto banali ) tentativi per entrare in sintonia con l’umano. Quando il raggiungimento della pace interiore assume le dimensioni di una montagna ( e tu ti senti un topolino ) si cerca di salvare il salvabile. Niente da fare. E allora, viva la realtà, viva le pacche sulle spalle, viva gli sguardi, la gestualità, i toni mai fraintesi. Per mitigare il tormento dell’anima puntiamo sulla genuinità, su ciò che è tangibile. Macché. Negli ultimi tempi stanno paurosamente perdendo quota le mie teorie sul ruolo essenziale della relazione “de visu”, sul bisogno impellente di non perdere contatto con occhi, bocche, mani. E che dire quando, pur ostentando una splendida, finta normalità persino il tuo tono di voce viene mostruosamente frainteso? Mi rivolgo ad un cameriere chiedendogli gentilmente di servirmi e mi viene fatto notare di averlo fatto con tono seccato; provo ad istruire qualcuno sul lavoro e mi prendo dell’arrogante professorino. E a quel punto ti chiedi se sia poi tutta questa perdita di tempo scavarti dentro, puntare l’obiettivo oltre l’umanamente visibile, farti male nell’ostinato tentativo di capirci qualcosa. Ma no che non lo è. Sono integralista, qualunquista, generalizzare è il mio peggior difetto. La visione obiettiva delle cose è ben altro lavoro. Ma Dio mio, è disarmante soffermarsi pensando a quante e quali immagini di noi stessi diamo, nostro malgrado, in pasto a chi ci circonda. E allora? A cosa servono le maschere? Essere se stessi è comunque una fregatura. Allarmante, divertente, triste, illogico forse umano. Siamo ciò che crediamo ma se non sappiamo cosa siamo per gli altri ben venga darsi da fare per capire cosa siamo per noi stessi. Sorrido con la convinzione che sto facendo bene. Dai Enzo. Fermando il tempo, lasciando scorrere la penna sulla carta, trovo le risposte, scopro il senso. Cosa sono per me stesso? Questa è la strada. Ciò che sono per gli altri è tutto e niente; è così facile la vita, così magnificamente costruita ad arte, basta recitarla. Così diverso e incredibilmente sopraffino è, viversi.

 
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lunedì 21 gennaio 2013

Sabbie mobili

L

a solitudine è una malattia. Perversa, invasiva, spesso invisibile agli occhi altrui, ti mangia cuore e anima. Non c’è piazza virtuale in grado di colmare il vuoto esistenziale, né parola o promessa capaci di chiudere una voragine di dimensioni ormai spropositate. Bravo, Enzo. Sono riuscito a farmi odiare perché era l’unico modo per allontanare da me chi si era macchiato dell’unica colpa di voler essere presente. E’ un problema mio. Non posso imboccare la strada che porta dritta all’abitudine, che fa della presenza un elemento imprescindibile, fino a gettare le basi di un rapporto. A quel punto istintivamente torno indietro. Sono un egoista atipico: voglio l’esclusiva ma non voglio nessuno e difendo il mio territorio. La solitudine urla nel silenzio di una stanza , sempre la stessa, illuminata dal bagliore dello schermo, riscaldata dalla luce soffusa dell’abatjour. La ripetitività consuma, ti annienta. Ci vuole pazienza, non accettazione. Sono anacronistico, un bimbo in un corpo da adulto: piango, faccio i capricci, attiro l’attenzione. E’ dura, molto dura fare la parte del cattivo, dello stronzo; in fondo non lo sono mai stato e mai lo sarò. Fosse così sarei uno dei tanti, uno dei troppi al mondo che vivono adattando la propria esistenza alle situazioni muniti di un corredo di maschere sempre a portata di mano. Non ce la faccio a stare dietro, ho il fiatone, sono stanco di aspettare. La mia presunta serenità prescinde dalle persone, dalle parole, dai gesti. Mi chiedo se in fondo io non stia sopravvalutando il mondo virtuale, potrebbe darsi si tratti semplicemente di una mia costruzione mentale. Dei due mondi paralleli però, reale e virtuale io non riesco a cogliere il senso. Non è colpa dell’uno o dell’altro, né di chi ci vive dentro; bene o male dovremmo remare tutti nella stessa direzione, no? Io volo, non ho remi, soffio con tutta la forza che ho per starmene lì dove sto. Mi sono ripromesso di non scrivere più di me, di come vivo, soffro, di quanto piango. Ma se sono di nuovo qui, qual è la ragione? Mi riesce difficile nascondermi? Sono dunque un egocentrico? Attiro le persone a me e poi? Io non devo aspettare, non devo nutrire false speranze, non posso pensare che la mia vita possa dipendere da qualcuno. La felicità non è necessariamente nell’altro, nella compensazione, nella condivisione. Mi fa male stare solo, eccome se fa male. Il passato in questi frangenti torna prepotente, ripercorro la strada fatta. A quarantaquattro anni sono ancora qui a chiedere di vivere e non di apparire. Sono nelle sabbie mobili fino al collo.

 
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domenica 20 gennaio 2013

Cui prodest?

I

eri la macchina infernale ha prodotto la seguente conclusione: e se la smettessi di spiattellare qui e su qualsiasi piazza virtuale tutti i miei fattacci privati? Se la piantassi di rendere note le mie fragilità, le mie debolezze, i miei contorcimenti? Cui prodest? Il blog, i fogli, e tutte quelle menate sulla loro funzione terapeutica. Ci può anche stare, ma sono palliativi, il primo ad accorgermene sono io. Ammesso e non concesso che possa tornare utile a qualcuno ciò che scrivo, che alla fine “il mal comune mezzo gaudio” fa felice un po’ tutti, io devo pensare a me. Le serate trascorse fissando un punto nel vuoto, cliccando a destra e a sinistra sulle stesse pagine di un maledetto foglio elettronico, accentuano la rabbia, tirano fuori l’Enzo istintivo, incazzato, vendicativo, invidioso. Quando finisco di scrivere il mio solito articolo non ho alcun beneficio. A chi voglio far credere che sia questa la mia vera valvola di sfogo? Ma piantala Enzo. Ma la smettiamo di rendere pubblico tutto? A chi vuoi darla a bere quando dici che in fondo se non avessi questi fogli saresti perduto? Ma non è assolutamente vero! Dunque, forse meglio tenerlo un diario, ma che sia del tutto intimo, privato. Perché ne deve uscire a tutti i costi un’immagine negativa? Perché io ho una doppia vita. Sarei pronto a metterci la mano sul fuoco: chi mi frequenta quotidianamente per lavoro, chi mi ha conosciuto nella vita reale sa perfettamente che io non sono questo. Quando la settimana lavorativa finisce, prendo la rincorsa e mi tuffo nell’oblio, nell’apatia, nella solitudine più estrema. E sono incazzato,invidioso, maledettamente invidioso. Per favore, chi mi ha conosciuto, lasci un commento qui. Ma solo chi mi frequenta nella quotidianità; ve ne prego dite che Enzo non è assolutamente questo, che è solo costretto a sdoppiare la propria esistenza. Si si, le mie paturnie, i miei contorcimenti, le mie seghe mentali esistono davvero, ma mi sto davvero stufando del fatto che siano di dominio pubblico. Ripeto, cui prodest? E basta una volta per tutte. Non sto ottenendo alcun beneficio se non quello di ritrovarmi perennemente a fissare l’infinito, ad inebetirmi di noia, ad ubriacarmi di sangue marcio. Ne ho veramente le scatole piene di questi fogli, dell’immagine che riflettono; sono contagiosi, portatori sani di tristezza che si ricicla e si riproduce come le cellule tumorali. Guarda la sostanza Enzo, guardala in faccia. Non hai soluzioni che prevedono l’azione. Utilizza quelle che richiedono l’omissione. Omettere di fare ciò che non aiuta è decisamente più produttivo di agire, rimanendo sempre nelle sabbie mobili. Chiudi questo libro, chiudilo una volta per tutte.

 
 
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sabato 19 gennaio 2013

La corazzata Potemkin

V

isto? Ci sono cascato di nuovo. Come se non avessi capito che non serve a niente chiedere aiuto in questo modo. Ma siamo diventati tutti scemi? Sono tornato a farmi sentire sulla solita piazza, e l’ho fatto attraverso la fuga; è un raptus, sento un bisogno irrefrenabile di attirare l’attenzione poi rientro nei ranghi. Me misero, me tapino, me stupido. Non appena riesco a riappropriarmi dell’orgoglio e di un briciolo di dignità mi sento strano dunque, faccio un unico fagotto e butto tutto nel cesso. Potessi, mi farei riprendere per poi rivedermi; penso mi verrebbe la nausea, sarei un film noiosissimo, sarei “La corazzata Potemkin”. Eppure ieri sera ero proprio a terra. Ormai il meccanismo infernale scatta con la precisione di un orologio svizzero. Il momento di vera “zona franca” è quello che comprende il tratto che dal lavoro mi porta in stazione. Poi, parte il sistema autodistruttivo. E’ davvero incredibile come si possa precipitare nel baratro esistenziale con una tale facilità. Non è voluto, non è solo cercato, ormai è programmato. Non lo puoi evitare perché sai che è così, sai che ciò che ti aspetta è esattamente la fotocopia di ciò che hai vissuto una settimana prima. Aborro le relazioni, ora più che mai. Io cerco di dirlo, cerco di farmi capire, evito atteggiamenti istintivi e maleducati. Non posso e non voglio essere travolto dai sentimenti altrui perché mi generano scompensi davvero difficili da sopportare. Amatemi, vogliatemi bene, siate presenti se lo desiderate. Non esternatelo troppo però, non rendetemi partecipe del vostro affetto perché io posso solo capire lontanamente cosa vuol dire affezionarsi. Se voi lo fate con me io vi lascio entrare ma sappiate che sono un padrone di casa molto sobrio, austero, senza fronzoli. Ho finito di lamentarmi della solitudine, ma ciò non vuol dire che ne sia felice. Sto gestendo tutto, lasciatemi fare. Disperazione, poi istinto, poi freddezza ed indifferenza. Non ci posso fare niente! Sono fatto così! Mi sento male al pensiero che si possa provare un sentimento nei miei confronti, prediligo (?) le relazioni che lasciano spazio all’imprevedibilità e non all’abitudine. Ma quali relazioni? Io non sono capace di averne una. Continuo a volare, sono là in alto, mi vedete? Io vedo tutti voi, voi vedete me. Non vi tocco, voi non toccate me. Va bene cosi dai, perché chiedere altro? Sarò malato, pazzo, oppure semplicemente stanco. Rispetto i vostri sentimenti, accettate il mio modo di essere, siate pronti ad ogni possibile evoluzione di ciò che pensate essere certo ed immodificabile. Sono Enzo.

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giovedì 17 gennaio 2013

Flash

I

l freddo annienta i pensieri tanto da rendermi completamente privo di materiale per il mio diario. Potrei scrivere di tutto qui, sono i miei fogli. Oggi sono sicuro di riuscire a scrivere solo stronzate. Ci provo, vediamo cosa ne esce. Oggi ho riso tanto, di gusto, per ogni minima cavolata. A volte l’ambiente lavorativo sembra talmente piacevole da sfiorarmi l’idea che dovrei capovolgere la mia vita. In effetti le ore, i giorni dedicati al riposo assumono sempre i connotati della tristezza unita a noia ed apatia; quelli dedicati al lavoro, mio malgrado sono sempre e comunque vivi, vigorosi. Nel bene e nel male. Che conclusione triste. Ma questo è. Sto pensando a cosa penso quando non penso. Perché, come più volte mi è capitato di ribadire, il massimo sforzo mentale su me stesso lo concentro nel fine settimana. Dunque il lavoro è il salvagente che al momento mi impedisce di affogare. Verità. E dunque, tutto questo la dice lunga sul mio stato. Non so se ringraziare qualcuno di questo, della mia vita da pendolare, dei miei orari frenetici, della testa che scoppia quando arrivo a casa e desidero solo coricarmi. A pensarci bene ho trovato una grande giustificazione al mio essere solo, almeno inizialmente. Perché non si tratta più di una condizione di fatto, bensì di uno status voluto e cercato. Mi sto accorgendo di aver esaurito le scorte di lamentele, persino l’invidia ormai sgorga dal cuore con il contagocce. Sono a tutti gli effetti diventato un essere studiato a tavolino per operare meccanicamente nel corso di dodici ore al giorno. Per quanto concerne invece la restante parte del tempo a disposizione, ho la grande fortuna di dormire. Bella vita, mi piace ( si avverte l’ironia? ) Flash. Li descriverei così: sono quei momenti, mentre cammino, mentre provo ad addormentarmi sul treno, mentre salgo la scala mobile. Quei frangenti in cui è come se passassi in rassegna le persone, le contassi, cercassi di capire che ruolo hanno nella mia vita. Un battito di ciglia, poi sono già in cima alla scala, sono già alle prese con le pratiche, sono già nel letto. Le persone che provano ad esserci mentre io non ci sono, quelle che ci sono mentre io provo ad esserci, quelle che non ci sono mentre io ci sono. Un grande casino ma alla fine un enorme convincimento: sto volando. Volo senza poter toccare nessuno, senza che gli altri possano farlo con me. Parlo, dico cose, le ripeto: a volte mi ascolto, a volte lascio stare. Sono riuscito a scrivere un po’ di stronzate. Ma vi avevo avvisato. 

 
 

martedì 15 gennaio 2013

Quando la coscienza dorme

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uando si dice perdere tempo. Porto assai di rado il pc con me. Spesso me ne pento perché il tratto che percorro a piedi da Porta Susa al lavoro non è poi così breve. Ma penso ai miei tricipiti e faccio solo che passare la valigetta da una mano all’altra per esercitarli adeguatamente entrambi; il mio corpo lo amo (almeno quello) dunque guardiamo il bicchiere mezzo pieno. Sono seduto sul 17.20 e da un’ora circa sto perdendo il mio tempo cercando di far lavorare la chiavetta internet che non utilizzo da mesi, risultato: non funziona. Che disdetta, la batteria è ora ai limiti e nel frattempo avrei potuto scrivere qualcosa. Provo a giocare contro il tempo, sapendo che ne uscirà un articolo così, una sveltina. Il post di ieri ha colto nel segno: il mio naturalmente. Sto cercando di dimostrare a me stesso di apparire normale nonostante sappia di non esserlo. Ci sto riuscendo nella misura in cui non faccio fatica ad accettare le mie involuzioni. E se parto da questo presupposto finisco con il legittimare tutto ciò che di più assurdo, strano, incomprensibile ai più, Enzo è capace. Il miglioramento, l’evoluzione raggiunge livelli di consapevolezza definitiva quando la reazione alla solita osservazione “Ma come sei bravo a piangerti addosso”, è quella tipica del cadavere a cui viene fatto il solletico. Enzo è davvero lontanissimo parente del vittimista piagnone di un tempo. Enzo non piange di sé, non piange della sua condizione, Enzo è consapevole di essere questo; piano piano il passo si fa spedito e va verso la definitiva accettazione del giudizio altrui come semplice punto di vista e non come sentenza inoppugnabile. Sono ancora molto limitato nelle mie facoltà mentali quando si tratta di fare scelte, di decidere cosa è meglio per me, di lanciarmi. Ma sono lontani i tempi in cui lavoro e “vita” facevano a cazzotti per liberarsi l’uno dell’altra, per difendere il proprio territorio senza mai arrivare ad una tregua. Ecco servito un altro traguardo. Ora immagino il mondo a compartimenti stagni: io, il lavoro, le passioni, le persone. Sto provando a mescolare gli ingredienti ma con molta delicatezza, lasciando come unica ed imprescindibile priorità me stesso. Non è egoismo, non è presunzione. E’ solo voglia di emergere, perché chi non conosce l’Enzo di qualche anno fa probabilmente non può nemmeno pensare che ne sia esistito uno ancora peggiore di questo. Sono orgoglioso nella misura in cui evolvo. Continuo, la coscienza al momento non bussa.

 
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lunedì 14 gennaio 2013

La scatola

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to cercando di capire il nesso che intercorre tra la mia progressiva involuzione e l’ormai conclamata alienazione dal genere umano. Quale la causa, quale l’effetto? Difficile scindere le due facce della stessa medaglia. Di sicuro dei due aspetti, quello involutivo (interiore) è a mio parere ciò che fa di me un essere in costante evoluzione. Mi tocca essere ripetitivo, prolisso, pedissequo ma mi rendo conto perfettamente di come io stia raggiungendo livelli d’eccellenza nel campo dell’autoanalisi. Ho scavato, ancora scavo e scaverò fino a che ci sarà spazio fino a raggiungere il famoso “senso”. La mia involuzione va dritta verso quel punto che tutti chiamano “senso della vita” e che parallelamente mi evolve verso una condizione di assoluta alienazione da ciò che è umano e materiale. Vi fa paura ciò che scrivo? Sto cambiando? Sto peggiorando? Non ho questa preoccupazione, non ho paura di infilare il coltello nelle piaghe. Lo dico perché sebbene sia molta testa e poco cuore voglio rassicurare chi mi vuole bene. Sto migliorando, sembrerebbe di no, ma mi sto evolvendo. In fondo camminiamo tutti allo stesso modo, perché il tempo detta per tutti lo stesso ritmo. Si tratta di fermarsi più di altri pensando, non tanto ai passi da compiere quanto a come compierli in modo sensato. Ora la linea che mi separa dal mondo reale è ancora più netta, il muro si sta alzando. Come posso pensare che, ammesso di raggiungere il mio personale livello di evoluzione, io mi senta pronto per il mondo? Eppure, datemi del pazzo, io non ho la sensazione di perdere il mio tempo. Almeno sicuramente credo di averne perso molto in passato nell’attesa di qualcosa che manco io sapevo cosa fosse. Ora lo so, è qualcosa che non vedo, non è tangibile, e si chiama senso. Sono davvero stanco di arrivare a fine giornata chiedendomi perché nulla sia successo, perché un altro giorno se ne sia andato via facendo un lavoro al quale ancora non riesco a dare un senso. Cercate di capire: penso che, ammesso e non concesso esista un tale che muove i fili, per non cadere nella trappola del destino si debba a tutti i costi dare un senso a ciò che facciamo. I sentimenti, l’amore, le emozioni, ora sono nella scatola a prendere polvere. Se aprissi la scatola finirei contro un muro, colpito da un getto potentissimo. Le voci, le risate, gli abbracci, le pacche, spingono per rompere la scatola. Ora però la freccia dice : “Senso”. Vado da quella parte.

 
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domenica 13 gennaio 2013

In punta di piedi

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artiamo dall’ennesimo presupposto: ieri sostenevo di non ambire poi tanto ad un coinvolgimento nella vita rumorosa della notte, fatta pur sempre di risate, condivisione, momenti di liberazione. Di certo non è questo il mio obiettivo ma, mentirei a me stesso se dicessi di non esserne un po’ invidioso. Ad un certo punto della serata dovrei spegnere le luci e sprofondare nella notte dei sogni (incubi è più appropriato ) evitando il solito voyeurismo mediatico tra post e foto di gente ( anche un po’ megalomane) che interpreta nel peggiore dei modi il significato del termine condivisione. E’ da stupidi, lo so. Basterebbe guardarmi un film, approfittare del tempo per seguire il mio corso multimediale di fotografia. Il mattino seguente tutto è passato. Sono molte le persone che, alla fine di ogni giorno, prima di andare a letto si chiedono se hanno fatto tutto il possibile. Si danno sempre la stessa risposta, un Si che li autorizza a stare bene, a dire che loro la vita, la vivono bene, sfruttando tutto ciò che hanno a disposizione. E così abbiamo una marea di finti felici. Quando tocco il letto il più delle volte ho il tempo di chiudere gli occhi e cadere in un sonno profondo; ieri ad esempio qualche domanda me la sono posta. Troppo facile chiedermi se ho dato tutto me stesso. Certo che faccio del mio meglio ma allora perché non mi sento soddisfatto? Qualcuno pensa che sia una buona (l’ennesima) occasione per lamentarmi o piangermi addosso. Si sbaglia. La domanda che mi pongo io è ben diversa: “ Che senso ho dato a questo giorno in cui ho dato il meglio di me?” “E che senso hanno tutte le giornate che da tempo ho la netta impressione di aver dilapidato pur vivendole nella loro pienezza?”. C’è poco da stare allegri se ci si pongono questioni del genere. Il tempo scorre in modo incredibilmente veloce, io sono solo. E non è la solitudine intesa come sensazione di alienazione in mezzo a tanti, è solitudine vera e propria. Il vuoto esistenziale innesca meccanismi di autoanalisi tanto perfetti quanto autodistruttivi fino alla negazione dell’Io. Se ci si spinge coraggiosamente verso il baratro della coscienza più intima si perde contatto con la realtà in maniera quasi definitiva. Lo stato di alienazione raggiunge i livelli di non ritorno. Ma non è dando il meglio di noi che ci riapproprieremo della vita; solo quando potremo chiudere gli occhi accennando un sorriso di soddisfazione avremo fatto un passo avanti. Dopo tanto si fa strada in me la considerazione dell’altro. Se fosse davvero così, se avessimo bisogno di qualcuno? Qualcuno che si metta in punta di piedi, che faccia lo sforzo di farlo e guardi oltre. Oltre l’umanamente visibile.

 
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sabato 12 gennaio 2013

L’eterna contraddizione

L

a contraddizione fatta a persona. Insomma, desidero un momento nel quale incrociare le gambe, nel silenzio della stanza, l’abat-jour ad attenuare il riverbero. Poi? Poi scrivo, o almeno ci provo perché mentre lavoro sull’incipit vorrei già essere altrove. Vivo in questo momento oppure fingo di farlo? Dove vorrei stare? Davvero qui? Chi vive, dov’è? Potrei mai ributtarmi nella mischia senza provare il disagio di incrociare sguardi, sopportare il rumore della notte, urlare per parlare? No dai, non voglio realmente questo. E’ importante riflettere su questo punto: se mi è difficile capire cosa voglio, sarò almeno sicuro di quello che aborro? Non posso pensare che la mia massima ambizione stia nel vivere la vita notturna, sarei davvero patetico. Mi accontento di relazionarmi. Anche virtualmente. Oppure no? No perché non mi accontento nemmeno di questo, non mi capacito dei limiti, sono contento quando partecipo e sono ricambiato ma poi? Accontentarsi è uno dei verbi che più provoca sintomatologie simili all’orticaria. In poche righe ho seminato tanti punti interrogativi ma non credo di poter raccogliere risposte in futuro. Le domande sono sempre le stesse, le spiegazioni pure. Partendo dal presupposto secondo il quale Enzo ha circa 48 personalità al giorno, quindi almeno due all’ora; considerando che spesso queste variazioni non sono dettate da agenti esterni ma sono il frutto di frequenti implosioni di cuore e cervello; dato atto della assoluta incapacità di sganciarsi dalla ragione come unico appiglio per mantenere la lucidità necessaria all’ordinaria amministrazione. Ecco, per questi motivi il giudice….ehm scusate, per questi motivi io sentenzio a me stesso di essere ciò che sono. Senza appello. Anche se mi fosse concesso di arrivare fino al terzo grado di giudizio, non mi assolverei. E ne sarei anche felice. Questo articolo mi vede barcollare al centro di una strada di cui faccio fatica a riconoscere la linea di mezzeria; fino a ieri riuscivo a malapena ad alzarmi per un malessere improvviso che mi ha attaccato al letto per una giornata. Non ci crederete, ma non ho pensato a nulla. Laddove il corpo soffre, la mente si appisola. Ma devo arrivare a questo per evitare di pensare? Intanto, sono felice di stare qui a scrivere, ma vorrei essere altrove. E dove? L’eterna contraddizione.

 
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mercoledì 9 gennaio 2013

Verità mozzata

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’è una strana ma meravigliosa empatia tra questi fogli ed il sottoscritto. Loro cercano me, io cerco loro come due amici che sanno di poter incontrarsi sempre e sempre viaggiare in sintonia. Gli unici pezzi di un gigantesco puzzle che si incastrano. C’è bisogno di aderenza alla realtà, la si deve guardare in faccia per poterne capire l’enorme malessere che la pervade e sentirsi di conseguenza estranei ad essa. L’alienazione è tutta qui; non è dunque una condizione imposta ma nemmeno una scelta. Si diventa alieni nella misura in cui si scende nella profondità della vita. Sto scendendo molto giù negli ultimi tempi, sto scavando senza mai perdere il contatto con me stesso, resto molto lucido e razionale. Ho bisogno di non fermarmi a pensare a determinate cose per poter rimanere impassibile a ciò che fa parte del mio quotidiano e che non mi piace; ho bisogno di non reagire emotivamente ai condizionamenti esterni per non perdere il mio equilibrio. Devo fare la macchina. Devo, porca miseria. Mi chiedo cosa mi costi lasciarmi volere bene. Nulla ed infatti mi sforzo di non allontanare nessuno, di far si che i sentimenti altrui non vengano in alcun modo frustrati. Da parte mia però, come ho detto, non posso restituire altrettanta convinzione, altrettanto coinvolgimento. Vedete, stamattina mentre mi dirigevo al lavoro pensavo all’incipit di questo post, avevo un’idea di cosa scrivere ed ero convinto di voler trasmettere un certo messaggio. In quel momento desideravo solo una segretaria che prendesse appunti di tutto ciò che mi stesse passando per il cranio. Per quanto ambisca a scrivere “in tempo reale” non sempre ottengo l’obiettivo sperato. Sono le 17. 30, seduto all’interno di una carrozza rumorosissima, il mio portatile sulle gambe e cerco di mettere insieme quello che resta del pensiero originario. Mi strugge sapere che qualcuno sta male per la mia incapacità di comunicare emotivamente, davvero. Mi esalto all’idea di rendere certe semplici comunicazioni virtuali possibili incontri. In fondo è di questo che ho bisogno. Ma tra la mia potenziale felicità e la comunicazione virtuale vi è sempre una voragine ed il filo che unisce i due punti è sottilissimo. Tutto questo, alla luce della mia nuova vita da due anni a questa parte ha qualcosa di incredibilmente assurdo. Avrei immaginato un mondo nel quale Enzo si sarebbe preso una bella rivincita. Ed invece mi ritrovo a tirare pugni nell’aria e al solito scopo di sopravvivere. Se vivere significa se non essere felici quanto meno partecipare, io il mio contributo lo do. A modo mio. Pensieri scoordinati all’interno di un vagone rumoroso. Più di questo non posso fare.

 
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lunedì 7 gennaio 2013

Fessure di tempo

E

bbene si ricomincia. I tempi, i soliti sono quelli dettati dagli orari dei tabelloni, dalle coincidenze della metro, dai portici di Piazza Statuto. Oggi sono tornate le sarabande studentesche ad ingombrare il passo, ad ostruire il lato sinistro delle scale mobili. Il loro barcamenarsi goffo e trasandato. Tutta invidia, si dirà. Ho modo di confinare gran parte dei miei pensieri in un angolo della stanza salvo riprenderli quando si fa sera, sonno permettendo. Talvolta, come ora, faccio pure lo sforzo di renderne parola scritta quasi fosse una necessità, un’impellenza fisiologica, un modo per liberarmene. Quando hai tempo non sfrutti adeguatamente le risorse e rinunci alle passioni; quando non lo hai lo cerchi e non vedi l’ora di tornarne ad avere a disposizione. Stranezze. L’inizio dell’anno mi vorrebbe subito in gioco, ma in realtà non ho fatto promesse o proclami con il megafono; sono sempre io, con le mie contraddizioni. Nel corso dell’ultimo fine settimana sono pure tornati i fantasmi; mi sono reso conto che la solitudine non è così bella come la dipingo, che ad essere onesti fino in fondo si potrebbe stare meglio con qualcuno al fianco. Mi è stato regalato un anello per Natale che ho infilato all’anulare sinistro: mi è anche stato fatto notare che così facendo dò ad intendere che sono fidanzato e che quindi mi pregiudico ogni possibilità. Non ci avevo minimamente pensato, tanto è forte la convinzione che la mia vita proseguirà sul binario unico dell’isolamento. Tra i miei lettori vi è anche chi al mattino mi guarda negli occhi e mi dice ciò che pensa. Adoro questo momento. “Tu non puoi non essere cuore; se fosse così, dimmi cosa provi verso i tuoi genitori”. E a quel punto parte la filippica. E parlando scopri dove sta di casa la tua freddezza, l’apparente insensibilità, l’asocialità ostentata, lo spiccato egocentrismo, il cinismo. Però, mi chiedo, avrò anche costruito una corazza ma chi e cosa potrebbe distruggermela tanto è forte ed inespugnabile? Forse dovrei smetterla di vantarmene e continuare a vivere facendo passi piccolissimi; cercando di infilare nelle fessure di tempo che il ritmo folle della vita ti lascia, ciò che è fortemente mio. Gira che ti rigira però, parlo di me e sono ancora lontano dall’ipotizzare qualcosa che si avvicini al concetto di condivisione. Libere riflessioni all’interno di una fessura di tempo.

 
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domenica 6 gennaio 2013

Lettera aperta

M

ettiamo in chiaro alcune cose una volta per tutte e a buon intenditor poche parole, no? Io non sono “testa”. Ho gettato nel cestino tutte quelle mirabolanti teorie sulla ragione e la sua presunta capacità di gestire ciò che riguarda gli umani e le relazioni. Non si può vivere di testa, è una forzatura; il cervello portato all’esasperazione prima o poi scoppia. Usare la ragione per confinare i rapporti a qualcosa di gestibile è pura utopia. Non sono “cuore” perché non mi affeziono o meglio, sono contento che gli altri si leghino a me ma io non so fare altrettanto. Non vi dedico tempo, passione, non sono costante non so pronunciare fatidiche parole come “ti voglio bene”. Figuriamoci “ti amo”: mai fatto in vita mia. Non posso continuamente essere costretto a ripetere che voglio bene a modo mio; il “mio modo” non prevede quasi mai la ricerca dell’altro, l’opera di semina e coltivazione della pianticella dell’amicizia. Non sono dunque “azione”. Non agisco perché non mi sento stimolato a farlo, perché fino a che sono gli altri a cercarmi va bene, altrimenti io mi dissolvo come la nebbia al sole caldo. Non agisco perché ho troppi pensieri che mi riguardano, perché i miei problemi sono sempre più importanti di quelli degli altri; non sono bravo a tenere a mente tutte le storie, a preoccuparmi di tutti, faccio già fatica a farlo con me. Io sono puro “istinto”. Sono quello che scrivo ovvero sono tutto e niente, sono vittimismo esasperato e boria improvvisa. Io sono “reazione”. Sempre piedi a terra, sempre aderente alle mie più radicate convinzioni, inserisco la quarta se stimolato, se colpito nei miei pregiudizi verso gli altri, nel mio piccolo mondo fatto di personali sicurezze. Sono “rabbia”. Represso e oppresso; il genere umano è il centro del bersaglio dei momenti in cui ho bisogno di scaricare le mie preoccupazioni. Sono “passione”. Amo fare le cose che mi piacciono, e sono pochissime. Vivo ciò che mi rende felice in totale solitudine, convinto che nessuno potrebbe viverle come le vivo io, nessuno potrebbe essere in grado di sentirle e condividerle con la mia stessa intensità. Sono “umiltà ed egocentrismo”, “ modestia e presunzione”. Sono mio malgrado, “sincerità”. Condannatemi per ciò che sono, per ciò che scrivo, ma ci vogliono le palle per vivere nella totale apertura di pensiero e nel farne lettera aperta. Si sa che al giorno d’oggi nulla paga più della artefatta costruzione di cuore e testa. Io non sono né l’uno né l’altra. Non seguitemi se pensate di cambiarmi.

 
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sabato 5 gennaio 2013

La luce di Gennaio

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a luce di Gennaio è speciale. Non ho mai nascosto di essere meteoropatico, di volerla la luce, sempre e comunque. Mister Inverno è qui, nel pieno delle forze; di lui amo queste giornate illuminate dal sole, così incapace di scaldare, ma straordinariamente terapeutico. Il mio umore è comunque ballerino, i miei articoli ora più che mai, l’uno l’esatto contrario dell’altro. C’è chi ormai mi conosce bene e ha capito che sta proprio lì la vera essenza di Enzo. Nella sua variabilità, nel suo dire e contraddire, nel suo alzarsi e cadere in continuazione. Quell’Enzo lì, sembrerebbe avere persino un cuore. Sarà colpa del sole di Gennaio? Cosa c’è di magico in questa luce? Trasmetto un’immagine di uomo sensibile, ma davvero? E quel complesso di ingranaggi che credo fortemente di rappresentare? Riconosco che ci sto bene ad essere voluto bene. Alcuni di noi ( me compreso ) rifuggono dal cuore e dai sentimenti per non affrontare le paure più recondite. Ma non siamo dei vigliacchi. Perché continuiamo a vivere, eccome se lo facciamo. Ci siamo mai chiesti come appariamo agli occhi degli altri? Ci chiediamo se gli altri sono in grado di percepire i nostri cambiamenti? Ma poi a noi, quanto interessa? Il sole di Gennaio ad esempio mi induce a rivolgere pensieri pieni di positività alle mie grandi passioni: la bicicletta, la mia reflex. Questo viene percepito ed è apprezzato. Bene o male però sono oggetti, e su di loro infondiamo la nostra capacità di amare. Li possediamo, sono parte di noi. Sono sereno quando penso a tutto questo, perché mi piaccio e sento che il mio lavoro non è inutile. Non devo mai guardare oltre, mai alzare la testa per capire cosa c’è al di là dell’ultimo traguardo raggiunto, cosa potrebbe darmi un’ulteriore motivazione a proseguire nella mia ricerca continua. Ma gli altri? I dintorni. I dintorni di Enzo, anche in questa fase sono le persone, quegli umani che accentuano la mia condizione di alieno ma che sto gradatamente smettendo di odiare, di biasimare. Che colpa ne hanno loro se ho impostato la mia vita in modo tale che la mia felicità dovrà prescindere da loro? Non posso fare diversamente. Se qualcuno mi vede sereno, è felice per questo, non stiamo tutti bene? Il quadretto è completo. E ancora una volta mi trovo a ribadire la ragione del malessere che sta essenzialmente nell’obiettivo che mi sono posto. Proseguo dunque su questa strada. Sono ben lontano dalla consapevolezza di avere un cuore. Siamo solo a Gennaio, però.

 
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venerdì 4 gennaio 2013

Non mi basto mai

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evo ringraziare alcuni lettori ( ancor prima amici ) che mi stanno fornendo alcuni ottimi spunti per scrivere e trattare qualcosa di serio. Questo diario ha attraversato fasi alterne dettate innanzitutto dall’umore e dalle motivazioni di chi scrive. I contenuti ne hanno risentito ma quasi sempre i fogli sono stati la fedele riproduzione del momento particolare. Il tema dell’amicizia è stato predominante in un momento della mia vita dove, alla solitudine quotidiana si accompagnava la tragedia della mancanza di un lavoro fisso. Le mie riflessioni di allora erano istintive, rabbiose, colpevolizzanti verso l’esterno, vittimistiche. Su di me poco lavoro, se non il solito esercizio di fustigazione. L’inizio dell’avventura Torinese aveva poi innescato il timore di cambiare radicalmente, di diventare uno dei tanti, di non aver più motivo di lavorare su me stesso. Mancanza di tempo, stanchezza, e chi più ne ha più ne metta. Macché. Sono stato bravo con il tempo ad isolare lavoro e vita. E le mie turbe sono tornate. Ho cominciato così a lavorare di più interiormente prendendo coscienza di quanto le mie difficoltà di relazione non fossero di certo legate alla mancanza di un lavoro e al livello di autostima sotto i tacchi. Il problema ero e sono io. Negli ultimi mesi l’argomento è stato trito e ritrito. Cosa cerco? Dove vado? Perché sono diventato così razionale e mi sono isolato dal mondo? Di una cosa sono certo: mi muovo in direzione di un apparente obiettivo, poi quasi raggiunta la meta, mi tiro indietro. Qualcuno è a perfetta conoscenza del mio standard di comportamento non appena si fa largo la netta sensazione che stia entrando nella mia vita qualcuno di importante. Cosa faccio? Per paura di perderlo, faccio di tutto per allontanarlo. Ma la sostanza è che se lo faccio, è per paura di star male. Leggo….”Mi devo bastare”. Domanda: “Quanto basto a me stesso?”. “Quanto realmente ho bisogno di qualcuno”? “Posso lasciare che gli altri mi vogliano bene e al tempo stesso rimanere me stesso?”. Intendo, razionale, un po’ insensibile, insomma… Enzo? Forse si. Riassumendo, io rimango me stesso, gli altri mi vogliono bene, io rispetto le distanze. Ma come faccio confessare che c’è qualcosa più importante degli altri? E’ la mia assurda ma innata voglia di qualcosa che non è percepibile ai più e che prescinde dalle relazioni. Sono pervaso dalla ragione, lo so. Mi domando: “A cosa mi servi, cuore?”. Usare la testa mi fa soffrire ma mi fa sentire vivo; usare il cuore, non mi regala la stessa soddisfazione. Sono sereno, si. A mio modo, come sempre. Abbiate pazienza.

 
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giovedì 3 gennaio 2013

Limiti

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n uomo che usa il cervello non perde mai il suo tempo. Nemmeno quando ne ha d’avanzo e lo stato di alienazione diventa un macigno che finisce dritto su di una piuma. Un uomo che ragiona, che si fa male nel farlo, è un uomo di spessore. Si contorce, compie movimenti improbabili, rischia di finire attorcigliato su se stesso. Ma dove ha lasciato il cuore? Dove, i sentimenti? Me lo chiedo anch’io. Un uomo che cerca qualcosa, che affina la sua ricerca attraverso la conoscenza di se stesso, non ha bisogno di “sentire”. Solo di capire. I sentimenti sono alla portata di tutti, la ragione è di pochi. Il periodo Natalizio esaspera le condizioni di ognuno. Nel bene e nel male. Chi come me sta vivendo una fase di chiusura a riccio su se stesso, non aveva molte alternative: sfruttare il tempo per capire oppure lasciarsi andare a sensazioni negative, ad immaginare scenari catastrofici. Non sono caduto nella trappola; ho scelto di pensare in positivo e per me, pensare positivo significa ragionare senza l’assillo di capire. E come a volte accade, quando non vuoi una cosa, la ottieni. Mi sono svegliato nel 2013 consapevole del fatto che la strada per la serenità non passa necessariamente attraverso il sentimento e le sue forme di espressione. Esse sono l’essenza della fragilità umana. Di cosa l’uomo può disporre a piacimento potendone fare l’uso che più gli aggrada? Del sentimento, ovvio. Si può dire lo stesso della ragione? Non tutti ne sono provvisti, pochissimi quelli bravi a farne uso. Ho capito che la ragione ci può indurre all’accettazione consapevole dei limiti dell’umano e dei rapporti sociali. Possiamo facilmente gestire l’altro, abbiamo concrete chance di riuscire a sopravvivere alle relazioni nella misura in cui le collochiamo all’interno di limiti ad esse intrinseci. E chi non si accontenta? Generalmente vuole vivere, non sopravvivere. E ritiene che per un’esistenza che abbia senso la felicità la si debba trovare innanzitutto dentro se stessi. La strada in questo senso è tortuosa, a volte disseminata di frecce che indicano un traguardo che non esiste. Inganniamo noi stessi, ma siamo assolutamente ostinati. Agli occhi del mondo viviamo male, abbiamo solo tanto tempo da sprecare. Non gli crediamo, sappiamo che probabilmente viviamo due vite parallele. Quando mi curvo su questi fogli, probabilmente compio un passo inutile alla ricerca di qualcosa che non esiste. Provate ad impedirmelo. Non ci riuscirà nessuno, perché provo piacere a scrivere di me, a cercare di capire se mentre scrivo realizzo qualcosa. Attenzione, non sto perdendo tempo, forse per alcuni lo utilizzo male, ma meglio così che riempirlo di niente.

 
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martedì 1 gennaio 2013

Arrivi e partenze

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a valigetta, l’orologio, il tabellone degli arrivi e delle partenze, le facce stanche. Rieccomi al binario. Ho pesi enormi da caricare sul treno del nuovo anno, il viaggio del resto sarà lungo. Ho sacchi pieni di buoni propositi, promesse, positività. Dove mi porterà questo treno non lo so, ma l’ultima stazione l’ho trovata affollata di gente che mi abbracciava, mi dava consigli, mi sollecitava a dare una svolta alla mia vita, a non odiarla. Ho provato ad ascoltare tutti e tutti sembravano sinceri, realmente preoccupati della mia sorte, della piega che la mia vita sta prendendo. Ho degli amici. Qualcuno mi ha consigliato di pensare un po’ di più ai problemi altrui evitando così il rischio di tediare tutti con i miei. Altri mi hanno chiesto di smetterla con il cinismo, con l’astio perenne verso il mondo. I più invece, mi hanno spronato a concentrarmi solo sui miei obiettivi. Ammesso che io sappia quali siano. L’anno appena trascorso ha evidenziato ( se ce ne fosse stato ancora bisogno ) la mia grande paura di vivere, il terrore di alzarmi in volo e di rischiare. E che dire della continua ricerca di qualcosa che poi è esattamente l’opposto di ciò che vado desiderando? Insomma, mi sono lasciato andare facendo in modo che tutto di me venisse a galla, scoprendo le ferite aperte, smontando piano piano la corazza di finzione e freddezza costruita a forza di rabbia. E mano a mano che Enzo veniva fuori, con lui il sentimento esasperato, senza controllo, devastante e doloroso nelle sue fasi più intense. Un uomo razionale, di ghiaccio, ma anche un bambino fragile, piagnone, capriccioso. Riparto con la sola grande aspirazione di non abbandonare mai me stesso, di non far si che io possa cambiare in nome di un obiettivo. Non so ( e non lo posso sapere ) quale sarà la mia destinazione, cosa tornerò a scrivere, chi e come mi farà soffrire e gioire. Non conosco il reale significato di felicità, di positività, di ottimismo ma non perché goda a rendermi la vita difficile; probabilmente ne ho una percezione non comune a molti. Credo che non esistano momenti precisi della vita in cui fare promesse da marinaio a se stessi; in fondo perché dovrei farle oggi, uno dei tanti Martedì? Posso solo immaginare di ritrovarmi nella solita stazione, sul binario di partenza. Sto per salire: cosa faccio? Mi limiterò a guardare dal finestrino il paesaggio che mi scorre sotto gli occhi? Nessuna promessa, nessun proclama. Solo forza, passione, vita, gioia e dolore. Tutto a mio modo, come sempre. Ora salgo.

 
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